La scrittura è un processo complesso e articolato che è divenuto oggetto di studi interdisciplinari solo recentemente, quando il processo di alfabetizzazione viene descritto in termini di attività complessa con aspetti cognitivi, sociali, culturali oltre che grafomotori e percettivi.

La lingua scritta è infatti un complesso sistema di segni e simboli, la cui acquisizione è in relazione con le capacità di discriminazione visiva e uditiva, coordinamento oculo-manuale, ma anche consapevolezza linguistica e metalinguistica. Ma quando la capacità di scrivere è troppo difficoltosa o compromessa? Come possiamo aiutare i bambini a mantenere il piacere della narrazione utilizzando magari altri strumenti per farlo?

Nella tradizione delle culture alfabetiche il testo scritto è costituito da segni inseriti in un contesto visuo-spaziale che assumono un valore testuale, poiché insieme quei segni costituiscono un nuovo artefatto culturale. Per sapere gestire la composizione del testo scritto il bambino dovrà acquisire apprendimenti a vari livelli, con un impegno cognitivo non indifferente nel gestire un sistema comunicativo diverso dalla conversazione, a cui è stato abituato da sempre.

Ma dentro il testo, nella sua accezione di “trama” o “tessuto”, il bambino è immerso da sempre, soprattutto attraverso le narrazioni che gli vengono proposte fin dalla nascita e che costituiscono il precursore delle future abilità compositive: infatti, lo sviluppo della competenza testuale precede la produzione scritta autonoma. Cosa significa questo? La narrazione di storie è una capacità spontanea che avviene in modo naturale per adulti e bambini, che trovano nella storia la forma privilegiata per attribuire significato alla realtà circostante. In particolare con i miti e le leggende i racconti diventano anche uno strumento di socializzazione, che i genitori usano per spiegare i valori e le credenze della propria cultura. Jerome Bruner ha parlato a questo proposito di “pensiero narrativo”, ovvero della modalità cognitiva con cui le persone strutturano l’esperienza e organizzano la propria conoscenza del mondo. Il bambino, narrando, creando storie, chiarisce i propri pensieri e le proprie emozioni, ripensa e organizza le proprie esperienze e si percepisce come soggetto dotato di autonomia e intenzionalità.

Questa capacità così naturale e spontanea, nel corso dello sviluppo evolutivo del bambino, sfocerà nella capacità di narrazione attraverso un codice scritto, ovvero nella produzione e scrittura di testi. Ovviamente sarà un percorso articolato e graduale, che richiederà tempo ed energie.

Inizialmente i bambini sono impegnanti nella memorizzazione dei grafemi e della loro corrispondenza con i fonemi, da gestire in uno spazio – il foglio – preciso e delimitato. Non per tutti i bambini queste richieste sono automatiche e immediate, ma può anzi capitare che alcuni bambini incontrino delle difficoltà a vari livelli. L’acquisizione di questa competenza dipende infatti dall’integrazione di diversi fattori, pertanto se una o più di queste componenti fallisce nella sua naturale evoluzione ci possono essere conseguenze diverse nell’apprendimento della scrittura. In particolare, alcune componenti risultano specifiche della scrittura, come la grafia, il controllo ortografico e lo sviluppo lessicale.

L’esempio più caratteristico di disturbo specifico di questo aspetto è la disgrafia, dove il bambino incontra difficoltà nel riprodurre i segni alfabetici e numerici e riguarda nello specifico la componente motoria della programmazione ed esecuzione del gesto grafico. In caso di disgrafia è importante seguire un programma di potenziamento che possa tener presente le diverse caratteristiche della scrittura disgrafica in modo da lavorare in modo personalizzato e specifico.

