“La vita è quello che ti succede mentre sei occupato a fare altri progetti”. Una pandemia mondiale forse non era esattamente quello a cui stava pensando John Lennon mentre scriveva questo verso -conoscendolo sarà sicuramente stato qualcosa di più esistenziale-, ma in qualche modo esso può racchiudere quanto ci è successo in queste settimane. Si è messo di traverso nelle vite di tutti qualcosa di più grande, di enorme e inaspettato per cui i nostri impegni, per quanto importanti potessero essere, dovevano aspettare.

Persone da incontrare, cose da fare, posti da visitare: una meticolosa pianificazione fatta nei mesi precedenti incastrando mille variabili è stata spazzata via, come un castello di sabbia da una onda più alta delle altre. Dall’oggi al domani abbiamo dovuto cancellare incontri e riunioni, recuperare documenti e appunti sparsi sulla scrivania, che “chissà, magari possono servire” e barricarci in casa. E poi il frenetico scorrere dei nostri schermi e le telefonate fatte nel tentativo di reperire indicazioni e aggiornamenti, per condividere pensieri e preoccupazioni, per cercare di riorganizzarsi.

Da tutto questo caos non è stata risparmiata la nostra associazione, che si occupa di minori con disabilità e delle loro famiglie, con iniziative diverse che vanno da laboratori per i ragazzi a percorsi di sostegno psicologico. La quarantena ha inizialmente sospeso tutto, poi col passare delle giornate abbiamo riattivato il supporto individuale e i laboratori a distanza, tutti dietro a uno schermo, ognuno al sicuro in casa propria. Perché dopo il primo pensiero del “non si può più”, si realizza che certo questa condizione è disorientante e complicata per tutti ma lo è ancora di più per chi vive già normalmente uno stato di fragilità. Che non è vero che questo virus è una livella perché colpisce tutti allo stesso modo. La quarantena sarà meno dura per chi ha una casa più grande invece di un monolocale, più serena per chi ha dei soldi da parte e non deve lavorare anche solo per potersi permettere di fare la spesa. Allo stesso modo per chi ha una disabilità, fisica o mentale, o vive con una persona che ne è affetta, questa quarantena sarà molto più dura che per gli altri. Questa consapevolezza che riguarda sia in generale la società in cui viviamo sia le persone di cui ci prendiamo cura ogni giorno, ci ha fatto capire che non potevamo semplicemente “chiudere tutto”.

Buongiorno signora sono la Dottoressa C. di Area, la chiamo per sapere come state, lei e Sara. La prima reazione è di silenzio, forse per lo stupore di chi non si aspettava di ricevere quella telefonata.
Miriam è la madre di Sara, bambina di sei anni gravemente autistica. Era venuta in associazione per un incontro conoscitivo qualche settimana prima, ed era stato molto difficile seguirla mentre parlava: il suo racconto era molto frammentato, e lei lo aveva sussurrato appena. Si intuiva chiaramente però che la sua storia nel paese di origine era costellata di violenza, abusi e abbandoni. Miriam parla anche della sua bambina, senza apparente sofferenza e con un distacco quasi professionale, forse perché ha già dovuto raccontare della figlia e dei suoi problemi decine di volte a vari conoscenti, dottori e specialisti. Scandisce con orgoglio e dettagliata precisione tutte le attività che Sara svolge durante la settimana, la fitta rete che è riuscita a tessere attorno a lei, che sostiene entrambe e che ora è completamente saltata. Niente più affidatari, né logopedisti né insegnanti di sostegno. Restano chiuse la scuola, la piscina e l’associazione. Le maestre continuano a mandare compiti sul gruppo di classe, però sua figlia quei compiti non è in grado di farli e lei si vergogna a dirlo. Con il marito al lavoro, c’è solo lei adesso e deve bastare a ogni ora del giorno, tutti i giorni. Un po’ la aiutano gli altri figli, ma lei non si fida: quando esce a fare la spesa chiude le serrande perché la bambina se non è tenuta d’occhio sempre rischia di cadere dalla finestra. Fare la spesa in questo periodo è diventato angosciante, c’è il rischio di passare ore fuori di casa perché c’è una coda infinita, ma non ci sono alternative. Mi limito a dirle che può chiedere una mano, può chiedere a noi. E può chiedere alle maestre di classe di pensare anche alla sua bambina, che non ha motivi per vergognarsi. La signora mi ringrazia per averla chiamata e il giorno dopo mi fa sapere che le maestre le hanno inviato il materiale per Sara, scusandosi.

