I cuscini magici

C’è un re odioso che più odioso non si può che si chiama Arraffone I. Sovrano dispotico del regno di Uranopoli, Arraffone I si diletta a scrivere con la sua penna di corvo spaventose leggi: domeniche che diventano prelunedì, parchi giochi sempre chiusi, candeline di compleanno bandite e multe per grattate di naso o starnuti, solo per citarne alcune. Se si aggiunge poi che Arraffone I non esita ad appropriarsi di qualunque cosa veda col suo telescopio e gli piaccia, si capisce bene perché i suoi sudditi a dir poco lo detestino. Ma ad Arraffone quest’odio proprio non va giù: come ogni sovrano che si rispetti, vuole, infatti essere amato, adorato e perché no osannato dai suoi sottoposti. E così, quando uno dei suoi consiglieri suggerisce che il malumore sia dovuto al fatto che i sudditi la notte sognano, Arraffone I si adopera per impedir loro questa pratica e lo fa a suon di leggi, guardie, pedaggi e invenzioni malvagie. Per mezzo di speciali cuscini diabolici il re riesce per un po’ a tenere a bada il popolo indisponente, fino a quando un maestro intraprendente e i suoi solerti allievi non tiran fuori da fili di fiabe, tulle di bonboniere, piume di cigno e anelli di aquilone un’autentica magia che restituisce agli abitanti di Uranopoli la capacità e il diritto di sognare in pace.

È una fiaba lieve e ironica, quella scritta da Evghenios Trivizas: una fiaba che, sì, racconta del potere liberatorio dei sogni con un’attualità peraltro grandissima, ma che lo fa senza perdere il prezioso gusto del fantastico. Così il racconto scorre piacevole, con un bel ritmo e tante invenzioni divertenti, sia linguistiche sia narrative, che lo rendono particolarmente gustoso per una lettura ad alta voce ma anche molto invitante per una lettura autonoma. Lo stile snello dell’autore greco, la trama compatta e le caratteristiche di alta leggibilità che contraddistinguono il volume lo rendono infatti amichevole anche nei confronti di lettori poco esperti e/o con difficoltà legate alla dislessia. Da non sottovalutare, poi, sempre in un’ottica di supporto alla lettura, le illustrazioni deliziose firmate da Noemi Vola che echeggiano alla perfezione le atmosfera fantastiche delineate dal racconto.

Un compleanno fantastrofico

Teresa vuole, fortissimamente vuole, una festa di compleanno per i suoi imminenti 9 anni. A casa sua le feste non sono però ben viste: troppo impegnative, troppo caotiche, troppo fuori moda, per la sua inconsueta famiglia. Ma Teresa quest’anno è disposta a tutto pur di avere una festa come Dio comanda e per ottenerla si chiude a chiave nella legnaia. Ottenuto con scarso entusiasmo il sì dei famigliari, per Teresa iniziano i preparativi: ha una settimana davanti per rendere tutto perfetto. Le aspettative della bambina sono infatti altissime poiché da quella festa dipende la possibilità per lei di farsi conoscere meglio e apprezzare dai suoi compagni. Considerata un po’ strana per il suo modo di vestire e per i suoi interessi, Teresa ha infatti un solo vero amico mentre viene tenuta in disparte da tutti gli altri bambini. Inaspettatamente, saranno proprio imprevisti e stramberie di famiglia, nel giorno speciale della sua festa, a rimettere le carte in gioco e dare nuove chances ad amicizie apparentemente impossibili.

Scritto con piglio vivace, con grande empatia e con il coraggio di non zuccherare in eccesso la storia narrata, Un compleanno fantastrofico è un libro piacevole e capace di mescolare sentimenti realissimi con un pizzico di eccentricità. Pubblicato all’interno della serie azzurra de Il Battello a vapore, il racconto di  Annalisa Strada presenta caratteristiche di alta leggibilità che lo rendono più facilmente fruibile anche in caso di dislessia.

 

Due pirati come noi

Se c’è una cosa che rende piuttosto discutibili molti libri per bambini che affrontano il tema della disabilità è la generale bontà di sentimenti che tendono ad attribuire ai loro personaggi: una predisposizione ad accogliere il diverso senza porre domande, senza fare resistenza o senza sentirsi a disagio, che difficilmente rispecchia il vero. Perché la disabilità pone interrogativi scomodi e mette di fronte a sentimenti contrastanti che i giovani lettori hanno il diritto di ritrovare tra le pagine delle storie che offriamo loro. Anche e soprattutto per questo motivo Due pirati come noi è un racconto che non passa inosservato: perché quelle domande e quei sentimenti contrastanti che il lettore avverte, il racconto di Guido Quarzo non li cancella ma li accoglie pienamente, dando loro dignità e rappresentazione.