È poi opportuno trovare un percorso di compensazione delle specifiche difficoltà che possa far emergere le risorse del bambino e avviarlo ad una serena costruzione del proprio percorso di apprendimento. Ad esempio sarà utile far utilizzare al bambino con disgrafia programmi di videoscrittura o altri editor di testi dotati di correttore ortografico, oppure utilizzare la propria voce per scrivere direttamente sul computer o tablet attraverso un programma “speech-to-text”, ovvero un software di riconoscimento vocale che permette di “trasformare” rapidamente la propria voce in testo scritto (come Dragon NaturallySpeaking Home o Speechnotes).

L’importanza di questi strumenti e del loro utilizzo sta proprio nel permettere al bambino anche se ancora piccolo di continuare a produrre testi, per continuare a mantenere intatta la propria capacità di narrazione e di produzione scritta. Spesso in classe l’utilizzo di un pc per scrivere viene vissuto in modo frustrante perché denota una differenza, tuttavia è fondamentale per un ragazzo disgrafico alleggerire il carico cognitivo derivante dalla scrittura a mano per preservare energie alla produzione e alla riflessione rispetto all’attività da svolgere. Adesso ci sono moltissimi software, gratuiti o a pagamento, per impratichirsi nell’utilizzo della tastiera e diventare più veloci nella scrittura, che si possono consultare facilmente nel nostro catalogo on line. Purtroppo se il bambino vive con fatica l’attività di produzione scritta tenderà a evitarla o a renderla breve e stringata ai minimi termini, senza percepire la bellezza e la ricchezza della narrazione. Per questo è fondamentale accompagnarlo nel percorso di avvicinamento alla videoscrittura e renderlo sempre più sicuro e autonomo in questa competenza.

In questi giorni di Didattica a Distanza nulla gioca maggiormente a favore dei bambini con difficoltà di scrittura rispetto alla possibilità di scrivere al computer e al tablet, attività che andrebbe comunque favorita e incentivata durante tutto l’anno scolastico. Ad esempio tra le diverse attività di scrittura che si possono proporre a casa c’è la creazione di libri e storie, utilizzando il conosciuto Power Point o anche con il sostegno di siti appositi come bookcreator.com. Per i ragazzi più grandi idee interessanti sono ad esempio la creazione di blog e diari personali.

Le proposte per continuare a scrivere al di là delle difficoltà disgrafiche sono molte ed interessanti: occorre proporle con gradualità tenendo sempre ben presente gli aspetti di creatività e fantasia personali collegati alla produzione narrativa, che non devono mai mancare nel percorso scolastico del bambino!

C’è un mondo di storie da scoprire!

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Quando parliamo di didattica laboratoriale ci riferiamo a una metodologia didattica che affonda le sue radici nel Learning by doing, l’apprendimento attraverso il fare.

Già Jean Piaget nel 1956 scriveva: “L’intelligenza è un sistema di operazioni… L’operazione non è altro che azione: un’azione reale, ma interiorizzata, divenuta reversibile. Perché il bambino giunga a combinare delle operazioni, si tratti di operazioni numeriche o di operazioni spaziali, è necessario che abbia manipolato, è necessario che abbia agito, sperimentato non solo su disegni ma su un materiale reale, su oggetti fisici”.

Ma è con i lavori di John Dewey che l’apprendimento attraverso l’esperienza viene calato maggiormente nel contesto scolastico. La scuola che immagina Dewey è un ambiente in cui l’insegnamento non si basa sulla trasmissione di nozioni da imparare a memoria, bensì sull’attività volontaria del bambino, occupato in lavori che rispondono ai suoi interessi e ai suoi bisogni. La convinzione è quindi quella di porre i ragazzi a contatto con attività concrete (cucinare, coltivare orto, costruzione di manufatti …) per arrivare ad affrontare le diverse discipline scolastiche a partire proprio da domande e questioni rilevate durante le loro attività.