Buongiorno signora, la chiamo per sapere come sta. A rispondere è Rosa, la mamma di un ragazzo che frequenta da qualche anno un nostro progetto per adolescenti. Lei è capo infermiera di un ospedale a *** e già qualche giorno prima della chiusura dell’associazione aveva detto alla Dottoressa C. di essere preoccupata per la situazione e per la tenuta delle terapie intensive. Abbiamo atteso qualche giorno prima di chiamarla perché la immaginavamo sommersa di lavoro e temevamo quasi di disturbarla. Fatichiamo a pensare di poterle essere di aiuto in questo momento. Quando finalmente la contattiamo, la collega la trova estremamente bisognosa di parlare: sta lavorando ma le fa piacere staccare un attimo. Mentre il figlio pare tranquillo, è difficile per lei gestire le angosce che arrivano da ogni fronte in ospedale. Le infermiere hanno il terrore di ammalarsi e di infettare i propri figli ed è angosciante anche la vicinanza coi pazienti: sono loro infatti a dover aggiornare le famiglie sulla salute dei loro cari e sono sempre loro a dover star accanto ai malati. A fronte di tutto questo forse non c’è tanto spazio per pensare al figlio, alla paura per lui e alle sue angosce. Dico alla signora che noi ci siamo e che se è d’accordo la richiamerò nei prossimi giorni. Lei accetta volentieri e mi ringrazia.

Infine c’è Irina, Buongiorno sono la Dottoressa C., la chiamo per sapere come sta, e come sta suo figlio. Madre e figlio stanno affrontando quella particolare fase pre-adolescenziale caratterizzata da una inevitabile ambivalenza: per Irina, Anton deve assolutamente crescere e diventare autonomo, ma allo stesso tempo non può esistere un figlio al di fuori di quell’Anton malato e bisognoso di cure, mediche ma soprattutto materne. Al telefono racconta di una situazione che sembra tranquilla, in casa non c’è traccia di angoscia da pandemia nonostante il figlio sia immunodepresso. La scuola si è organizzata per le lezioni online, ma Anton vuole parlare solo con il suo insegnante di sostegno e con l’educatore, si rifiuta di partecipare con i compagni di classe, e l’unico contatto con i coetanei è con alcuni di loro per giocare online e nient’altro. Sembra quasi tranquillizzato dalla quarantena, la sta vivendo come una sorta di rifugio rassicurante che lo autorizza a non doversi confrontare con una socializzazione che evidentemente per lui era ed è molto difficile. Anche lei sembra più tranquilla, ma l’isolamento obbligato sta favorendo un ripiegamento regressivo e simbiotico con la madre che lei stessa sta assecondando, non spingendo il figlio a cercare i compagni.
Nel frattempo sono iniziate le attività a distanza, Anton ha potuto e voluto rincontrare online gli altri ragazzi del laboratorio, invece Irina racconta di una crescente difficoltà e stanchezza. Adesso la chiusura e la rinnovata simbiosi con il figlio, se da un lato la rassicurano, dall’altro la consumano, aveva già vissuto la cura e l’accudimento ventiquattro ore su ventiquattro: “piano piano ero uscita da tutto questo … Anton stava meglio e io ero riuscita a fidarmi di altre persone, stavo trovando un po’ di spazio per me … ma ora siamo tornati indietro”.

In questa assurda e tragica situazione per queste famiglie la dimensione simbiotica rischia di essere schiacciante, e il sostegno di qualcuno che faccia sentire la possibilità di una condivisione, che permetta di pensare ad un “dopo” possibile è di vitale importanza. Una semplice telefonata può riattivare questa preziosa funzione, può ricordare che la capacità di fidarsi e affidarsi non è persa ma può continuare a essere nutrita, e contenere l’angoscia e il disorientamento.
Il nostro lavoro consiste in primo luogo nel comunicare che, anche a distanza, la relazione non si interrompe, gli operatori continuano a esserci e a essere disposti ad ascoltare. Si tratta di una separazione, necessaria per tutelare la salute di tutti, non di un abbandono: quella che cambia è la modalità che consente di mantenere il contatto, il legame. Certo la condivisione sarà mediata, mancheranno gli sguardi e le strette di mano, ma continueranno esserci parole e silenzi, ascolto ed emozioni. Abbiamo sperimentato ancora una volta che la distanza fisica non è sufficiente per creare una frattura irrimediabile, che il vero contenitore, il setting che abitiamo con le famiglie che accogliamo, non è fatto dalle mura tra cui ci si incontra, ma è costituito dalla relazione stessa, che continua a vivere anche con modalità diverse di condivisione e incontro.