Protagonista del racconto è un bambino di nome Leo che in un noioso pomeriggio trascorso in solitaria si rende conto di non avere un amico che si possa davvero dire tale e di ricorrere per questo molto spesso all’immaginaria compagnia del Pirata Barban. Meglio questo – pensa Leo – piuttosto che passare il tempo con Massimiliano, il figlio di una cara amica della mamma. Massimiliano, infatti, ha la Sindrome di Down e per questo non parla bene, non sa fare i giochi ed è a dir poco appiccicoso. Così, quando si ritrova nella camera di Massimiliano, poco meno che costretto, Leo vorrebbe essere da tutt’altra parte e non nasconde al lettore i suoi pensieri ben poco lusinghieri nei confronti del compagno. Eppure, in quella camera qualcosa accade: senza la pretesa di annullare le differenze (ma quella di arrembare i pregiudizi, sì), il Pirata Barban compie forse la sua più straordinaria impresa, trasformando due bambini pressoché sconosciuti in una ciurma d’assalto che ha più di un’avventura da condividere. Guido Quarzo e Cinzia Ghigliano firmano così un racconto illustrato che è un inno alle seconde impressioni (quelle che si nascondono sotto le prime, spesso fallaci) e all’immaginazione come terreno fertilissimo di incontro e relazione.

Ada al contrario

Mangiare, bere, camminare, leggere e disegnare: non c’è azione quotidiana che Ada compia in maniera convenzionale. Fin da quando è nata e i suoi primi vagiti sono stati “èèèu, èèèu” in luogo di “uèèè, uèèè”, la bambina protagonista di quest’albo si è distinta per un modo di comportarsi del tutto inusuale. Non che la cosa la turbi, anzi: in quel suo fare le cose a modo suo Ada ritrova una forma di vitale libertà che è fonte preziosa di benessere. E ciononostante gli adulti che le sono cari – mamma e papà in primis – faticano a cogliere quel benessere, annebbiati dall’idea che tanta stramberia non vada proprio bene. Saranno necessari il consiglio di uno psicologo esperto e la scaltrezza di un’insegnante empatica per tranquillizzare i due genitori, così intimoriti da tanta esuberante diversità, e per permettere ad Ada di vivere con leggerezza la sua travolgente unicità.

Indomita, irresistibile e colma di energia, Ada è una paladina del diritto a essere sé stessi ma anche un simbolo di quell’infanzia che non di rado deve mostrare più cura e buonsenso degli adulti stessi. Ecco allora che il suo mondo ci appare al contrario non tanto o non solo perché fuori dagli schemi ma anche e soprattutto per questo rovesciamento di ruoli in cui la capacità di accogliere e assecondare modi diversi di stare al mondo viene coltivata e insegnata dai piccoli più che dai grandi.

Capace di evocare alcuni tratti caratteristici della Sindrome di Asperger, Ada al contrario è un libro che dice molto della disabilità senza nemmeno nominarla e che riesce in questa acrobazia tutt’altro che banale grazie a un uso sapiente dell’ironia – tanto nel testo quanto nelle illustrazioni – e grazie a un focus mirato sulle emozioni dei protagonisti invece che su presunte verità rispetto a ciò che la disabilità è o richiede. Così a emergere con forza dalle pagine di Ada al contrario sono soprattutto il senso di libertà che invade la protagonista quando sente di poter seguire la sua naturale indole, la difficoltà che la lega quando si sforza di aderire ad un modello che non le appartiene, o la sua soddisfazione nell’apprendere modalità di relazione nuove con i suoi cari. Al centro dell’obiettivo c’è dunque la questione della felicità – fragilissima e misteriosa, che tutti ma proprio tutti ci accomuna – e di come ciascuno abbia il diritto di coltivarla: a passo d’uomo, di lucertola o di granchio, sta a lui deciderlo.

Hank Zipzer. Il mio cane è un coniglio

Vampiri, streghe, scheletri e mummie: tutti costumi triti e ritriti per una festa di Halloween. Niente a che vedere con un costume da tavola imbandita alla maniera di un ristorante italiano: proprio quello che Hank intende indossare per la sfilata del 31 ottobre a scuola. E a nulla valgono i tentativi di dissuaderlo degli amici Frankie e Ashley: determinato, Hank porta in classe un costume decisamente originale ma soprattutto ingombrante che finisce per causargli inciampi e incastri. Per non parlare delle prese in giro, soprattutto da parte di Nick McKelty che non perde occasione per dar pessimo fiato alla bocca. E così, infuriato come di rado è stato prima, Hank si lascia ispirare dal saggio Papà Pete e costruisce una casa degli orrori da far venire la pelle d’oca a chiunque. L’obiettivo è dare una bella lezione a quel bullo di Nick. Oltre a questa soddisfazione, però, ciò che Hank guadagna dal suo spaventoso progetto è la consapevolezza che essere sé stessi può risultare davvero molto divertente e che si può essere un bambino fantastico indipendentemente da come si legge.

Con Hank Zipzer. Il mio cane è un coniglio, l’ingegnoso personaggio creato da Lin Oliver ed Henry Winkler raggiunge la sua avventura numero nove: un traguardo non da poco, soprattutto se si considera che la coppia di autori americani ha saputo mantenere lungo il tragitto una verve stilistica, una vena inventiva e una capacità di raccontare le difficoltà e le risorse dei bambini, soprattutto (ma non solo) legate alla dislessia, con apprezzabilissima levità. Anche qui, per esempio, non si nasconde l’ostico rapporto di Hank con la parola scritta, con le cose da ricordare o con l’immobilità nei momenti di stress, ma il suo amalgamarsi a una trama spassosa e coinvolgente ne restituisce l’importanza senza caricarlo di inutile (e dannosa) pesantezza.