Attualmente possiamo ritrovare queste considerazioni nelle strategie didattiche che offrono ai ragazzi esperienze concrete su cui riflettere e si basano più sul fare che sull’ascoltare le informazioni degli insegnanti. Quella che attualmente si chiama “didattica laboratoriale” nasce proprio dalla consapevolezza che i ragazzi imparano con maggiore facilità attraverso un fare concreto e se compartecipano alla costruzione del proprio apprendimento attraverso esperienze degne di significato per loro.

Il laboratorio non è quindi un momento separato e staccato dalla quotidiana realtà scolastica, ma una modalità di operare trasversale alla prassi didattica; diventa qualsiasi proposta in cui l’allievo lavora con i compagni, attraverso diverse modalità di apprendimento, per la realizzazione di un progetto o la soluzione di una situazione problematica. Siamo perfettamente in linea con un apprendimento per competenze, dove la competenza, però, non è solo il risultato di una pratica ma deriva delle riflessioni e interiorizzazioni del processo di apprendimento sperimentato.

In questo background culturale nascono recentemente molte proposte didattiche che offrono la possibilità ai bambini di rielaborare i contenuti appresi attraverso il “fare”. Tra questi abbiamo il lapbook, dal termine inglese “lap” che significa “grembo” o dal verbo “to lap” che significa “avvolgere, piegare, ripiegare, sovrapporre, sovrapporsi”. Questa metodologia dà la possibilità di creare un contenuto nuovo a partire dal tema studiato, creando un insieme di materiali elaborati in modo tridimensionale che sintetizzano l’argomento studiato dal bambino.

La forma tridimensionale del lapbook è data dalla presenza di una serie di minibook e di template, che insieme caratterizzano una mappa interattiva che è costruita e in seguito consultata dallo studente. Spesso si presenta come una cartelletta di varie dimensioni in base all’uso e alle necessità dello studente. In questa cartelletta possono essere applicati dei fogli o delle piccole “tasche” che contengono altre informazioni circa l’argomento studiato; queste informazioni possono essere di forme e dimensioni diverse e si basano sulla fantasia del bambino. In ambito scolastico, il lapbook è sempre più integrato all’interno della didattica del docente che in diverse fasi può introdurre questa metodologia al fine di migliorare le capacità di apprendimento e di conoscenza dei suoi studenti.

Questo comporta la definizione di un metodo di studio personalizzato in base alle naturali capacità e caratteristiche dello studente; è una metodologia laboratoriale che si basa molto sulla creatività e sulle capacità manuali personali.

In questa prospettiva l’insegnante non deve limitarsi a fornire agli studenti dei materiali già pronti ma piuttosto deve stimolarli nella costruzione di nuovi, al fine di motivarli nel processo di apprendimento e di costruzione dei contenuti. L’insegnamento diviene altamente personalizzato e ad ogni alunno si attribuisce un’importanza primaria, con le sue potenzialità, risorse e motivazioni.

In questa prospettiva la didattica laboratoriale offre degli spazi che diventano dei luoghi multidimensionali, in quanto favoriscono la motivazione, perché l’impegno è generato da un apprendimento visibile, utile e concreto e sviluppano la creatività, perché la rielaborazione nasce da domande a cui si può rispondere mettendo in atto strategie e conoscenze diverse. Ma non solo: la didattica laboratoriale è lo spazio della personalizzazione, in quanto si offrono più proposte didattiche che possono rispondere alle diverse esigenze e stili di apprendimento e accresce la socializzazione poiché si impara a lavorare insieme e a costruire conoscenze condivise.

L’apprendimento laboratoriale è quindi un’ottima opportunità per una scuola centrata sul benessere del singolo studente e su una proposta inclusiva e partecipata, che stimola la pratica riflessiva sul proprio operato e sollecita l’originalità e l’apporto individuale di ciascuno.

Il piacere della lettura è un interesse che nasce da piccolissimi: la lettura ad alta voce, ormai è risaputo, è un importantissimo strumento innanzi tutto per la creazione del legame genitore-bambino e poi per coltivare il desiderio e il piacere di leggere un bel libro. Ma quando la competenza di lettura nel bambino pare deficitaria e stentata come fare per poter fargli assaporare comunque il piacere di leggere?

