Recensione pubblicata il: 21/07/2025
Quella di Toby è una storia di diversità e resilienza, di amore tenace e di capacità di guardare oltre le apparenze. Il protagonista – Toby per l’appunto – è un bambino di 11 anni che vive con il nonno e la zia. La mamma si intuisce sia mancata, mentre il padre è un marinaio sempre distante per lavoro. Toby, dal canto suo, ha poche parole e una mente fervida. I pensieri che affollano le sue giornate faticano a trovare espressione, dando l’impressione a chi gli sta intorno che dentro quella testa ci sia ben poco da esprimere. Così, pensano in tanti, compresa la zia. E il “povero caro” con cui è solita appellare il nipote ne è un segnale abbastanza eloquente.
Ma il nonno, no. Nella sua ruvidezza pratica e concreta, il nonno riesce a vedere davvero Toby e a volergli bene non soltanto per una sorta di dovere verso la figlia prematuramente scomparsa. Il nonno condivide con il nipote il rito delle fiabe, ascolta la sua voce, gli fa doni apparentemente inutili e fattivamente straordinari. Come il fermacarte da cui Toby non si separa mai e attraverso il quale i suoi sogni, le sue paure e le sue emozioni prendono, agli occhi del lettore, una forma visibile. Quel fermacarte ha un valore simbolico forte e suggerisce chiaramente come la vitalità psichica ed emotiva delle persone con una disabilità non debba necessariamente andare di pari passo alla loro capacità comunicativa. E che quello scarto va riconosciuto e visto: il nonno, in questo senso, è l’unico ad accorgersi che le parole che Toby non sa dire, le sa in realtà ascoltare, le ama e desidera provare a decifrarle.
E questo, narrativamente parlando, fa la differenza. Perché quando la zia trova un fidanzato e decide di trasferirsi in un’altra città portandosi dietro il nipote, così da sistemarlo in una scuola speciale, Toby dovrà fare appello a tutto il suo impegno per far sentire la sua voce e dimostrare che diverso non significa rotto. Questa metafora della rottura e della riparazione, che oggi può suonare anacronistica, è abbastanza centrale nel racconto e viene sottolineata più volte per mettere in valore l’idea che la postura di chi guarda la disabilità gioca un ruolo centrale nel permettere alle risorse in essa presenti di emergere e trovare spazio.
L’autrice Graciela Beatriz Cabal ci offre una storia insieme toccante e piana e un ritratto della disabilità pacato ma vivido. Nel suo racconto c’è posto per orologi meccanici e a cucù, bussole e coltellini che evocano atmosfere di altri tempi. L’illustratore Israel Barrón, dal canto suo, le coglie e amplifica perfettamente, grazie a uno stile che intreccia reale e simbolico, che impasta ogni figura con i toni del marrone e dell’azzurro e che traduce in figure i detti e i non detti di un libro evocativo come questo.
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