La bambina di ghiaccio e altre fiabe

Nani, folletti, fate e sirene: nel suggestivo mondo dipinto da Mila Pavićević c’è posto per un ventaglio variegatissimo di figure leggendarie che, leggere e impalpabili, si muovono in bilico sul filo del fantastico. Le loro sono storie di doni e vendette, di incantesimi e desideri, di tristi sorti e di magici riscatti: ingredienti sopraffini per racconti che spolverano e lavorano con sapienza un impasto fiabesco come tradizione comanda.

C’è tutto quel che ci si può aspettare da una raccolta d’altri tempi, infatti, ne La bambina di ghiaccio e altre fiabe, comprese illustrazioni dal sapore misterioso e antico. Difficile immaginare un tratto più azzeccato di quello della bravissima Daniela Iride Murgia per dipingere protagonisti e cornici di vicende straordinarie e surreali quali quelle narrate dalla drammaturga serba: le sue illustrazioni in bianco e nero dal tratto finissimo, mescolano infatti realismo e dettagli fantastici, atmosfere oscure e personalità stravaganti, avvenimenti sovrannaturali e richiami al quotidiano, con un gusto e una minuzia rari da trovare.

Perfetti per amanti di atmosfere incantate, i testi raccolti da Camelozampa ne La bambina di ghiaccio e altre fiabe si fanno apprezzare anche per la loro brevità e per la stampa ad alta leggibilità: caratteristiche che ne agevolano la fruizione anche da parte di bambini con difficoltà di lettura legate alla dislessia. La disponibilità del racconto anche in versione audiolibro (6,90 €), inoltre, ne amplia ulteriormente le possibilità di accesso anche da parte di bambini con disabilità visiva.

Il drago di K e altre fiabe polacche

Si potrebbe stare ore ad ascoltare Daniele Fior che legge fiabe. È un’interpretazione intensa e pulita, infatti, la sua, capace di delineare con la sola voce atmosfere lontane e misteriose e di calarvi l’ascoltatore con la facilità di un sortilegio. Lo si può scoprire con particolare piacere ascoltando Il drago di K e altre fiabe polacche: una delle più recenti pubblicazioni di Locomoctavia che raccoglie quattro fiabe tradizionali che arrivano dalla Polonia, paese puntualmente evocato nella cornice degli avvenimenti narrati.

Protagonisti, come nella più classica tradizione fiabesca, sono umani dalle sorti variegate – re, ciabattini, pescatori e principesse – e creature fantastiche come draghi o sirene. Dal loro incontro e confronto scaturiscono racconti in cui ingegno, compassione, onestà e coraggio delineano percorsi di grande suggestione. Così accade, per esempio, che il ciabattino di Cracovia sconfigga il terribile drago che assedia la città, ingannandolo con una finta pecora riempita di zolfo, o che quello di Varsavia trovi la leggendaria anatra d’oro nascosta nel castello ma getti al vento tutte le ricchezze da lei promesse per non rinunciare ai suoi ideali di condivisione e solidarietà. Ma così succede anche nella struggente vicenda che vede una sirena incantare i pescatori della capitale e venire da essi imprigionata prima di poter insegnare loro il valore del dono disinteressato o nella storia del duca avido e burlone che finisce per essere a sua volta turlupinato.

Cullate e accompagnate dalle musiche originali dei Gueppecartò (già felici interpreti anche dell’Alice nel Paese delle Meraviglie edito da Locomoctavia) che sottolineano con forza e discrezione i passaggi salienti del racconto,  le narrazioni curate da Francesco Groggia spargono tracce di realtà in impasti fantastici che sanno parlare con grande fascino a orecchie più e meno giovani.

L’audiolibro de Il drago di K e altre fiabe polacche è proposto al lettore sia in forma di cd audio (13 €) sia in forma di file mp3 (7,99 €) direttamente scaricabile dal sito della casa editrice.

 

Il drago di K e altre fiabe polacche, così come gli altri pregiati audiolibri proposti da Locomoctavia, è inoltre fruibile tramite un’apposita app (Locomoctavia audiolibri) messa a punto dalla stessa casa editrice e scaricabile gratuitamente da App store.

Si tratta di una proposta estremamente interessante in termini di accessibilità. L’app sfrutta infatti un particolare sistema di scroll che evidenzia cromaticamente le diverse frasi del testo nel momento esatto in cui vengono pronunciate. La corrispondenza tra testo e audio risulta molto fluida e puntuale e l’app fa avanzare automaticamente l’audio se il lettore fa scorrere velocemente in avanti il testo. L’esperienza di lettura e ascolto risulta, così, piacevole e tutt’altro che macchinosa.

Il lettore può in questo modo godere della cura e della bellezza delle registrazioni proposte e al contempo seguire più agevolmente il testo su schermo. Egli può disporre cioè di un ampio ventaglio di strumenti e possibilità di lettura, perfettamente integrate tra loro, tra cui destreggiarsi sulla base delle sue esigenze specifiche: un’opportunità preziosa per sostenere soprattutto quei bambini e quei ragazzi che, a causa di disturbi come la dislessia, si tengono alla larga dai libri non per disamore delle storie ma per l’enorme fatica che la lettura tradizionale di queste ultime può implicare ai loro occhi.