Quando parliamo di lettura ci riferiamo ad una competenza che ha le sue basi ben prima dell’inizio della scolarizzazione con la scuola elementare; la “lettura ad alta voce” che può fornire un genitore fin dalla tenerissima età è un precursore fondamentale per instaurare nel bambino il desiderio di leggere, ma non solo. Quando un genitore legge una storia al figlio si forma un dialogo vero e proprio; il bambino conosce nuove parole e nuovi significati che verranno via via interiorizzati e sviluppa le capacità di attenzione e di ascolto focalizzato. E’ probabile che il bambino si interessi particolarmente a una storia; si affeziona ai personaggi e alle loro vicende imparando a conoscere esperienze che potrà vivere in futuro o che, magari, non avrà mai la possibilità di farlo.

Proprio per l’importanza della lettura ad alta voce e accessibile a tutti i bambini, Area propone un catalogo on line con moltissime recensioni di libri adatti a tutte le fasce di età e per tutti i bambini.

All’inizio del suo percorso scolastico il bambino sa benissimo che ”imparare a leggere” è una richiesta fondamentale per poter accedere alla maggior parte delle conoscenze, scolastiche e non solo. Perciò è naturale per lui accingersi a questo percorso con desiderio e aspirazione.

Ma il processo di lettura è tutt’altro che immediato, soprattutto perché comporta innanzitutto due aspetti: la lettura strumentale, ovvero la capacità di riconoscere e nominare velocemente e correttamente le parole di un testo e la comprensione del testo, basata sulla capacità di rappresentarsi il contenuto di ciò che si sta leggendo. Proprio per questa complessità è importante stimolare i prerequisiti che possono favorire le basi per un sereno percorso di apprendimento della lettura autonoma.

Tuttavia, ci possono essere situazioni in cui il bambino fatica ad imparare a leggere in modo scorrevole, oppure ci sono difficoltà a diversi livelli (di attenzione, sensoriali, cognitive) che gli precludono questa abilità o gli richiedono uno sforzo troppo oneroso. Alcuni bambini possono vivere con disagio o vergogna il momento della lettura, anche perché si tratta di una difficoltà che spesso può non essere compresa e diventare motivo di discriminazione anche in classe.

Ma tutte queste difficoltà non devono precludere l’accesso ai libri per i bambini, perché è un patrimonio davvero troppo prezioso a cui rinunciare!

Come fare allora? Beh, esistono ormai moltissime possibilità di accesso al libro, che sono svincolate dalla corretta acquisizione del codice linguistico. Possiamo pensare agli ormai famosi audiolibri, ovvero le tracce audio che “leggono” ad alta voce il libro. Anche in questi giorni di Quarantena molte strutture hanno messo a disposizione gratuitamente molti audiolibri, più facili da essere reperiti anche a distanza rispetto ai libri cartacei (ad esempio, una bella iniziativa è illustrata su qui).

Per compensare la difficoltà di lettura nei diversi Disturbi Specifici dell’Apprendimento sono nate le diverse sintesi vocali, software “text-to-speech” che leggono ad alta voce diversi tipi di testo su supporto informatico: file pdf, word, pagine html… I diversi programmi di sintesi vocale possono variare moltissimo per la qualità della voce, poiché essendo una voce meccanica “computerizzata”, non sempre riesce a riprodurre le molteplici sfumature e tonalità della voce umana. Negli anni le sintesi vocali sono diventate disponibili su cd, chiavette usb, app…. attualmente sono anche largamente disponibili come software gratuiti, come ad esempio LeggiXMe e Balabolka, oppure Read&Write, che è un’estensione gratuita di Google Chrome.