Io sto con Vanessa

Vanessa si è da poco trasferita in città (ce lo anticipa di soppiatto la pagina del titolo) e questo significa, per lei, iniziare a frequentare la scuola in una classe nuova. Facile a dirsi, un po’ meno a farsi, soprattutto per un tipo come Vanessa che – forse perché timida, forse perché in difficoltà con la lingua, chissà? – affronta il primo giorno in solitudine, senza il coraggio di farsi notare dall’insegnante e dagli altri bambini. L’unico che sembra fare caso a lei, ahimè, è un bulletto dai capelli biondi e impomatati che le si avvicina all’uscita di scuola e la prende di mira con gesti e parole poco carini. La reazione triste e spaventata di Vanessa non sfugge però a una compagna attenta che si dispiace sinceramente per l’accaduto e per l’impressione di non poter far nulla a riguardo. Fino a quando non si rende conto che qualcosa in realtà può farlo e che quel qualcosa può davvero fare la differenza. Così il giorno seguente la bambina compie un gesto tanto semplice quanto potente, capace di contagiare all’istante i suoi amici e di rendere inoffensiva la prepotenza. Perché è verissimo che la gentilezza può fare la rivoluzione (cosa che forse si poteva evitare di sottolineare nel sottotitolo e nei consigli pratici che chiudono il libro, per preservarne un po’ di più la magia già di per sé efficacissima) e che gesti piccolissimi possono dare frutti che nemmeno ci aspettiamo.

Garbato e profondo, questo silent book mette in scena personaggi minimali, quasi tratteggiati, che si muovono su sfondi neutri e puliti. Eppure l’attenzione che gli autori (Sébastien Cosset e Marie Pommepuy, in arte Kerascoet) riservano a dettagli come le espressioni del viso (a ben guardare, per esempio, la coraggiosa bambina del libro pare accorgersi del disagio di Vanessa fin dalla prima vignetta, e questo lo intuiamo dalla posizione delle sue pupille!), le posizioni e le distanze tra i personaggi o i gesti che essi compiono li rendono straordinariamente espressivi e decifrabili. Anche in virtù di questa valorizzazione dei particolari significativi, il racconto di Io sto con Vanessa può facilmente essere interpretato dal lettore senza che gli siano richieste inferenze complesse. Ecco allora che l’accessibilità del volume, ampiamente garantita dall’assenza di testo, viene ulteriormente rafforzata da una narrazione per immagini che pare letteralmente parlare.

Agente 008. Missione vacanze

È lungo solo 48 pagine, Agente oo8. Missione vacanze, ma dentro ci sono, solo per fare qualche esempio, una paperella sommergibile, un covo segreto nascosto tra le rocce, un computer che sa le risposte ma non le domande, un lunghissimo scivolo di vetro, 2 braccioli carichi di dinamite, trabocchetti luminosi, infradito boomerang e un orso polare. Non sarà difficile immaginare, dunque, quanto possa essere serrato il ritmo del racconto che tiene insieme tutti questi elementi in un’avventura al contempo divertente e vorticosa. A viverla in prima persona è appunto l’agente 008 che, in procinto di godersi una meritata vacanza, si trova suo malgrado a svolgere l’ennesima missione. Perché quando una missione chiama, l’agente 008 risponde, soprattutto se la missione ha un nome in codice e quel nome è: lasagne!

Surreale, scanzonato e avventuroso al punto giusto, Agente oo8. Missione vacanze si presta bene a stuzzicare anche quei lettori alle prime armi che faticano ad appassionarsi alla lettura. Questa procede qui, infatti, spedita a suon di colpi di scena via via più improbabili e di trovate spassose, portando il lettore a chiedersi di continuo “Che cosa sarà capace di inventarsi ora, l’autore?”. Le caratteristiche di alta leggibilità tipiche del catalogo di Biancoenero e in particolare della collana Minizoom di cui il volume fa parte, rafforzano dal canto loro l’invito a godersi la lettura, rendendola più agevole anche in caso di dislessia.

Il giorno del nonno

Quando i miei genitori lavorano, sto dai nonni. Sono molto carini, ma a casa loro mi annoio da morire. Non c’è internet, non c’è la televisione, ci sono solo tre fumetti un po’ ammuffiti e tutt’intorno nient’altro che campi di mais. Dentro casa c’è odore di cavolfiore vecchio e di caccole di mosca.

Voilà, un incipit spassoso al punto giusto è bell’e servito! Difficile, una volta letto, immaginare che in quella casa in cui noia e muffa la fanno da padrone non stia per succedere qualcosa di straordinario e che Simone, lo sbuffante protagonista e narratore, non sia pronto a raccontarcelo con piglio ironico e divertente. Niente di più vero. Da lì a poco Simone scopre infatti che il nonno, apparentemente “alle fragole” e dalla memoria zoppicante, viene come attivato alla vista di particolari oggetti (una lente di ingrandimento, una spada di legno, una corona di cartone, una ventosa fluorescente…) che lo portano a raccontare storie passate a dir poco incredibili. Storie in cui il nonno arrestava il famigerato Jo Patatina, si faceva chiamare Pirata Barba-fifa, dava ordini da re o curava intestini pigri di extraterrestri: storie che mescolano realtà e fantasia, trasformando il mercoledì, il giorno in cui Simone va a trovare i nonni, nel giorno più atteso della settimana. Così Simone inizia a cercare oggetti via via più suggestivi da sottoporre al nonno e porta i suoi amici ad assistere allo show infrasettimanale, divenuto ormai ambitissimo e leggendario. Fino a quando, un mercoledì come tanti, il nonno non si fa stranamente trovare a casa: sarà quello, con la triste e realistica visita in ospedale che toccherà a Simone, il momento in cui il bambino parteciperà a un simbolico passaggio di consegne e allo svelamento di un segreto più che speciale.