Gli strumenti per permettere un facile accesso al testo scritto stanno diventando sempre più numerosi, perciò non facciamoci scoraggiare dalle difficoltà nella lettura strumentale che possiamo intravedere nei bambini. Anzi, sarebbe bello che nelle classi tutti i bambini avessero la possibilità di sperimentare audiolibri o letture con la sintesi vocale, perché gli strumenti sono per tutti i bambini e non solo per quelli con difficoltà. Una proposta per tutta la classe permette ai bambini di sentirsi davvero parte di essa, sperimentando le proprie capacità e mettendole a disposizione dei propri compagni. In questo periodo di Didattica a Distanza si potrebbero suggerire audiolibri o videoletture da ascoltare a casa, oppure creare file audio con la sintesi vocale di qualche lezione delle diverse discipline, da allegare magari a una presentazione.

Insomma, gli strumenti necessari per qualcuno possono diventare una risorsa per tutti. Ed in particolare… a ciascuno il suo modo di leggere perché la lettura è davvero per tutti!

Con la chiusura protratta delle scuole gli studenti non possono più frequentare la loro classe, densa di significato non solo come luogo fisico, ma per il gruppo di compagni che la forma e compone. La Didattica a Distanza, infatti, pur portando avanti il percorso di apprendimento di ciascun ragazzo, non può contare sul contesto di gruppo “in presenza” nel quale normalmente i ragazzi sono abituati ad apprendere.

Ma qual è il vero significato della classe? In che modo i compagni possono essere una risorsa per l’apprendimento del singolo?
Quando pensiamo ad una classe, non pensiamo solo ad un insieme di individui isolati, ma ad un’entità diversa, ad un gruppo le cui relazioni personali si sono consolidate ed intrecciate nel tempo. La classe vive quotidianamente la propria esperienza di apprendimento, stabilendo rapporti affettivi tra compagni e insegnanti e attivando processi di conoscenza e valorizzazione reciproche. Ma perché una classe viva come una vera comunità di relazioni, occorre innanzitutto che condivida un obiettivo e agisca in modo coordinato per raggiungerlo: l’azione dei ragazzi crea un’interdipendenza tra loro, sia affettivo-relazionale che funzionale, che è il suo vero elemento caratterizzante.
La classe è un gruppo che costruisce una sua storia e un suo sistema di regole e valori: compito degli insegnanti è far sì che l’ interazione tra i suoi componenti divenga funzionale all’apprendimento. Per fare questo occorre favorire un’interazione cooperativa, dove i ragazzi sono vincolati tra loro nel conseguire l’obiettivo comune. In questo senso è nato un vero e proprio approccio didattico basato sull’interazione cooperativa tra i pari, che pone le sue basi sulle teorizzazioni dell’interdipendenza sociale. Il Cooperative Learning è un metodo di insegnamento/apprendimento che sorge negli Stati Uniti intorno agli anni Settanta a partire dagli studi dei fratelli David e Roger Johnson.

Letteralmente il concetto è tradotto come “apprendimento cooperativo” perché sottintende la validità di un sapere che nasce dalla comunicazione interpersonale e dalla collaborazione sociale di tutti i membri di un gruppo che attivamente mettono a disposizione le proprie conoscenze per raggiungere un fine comune: si basa quindi sul sapere costruito e condiviso attivamente. Il concetto di Cooperative Learning può quindi essere letto secondo una logica costruttivista poiché guarda alla conoscenza come a un processo attivo del soggetto e ha carattere “situato” ovvero “ancorato” all’ambiente concreto e si svolge attraverso particolari forme di collaborazione e negoziazione sociale.

È un metodo didattico oggi molto diffuso, che storicamente si contrappone a una visione dell’apprendimento scolastico basato sulla trasmissione delle nozioni dall’insegnante agli alunni, per lasciare spazio ad una visione student-based in cui al centro si pone l’alunno con un suo bagaglio culturale di conoscenze attivamente costruito.

A partire dai primi studi sono successivamente nate varie forme di Cooperative Learning; attualmente il metodo più usato in Italia è quello che prevede attività in coppia e in piccolo gruppo che si fondano sull’interdipendenza positiva, dove ogni membro ha la consapevolezza che il suo operato possa beneficiare o danneggiare l’intero gruppo e la responsabilità individuale e di gruppo, perché ogni componente percepisce di essere responsabile per sé e per gli altri. Le abilità sociali sono molto importanti perché influiscono direttamente sulla cooperazione del gruppo. I ragazzi perciò devono conoscersi e fidarsi gli uni degli altri, comunicare con chiarezza, risolvere gli eventuali conflitti in modo costruttivo. Al termine del lavoro, il gruppo cooperativo deve valutare cosa ha funzionato e cosa occorre migliorare, individuando criticità e punti di forza del lavoro svolto, anche per favorire la consapevolezza metacognitiva delle risorse e competenze individuali.

In questa prospettiva il gruppo diventa il “luogo” dove avviene il processo di apprendimento perché detentore di conoscenze e competenze e dove si realizza la partecipazione e lo scambio tra le persone coinvolte.
La metodologia del Cooperative Learning definisce molto bene i ruoli dei ragazzi all’interno del gruppo, le modalità di formazione dei gruppi e le attività che si possono proporre; ha modalità e caratteristiche ben precise, che ci permette di apprezzarne i presupposti e gli obiettivi che si pone.

Possiamo dire quindi che il Cooperative Learning fornisce una risposta concreta all’esigenza della scuola di essere un’agenzia formativa ed educativa, poiché è uno strumento che mira a promuovere sia un apprendimento efficace, stimolando i diversi stili di apprendimento, che la convivenza civile e la prosocialità.

In questo periodo di Didattica a Distanza come possiamo continuare a lavorare con il gruppo e sul gruppo, in una prospettiva collaborativa e favorendo l’interdipendenza positiva? Sarà importantissimo per l’insegnante continuare a stimolare la comunicazione tra ragazzi ad esempio, anche proponendo tematiche su cui discutere insieme e favorendo così lo scambio di esperienze e opinioni, o attraverso attività più strutturate come il Brainstorming. E’ possibile poi affidare attività a cui ciascuno può partecipare in modalità diverse e interdipendenti, ad esempio occupandosi di un singolo aspetto di un argomento. Le tecniche collaborative, al di là della metodologia del Cooperative Learning, sono numerose e possono essere un’opportunità per favorire nuovi rapporti di interdipendenza positiva tra i bambini oltre che per consolidare relazioni amicali tra di essi.

“La vita è quello che ti succede mentre sei occupato a fare altri progetti”. Una pandemia mondiale forse non era esattamente quello a cui stava pensando John Lennon mentre scriveva questo verso -conoscendolo sarà sicuramente stato qualcosa di più esistenziale-, ma in qualche modo esso può racchiudere quanto ci è successo in queste settimane. Si è messo di traverso nelle vite di tutti qualcosa di più grande, di enorme e inaspettato per cui i nostri impegni, per quanto importanti potessero essere, dovevano aspettare.

Persone da incontrare, cose da fare, posti da visitare: una meticolosa pianificazione fatta nei mesi precedenti incastrando mille variabili è stata spazzata via, come un castello di sabbia da una onda più alta delle altre. Dall’oggi al domani abbiamo dovuto cancellare incontri e riunioni, recuperare documenti e appunti sparsi sulla scrivania, che “chissà, magari possono servire” e barricarci in casa. E poi il frenetico scorrere dei nostri schermi e le telefonate fatte nel tentativo di reperire indicazioni e aggiornamenti, per condividere pensieri e preoccupazioni, per cercare di riorganizzarsi.