Stampato con alcune caratteristiche di alta leggibilità (font specifico, spaziatura maggiore), Il giorno del nonno è un libro godibilissimo di Emmanuel Bourdier, capace di unire efficacemente divertimento e tenerezza. Contraddistinto da dialoghi serrati e descrizioni che sposano un punto di vista squisitamente bambino, il racconto è accompagnato dalle illustrazioni ironiche e buffe di Laurent Simon che ne sottolineano il tono brioso.

Hotel Bonbien

Un albergo a conduzione familiare su una strada di passaggio nella Marna: questa è la casa di Siri, la giovane protagonista e narratrice del romanzo. Qui la bambina vive con la mamma, impetuosa addetta alla cucina, il papà, remissivo addetto ai conti e alle reception, e il fratello Gilles, adolescente aspirante filosofo e cultore dell’hard rock. Le cose non vanno proprio a gonfie vele all’Hotel Bonbien: gli affari non decollano, i soldi scarseggiano, gli arredi iniziano a risultare datati e, soprattutto, a causa di tutto ciò mamma e papà litigano spessissimo a suon di piatti rotti e urla furibonde. Così Siri, tra un’amicizia volante con gli ospiti dell’albergo, qualche osservazione silenziosa di cuccioli di tasso e qualche coccola alle galline del pollaio, inizia a preoccuparsi che la famiglia possa sfasciarsi, complice anche la recente separazione dei genitori della sua più cara amica Sylvie. E come spesso accade ai bambini della sua età con famiglie in crisi, si sente in dovere di fare qualcosa, di trovare una soluzione. La soluzione sembra letteralmente cascare dal cielo, quando una brutta caduta da un albero dona a Siri una memoria prodigiosa: il fratello Gilles pensa infatti di sfruttarla per tirare su un bel bottino e risolvere così i problemi dei genitori. Inizia a quel punto un rocambolesco viaggio di famiglia verso un concorso di memoria con un bel gruzzolo in palio, che porterà a un inatteso lieto fine in cui i soldi hanno in realtà un ruolo più che marginale.

Con uno stile fresco e ironico, Enne Koens racconta l’anno di svolta di Siri (quello del suo decimo compleanno), mettendo bene in luce i crucci che possono accompagnare una crisi famigliare e il modo in cui possano amplificarsi entrando nella testa di un bambino. Lo fa con leggerezza, costruendo una cornice – quella dello scalcinato Hotel Bonbien e di tutte le figure che vi abitano o vi passano – animatissima e brulicante in cui è difficile annoiarsi e in cui gli imprevisti sono all’ordine del giorno. Il romanzo solletica insomma il lettore con una costante e delicata vivacità che ben si accompagna al tono sorridente delle illustrazioni schizzate di Katrien Holland che tanto ricordano il maestro Quentin Blake. Scrittura ritmata, personaggi a cui ci si affeziona presto, pensieri in cui ci si può riconoscere e piccole avventure quotidiane a filo di pagina rendono Hotel Bonbien un romanzo delizioso che più facilmente di altri può accogliere anche lettori con difficoltà legate per esempio alla dislessia o alla disabilità visiva, anche grazie all’impegno profuso dalla casa editrice Camelozampa nel rendere il testo disponibile in molteplici formati: a stampa ad alta leggibilità, audiolibro, ebook e audioebook.

I veicoli

Con Un giorno nella vita di tutti i giorni, Gallucci ha portato molti bambini (e adulti) italiani a conoscere Ali Mitgutsch, artista tedesco che negli anni ’60 fu tra i pionieri dei Wimmelbuch, i libri brulicanti. Con la ferma e preziosa intenzione di portare pian piano in Italia l’intera opera dell’autore, l’editore romano ha ora pubblicato un suo secondo titolo dedicato a I veicoli. Qui, secondo lo stile proprio di questa tipologia particolarissima di volumi, si susseguono doppie pagine animate da numerosi e affaccendati personaggi che suggeriscono piccole narrazioni, non di rado intrecciate tra loro. Ogni doppia (e spessa) pagina si concentra su di uno specifico contesto – la città, la fattoria, il mercato del pesce, la montagna, l’aeroporto, la metropoli by night e via dicendo – in cui si muovono, si popolano, si manovrano mezzi variegati: dai camion alle ruspe, dai pullmini alle betoniere, dai monopattini ai trattori. Privo di parole, contraddistinto da rappresentazioni minuziose ed efficaci e composto da quadri a sé stanti, I veicoli risulta estremamente fruibile anche in caso di disabilità che rendono difficoltosa la decodifica del testo, l’interpretazione di illustrazioni troppo oscure o la comprensione di storie molto articolate. Dotato di un potere ipnotico soprattutto nei confronti di bambini appassionati di veicoli (passione rimasta inscalfibile nonostante siano passate parecchie generazioni dalla prima pubblicazione del volume!), il libro si arricchisce inoltre di un elemento ludico grazie a una fascia laterale che accompagna ogni pagina e che mette in evidenza 8-10 elementi che il bambino vi potrà trovare. In questo modo al piacere di seguire e sviluppare innumerevoli storie si unisce quello di scovare specifiche figure: aspetto, questo, per nulla privo di significato, anche nell’ottica di rendere la lettura solleticante e densa di stimoli per bambini con e senza difficoltà di lettura, attenzione e aggancio alla narrazione.

Non troppo dissimile da I veicoli anche un terzo titolo firmato dall’autore tedesco e sempre edito da Gallucci: Alla scoperta del mare. Anche qui sono protagoniste infatti grandi tavole a doppia pagina in cui brulicano micro-narrazioni quotidiane. Tutte ambientate all’interno di una cornice marina, queste sono animate da capitani e villeggianti, pescatori e scaricatori di porto, marinai e bagnini e chi più ne ha più ne metta. Ogni centimetro quadrato della pagina vede nascere amori, spegnere incendi, rubare pesci, abbrustolire pelli candide o fare giochi d’acqua, in una serie di istantanee da cui trarre infinite storie. Alla scoperta del mare alterna le grandi tavole senza parole, perfettamente e appassionatamente godibili anche da parte di bambini con difficoltà di lettura, a doppie pagine in cui si concentrano raccolte di figure e parole tipiche dell’ambiente ritratto. Ispirate nella struttura ai classici libri di prime parole, ma decisamente più ricercate e complesse nella scelta dei vocaboli (banco di aringhe, palangaro, timone di poppa, solo per citarne alcuni), queste arricchiscono il volume senza tuttavia compromettere la fruizione della pagine senza parole. La doppia pagina che chiude il volume, in particolare, illustra la divisione e il funzionamento di una grande nave da carico, trasformando la visione in sezione in uno spaccato di vita marittima tutt’altro che noioso e prevedibile.

Il re senza reame

Il re senza reame è il sovrano del Paese all’Incontrario e, come tale, non possiede niente di niente: non un trono, non un castello, non una prospettiva per sé e per il suo regno. Niente di niente, appunto. Un giorno incontra un gatto che, come lui, non ha nemmeno un nome e insieme si siedono a non aspettare nulla. Passano un cavaliere e una signora di ritorno dal mercato, e ai due il gatto ruba rispettivamente un paio di stivali, una moneta e un pesce, ma il re – non essendo il gatto di sua proprietà – non si fa carico delle sue ruberie. Poi però arriva un cane che del gatto vuol fare un bel paté: è allora che il re salva l’amico a quattro zampe da una brutta fine, scoprendo e mostrando come si possa dire di appartenere davvero a qualcuno quando si è uniti da una profonda e sincera conoscenza. Forti di questo nuovo legame, il re e il gatto si avviano insieme verso un luogo in cui essere qualcuno che non ha niente di niente assume un significato tutto nuovo.  E in cui basta la presenza di un amico a trasformare un nonnulla in una cosa più che preziosa.

Quella de Il re senza reame è una storia senza tempo, in cui riecheggiano fiabe note e in cui si intrecciano passato e presente. A rendere possibile questa magia è il dialogo profondo tra le parole di Alex Cousseau e le illustrazioni di Charles Dutrertre: coppia d’oro dell’editoria francese che ci aveva deliziati, sempre per i tipi di Sinnos, con la serie di piccole avventure quotidiane di Lucilla Scintilla. Ne Il re senza reame lo stile è diverso, decisamente più votato al fantastico, ma parimenti capace di incantare chi legge. La parole sono misurate e sonanti, proprio come ci si aspetta da una fiaba degna di questo nome, mentre le illustrazioni hanno un che di surreale, mescolando con garbo e ipnotico fascino tocchi orientali, vezzi decorativi, e dettagli moderni. Il risultato è un tripudio di figure – tutte giocate sulla combinazione di giallo, rosso, verde e blu, su sfondo bianco – che conducono lontano l’immaginazione del lettore, moltiplicando le possibilità di scoperta e invenzione. Il tutto senza rinunciare a una certa fruibilità della lettura, resa possibile non solo da un testo contraddistinto dal ritmo piano ed essenziale proprio dei racconti tradizionali, ma anche dalle caratteristiche di stampa ad alta leggibilità, ben consolidate in casa Sinnos, di cui l’albo fa vanto.

Candido e gli altri

Delizioso, verissimo, umano. Quanto ti aspettavamo, Candido! Creato da Fran Pintadera e Christian Inaraja, Candido è il protagonista di un albo che in 46 coloratissime pagine riesce a mettere a fuoco le difficoltà implicate dal sentirsi diversi e al contempo a mostrare come proprio quelle difficoltà siano in fondo ciò che ci rende tutti simili. Il suo segreto è una leggerezza più unica che rara: qualità che permette alla storia, nella sua grande semplicità, di librarsi svincolata da briglie didascaliche, moltiplicando significati, riverberi e letture possibili. E così possiamo senz’altro inserire Candido e gli altri tra i libri più riusciti in circolazione sulla disabilità senza che tuttavia questa sia mai citata e senza che una lettura di tutt’altro genere e significato possa dirsi fuori strada.