Da tutto questo caos non è stata risparmiata la nostra associazione, che si occupa di minori con disabilità e delle loro famiglie, con iniziative diverse che vanno da laboratori per i ragazzi a percorsi di sostegno psicologico. La quarantena ha inizialmente sospeso tutto, poi col passare delle giornate abbiamo riattivato il supporto individuale e i laboratori a distanza, tutti dietro a uno schermo, ognuno al sicuro in casa propria. Perché dopo il primo pensiero del “non si può più”, si realizza che certo questa condizione è disorientante e complicata per tutti ma lo è ancora di più per chi vive già normalmente uno stato di fragilità. Che non è vero che questo virus è una livella perché colpisce tutti allo stesso modo. La quarantena sarà meno dura per chi ha una casa più grande invece di un monolocale, più serena per chi ha dei soldi da parte e non deve lavorare anche solo per potersi permettere di fare la spesa. Allo stesso modo per chi ha una disabilità, fisica o mentale, o vive con una persona che ne è affetta, questa quarantena sarà molto più dura che per gli altri. Questa consapevolezza che riguarda sia in generale la società in cui viviamo sia le persone di cui ci prendiamo cura ogni giorno, ci ha fatto capire che non potevamo semplicemente “chiudere tutto”.

Buongiorno signora sono la Dottoressa C. di Area, la chiamo per sapere come state, lei e Sara. La prima reazione è di silenzio, forse per lo stupore di chi non si aspettava di ricevere quella telefonata.
Miriam è la madre di Sara, bambina di sei anni gravemente autistica. Era venuta in associazione per un incontro conoscitivo qualche settimana prima, ed era stato molto difficile seguirla mentre parlava: il suo racconto era molto frammentato, e lei lo aveva sussurrato appena. Si intuiva chiaramente però che la sua storia nel paese di origine era costellata di violenza, abusi e abbandoni. Miriam parla anche della sua bambina, senza apparente sofferenza e con un distacco quasi professionale, forse perché ha già dovuto raccontare della figlia e dei suoi problemi decine di volte a vari conoscenti, dottori e specialisti. Scandisce con orgoglio e dettagliata precisione tutte le attività che Sara svolge durante la settimana, la fitta rete che è riuscita a tessere attorno a lei, che sostiene entrambe e che ora è completamente saltata. Niente più affidatari, né logopedisti né insegnanti di sostegno. Restano chiuse la scuola, la piscina e l’associazione. Le maestre continuano a mandare compiti sul gruppo di classe, però sua figlia quei compiti non è in grado di farli e lei si vergogna a dirlo. Con il marito al lavoro, c’è solo lei adesso e deve bastare a ogni ora del giorno, tutti i giorni. Un po’ la aiutano gli altri figli, ma lei non si fida: quando esce a fare la spesa chiude le serrande perché la bambina se non è tenuta d’occhio sempre rischia di cadere dalla finestra. Fare la spesa in questo periodo è diventato angosciante, c’è il rischio di passare ore fuori di casa perché c’è una coda infinita, ma non ci sono alternative. Mi limito a dirle che può chiedere una mano, può chiedere a noi. E può chiedere alle maestre di classe di pensare anche alla sua bambina, che non ha motivi per vergognarsi. La signora mi ringrazia per averla chiamata e il giorno dopo mi fa sapere che le maestre le hanno inviato il materiale per Sara, scusandosi.

Buongiorno signora, la chiamo per sapere come sta. A rispondere è Rosa, la mamma di un ragazzo che frequenta da qualche anno un nostro progetto per adolescenti. Lei è capo infermiera di un ospedale a *** e già qualche giorno prima della chiusura dell’associazione aveva detto alla Dottoressa C. di essere preoccupata per la situazione e per la tenuta delle terapie intensive. Abbiamo atteso qualche giorno prima di chiamarla perché la immaginavamo sommersa di lavoro e temevamo quasi di disturbarla. Fatichiamo a pensare di poterle essere di aiuto in questo momento. Quando finalmente la contattiamo, la collega la trova estremamente bisognosa di parlare: sta lavorando ma le fa piacere staccare un attimo. Mentre il figlio pare tranquillo, è difficile per lei gestire le angosce che arrivano da ogni fronte in ospedale. Le infermiere hanno il terrore di ammalarsi e di infettare i propri figli ed è angosciante anche la vicinanza coi pazienti: sono loro infatti a dover aggiornare le famiglie sulla salute dei loro cari e sono sempre loro a dover star accanto ai malati. A fronte di tutto questo forse non c’è tanto spazio per pensare al figlio, alla paura per lui e alle sue angosce. Dico alla signora che noi ci siamo e che se è d’accordo la richiamerò nei prossimi giorni. Lei accetta volentieri e mi ringrazia.