Perché Candido, semplicemente, non è come gli altri, a volte si sente strano, fatica spesso a capire e a farsi capire dal mondo, e per tutte queste ragioni prova sentimenti controversi, tesi tra il desiderio di non essere osservato come una bestia rara e quello di non risultare del tutto invisibile. Con frasi direttissime e illustrazioni dai tratti mai fuori posto, l’albo dipinge questo suo ritratto in cui difficilmente un qualunque lettore non si riconoscerà almeno in parte, preparando al millimetro il terreno per un calzante finale a sorpresa. Un finale in cui entra in campo Fidel che, vestito di tutto punto in una spiaggia affollata amata da tutti, è evidente che non è come gli altri.  Con lui il libro si chiude ma il pensiero si spalanca, perché l’idea di una normalità tutta relativa che sta al centro dell’albo affiora con forza travolgente e invita senza possibilità di resistenza a una riflessione del lettore su quegli strambi personaggi, su di sé, e su coloro che lo circondano. Anche per questo il libro si presta perfettamente a una lettura condivisa, in classe per esempio, e ad avviare un lavoro profondissimo su cosa ci renda simili e dissimili dagli altri.

Vincitore dell’XI edizione del Premio Internazionale Compostela per gli albi illustrati, Candido e gli altri è un albo in cui i dettagli fanno la differenza. Dall’insolito formato (alto e stretto) alla costruzione di personaggi che stimolano la ricerca di tratti comuni e divergenti, dalle sottili citazioni di grandi artisti contemporanei all’uso pregnante dei colori, il libro edito da Kalandraka è un piccolo gioiello da non sottovalutare, capace di risuonare negli occhi e nelle orecchie di lettori di età anche molto diverse e di dare un volto indimenticabile all’idea mai sopita che “visto da vicino nessuno è normale”.

Sei unico

La Filastrocca di ciò che non sei è una di quelle che Bruno Tognolini chiama rime d’occasione, composte su richiesta di qualcuno: in questo caso la richiesta è arrivata da una mamma preoccupata per l’accoglienza che il nuovo ambiente e i nuovi compagni avrebbero potuto riservare a suo figlio, ragazzino con Sindrome di Down in procinto di iniziare la scuola media. È une filastrocca accorata che arriva diretta come una freccia ai grandi (a cui in effetti l’autore si rivolge in primis) ma che, forte della sua schietta semplicità, sa raccontare anche alle orecchie più piccole il valore della diversità e i legami strettissimi che essa può generare.

Poesia simbolo di un evento organizzato dalla splendida libreria per bambini Mio nonno è Michelangelo a Pomigliano d’Arco, con ospite lo stesso Tognolini, la Filastrocca di ciò che non sei ha dato vita all’albo edito da Salani Sei unico. Qui, interpretate dalle illustrazioni visionarie di Christophe Mourey, le parole di Tognolini si amplificano e sembrano poter risuonare ancora più vicine al sentire bambino. L’artista francese sceglie infatti un protagonista che ha i tratti di un pulcino nero dal cuore grande (tu non sei abile però sei buono) e dalle zampe che paiono corone (tu non sei abile, però sei nobile): un collage di sottili tratti scuri e di colorate forme geometriche che esprime con efficacia il concetto di unicità. Affiancato poi a una fitta schiera di esseri dall’aspetto bislacco, il pulcino di Mourey invita l’occhio del lettore a riconoscere tra di essi le spiccate differenze ma anche a cogliere qualche più sottile somiglianza, in un inno all’unicità fatta di cose che ci distinguono ma anche di cose che ci rendono inequivocabilmente e ugualmente umani.

La grande rapina al treno

Chi l’ha detto che indiani, cowboy e assalti alla diligenza non possano più conquistare i giovani lettori? Leggere La grande rapina al treno per credere! Qui prende vita infatti un’avventura così travolgente che sarà difficile staccare gli occhi dal libro, in una lettura in corsa che avvicina la sequenza di pagine a una frenetica ripresa cinematografica.

Protagonista del racconto dall’ambientazione vintage, è un bambino a modino – calzoncini corti, cappello piatto e papillon – che in compagnia di una zia rigida e bacchettona sale a bordo di un treno del west. Il viaggio appare inizialmente noiosissimo: poco accade fuori dal finestrino e quel poco che accade pare non poter essere condiviso a meno di infrangere le ferree norme del buon viaggiatore riassumibili in “stare seduti” e “fare i bravi”. Ma a un certo punto qualcosa di interessante accade. Dal finestrino spunta dapprima un cavallo, seguito a ruota da svariati altri animali da fattoria cavalcati a pelo da quelli che appaiono a tutti gli effetti come dei banditi (la maschera sugli occhi non mente!). È la famigerata banda dei Tredici (di cui solo tre membri, però, risultano pervenuti): malviventi senza scrupoli che, armati di pistole e mattarelli, assaltano il treno e rapinano gli sventurati passeggeri. Sulla loro scia arriva anche il coraggioso sceriffo Nick Stecchetto che in un inseguimento senza esclusione di colpi (e di mezzi di trasporto) dà il via a una caccia ai ladri che coinvolgerà dal primo all’ultimo passeggero. Chi si arrampica sul tetto e sgancia i vagoni, chi tira con la fionda, chi attiva robot meccanici e chi familiarizza con orsi circensi: sul treno di Federico Appel ne succede di ogni e mentre l’occhio del lettore prova a seguire tutto quel che accade, la sua immaginazione va in sollucchero di fronte a tanta esuberante inventiva.