Infine c’è Irina, Buongiorno sono la Dottoressa C., la chiamo per sapere come sta, e come sta suo figlio. Madre e figlio stanno affrontando quella particolare fase pre-adolescenziale caratterizzata da una inevitabile ambivalenza: per Irina, Anton deve assolutamente crescere e diventare autonomo, ma allo stesso tempo non può esistere un figlio al di fuori di quell’Anton malato e bisognoso di cure, mediche ma soprattutto materne. Al telefono racconta di una situazione che sembra tranquilla, in casa non c’è traccia di angoscia da pandemia nonostante il figlio sia immunodepresso. La scuola si è organizzata per le lezioni online, ma Anton vuole parlare solo con il suo insegnante di sostegno e con l’educatore, si rifiuta di partecipare con i compagni di classe, e l’unico contatto con i coetanei è con alcuni di loro per giocare online e nient’altro. Sembra quasi tranquillizzato dalla quarantena, la sta vivendo come una sorta di rifugio rassicurante che lo autorizza a non doversi confrontare con una socializzazione che evidentemente per lui era ed è molto difficile. Anche lei sembra più tranquilla, ma l’isolamento obbligato sta favorendo un ripiegamento regressivo e simbiotico con la madre che lei stessa sta assecondando, non spingendo il figlio a cercare i compagni.
Nel frattempo sono iniziate le attività a distanza, Anton ha potuto e voluto rincontrare online gli altri ragazzi del laboratorio, invece Irina racconta di una crescente difficoltà e stanchezza. Adesso la chiusura e la rinnovata simbiosi con il figlio, se da un lato la rassicurano, dall’altro la consumano, aveva già vissuto la cura e l’accudimento ventiquattro ore su ventiquattro: “piano piano ero uscita da tutto questo … Anton stava meglio e io ero riuscita a fidarmi di altre persone, stavo trovando un po’ di spazio per me … ma ora siamo tornati indietro”.

In questa assurda e tragica situazione per queste famiglie la dimensione simbiotica rischia di essere schiacciante, e il sostegno di qualcuno che faccia sentire la possibilità di una condivisione, che permetta di pensare ad un “dopo” possibile è di vitale importanza. Una semplice telefonata può riattivare questa preziosa funzione, può ricordare che la capacità di fidarsi e affidarsi non è persa ma può continuare a essere nutrita, e contenere l’angoscia e il disorientamento.
Il nostro lavoro consiste in primo luogo nel comunicare che, anche a distanza, la relazione non si interrompe, gli operatori continuano a esserci e a essere disposti ad ascoltare. Si tratta di una separazione, necessaria per tutelare la salute di tutti, non di un abbandono: quella che cambia è la modalità che consente di mantenere il contatto, il legame. Certo la condivisione sarà mediata, mancheranno gli sguardi e le strette di mano, ma continueranno esserci parole e silenzi, ascolto ed emozioni. Abbiamo sperimentato ancora una volta che la distanza fisica non è sufficiente per creare una frattura irrimediabile, che il vero contenitore, il setting che abitiamo con le famiglie che accogliamo, non è fatto dalle mura tra cui ci si incontra, ma è costituito dalla relazione stessa, che continua a vivere anche con modalità diverse di condivisione e incontro.