Succedono cose, infatti, dentro, sopra, intorno, sotto e dietro al treno, il che contribuisce a rendere la scena concitata e il ritmo narrativo irruente. L’autore allestisce così un racconto vorticoso che spinge il lettore a correre avanti e indietro lungo pagine e vagoni. Non c’è tempo da perdere, infatti: urge seguire, scoprire, collegare e risolvere tutto quello che freneticamente accade sul treno prima dell’arrivo (in orario perfetto!) alla stazione di destinazione.

Con grande divertimento, Federico Appel riesce in particolare a tenere agganciato il lettore grazie a una narrazione ingegnosa e originale che procede esclusivamente per discorsi diretti non attribuiti esplicitamente. Sta al lettore dunque riconoscere chi di volta in volta parla, facendo appello agli indizi forniti dall’illustrazione della pagina e dalla divertente presentazione dei personaggi posta in apertura di libro: scelta, questa, che (a margine ma neanche troppo) dice forte e chiaro come una difficoltà di lettura legata per esempio alla dislessia non debba necessariamente implicare una costruzione narrativa banale e scontata. Ne vien fuori una storia divertente, ad alta leggibilità e ad alto tasso di coinvolgimento che di certo non si esaurisce in una sola lettura. Sul treno della grande rapina, insomma, sarà difficile accontentarsi di un solo viaggio!

Il mistero del London Eye – audiolibro

In questo libro ci sono: una città multiculturale e caotica, un ragazzino scomparso in un pomeriggio come tanti, una famiglia allargata che a tratti alterni si frammenta e si rinsalda e una ruota panoramica che sembra inghiottire la gente. E poi c’è Ted, il giovane protagonista, che mette insieme tutti questi elementi, trovando una soluzione al Mistero del London Eye. È un giallo ben congegnato, insomma, quello messo a punto da Siobhan Dowd, ma è anche un racconto straordinario che sa di vita quotidiana, di adolescenza e di affetti.

Con uno stile ironico e spigliato e una tecnica narrativa appassionante e sapiente, l’autrice del bel libro già vincitore del prestigioso Premio Andersen nel 2012 (miglior libro oltre i 12 anni) racconta infatti come Ted, grazie al suo modo strambo di ragionare, riesca a capire come il cugino Salim sia potuto salire sul London Eye senza apparentemente ridiscendervi e a ritrovarlo prima che possa fare la peggiore delle fini.

Affetto da Sindrome di Asperger, il protagonista ha difficoltà a interpretare tutte quelle espressioni – linguistiche o corporee – non univoche ma manifesta uno spiccato e non comune senso deduttivo. Il suo fiuto tutto basato sull’oggettività delle cose si mescola, dunque, a un’insormontabile difficoltà relazionale, a un’insolita passione per la meteorologia e a una curiosa incapacità a dire le bugie: quel che ne esce è un ritratto pertinente e intrigante della realtà Asperger, ben calata nelle dinamiche famigliari e nei contesti sociali che vi echeggiano intorno. La strada aperta ormai qualche anno fa dall’originale Strano caso del cane ucciso a mezzanotte trova qui, dunque, nuova polpa, grazie a un libro che sa fare magistralmente dell’ironia e dell’intrigo narrativo la chiave per sbucciare temi spinosi come la disabilità e la differenza.

Portato in Italia da Uovonero nella sua versione cartacea, il romanzo di Siobhan Dowd è ora reso disponibile in versione audiolibro da Emons, con la coinvolgente voce di Pietro Sermonti (che ne ha anche realizzato un buffo trailer in dialetto romanesco, alla maniera di Stanis La Rochelle della serie Boris): una coedizione, questa, particolarmente gradita poiché allarga le possibilità di fruizione di una delle storie più apprezzate dai ragazzi negli ultimi anni.

La voce del branco

La scrittura di Gaia Guasti ha, su tutte, due caratteristiche che la rendono notevole: è incisiva come poche e sa scavare nell’animo degli adolescenti con una minuzia chirurgica. Forte di questi due tratti, il suo ultimo romanzo La voce del branco trascina letteralmente il lettore tra le pieghe più profonde dell’animo di Mila, Ludo e Tristan, tre ragazzi che dall’oggi al domani si trovano a fare i conti con una misteriosa metamorfosi e con l’ineludibile richiamo di una natura selvaggia tutt’altro che umana.

Amici fin dalla primissima infanzia ma progressivamente allontanatisi con la scelta di scuole superiori diverse, i tre si ritrovano ogni anno lo stesso giorno – il 15 novembre – nello stesso posto – la sorgente ai piedi del Picco delle anime – per festeggiare i loro compleanni. È una sorta di rito segreto il loro, un momento a cui nonostante le differenze sempre più marcate tra le loro vite non riescono a rinunciare. È sempre stato così ma qualcosa di inatteso, un 15 novembre diverso dagli altri, accade: i tre ragazzi, appena riunitisi, vengono  infatti attaccati da un branco di lupi. Non è un attacco mortale e non è un attacco casuale, quello che li coinvolge: dal momento in cui vengono morsi, Mila, Tristan e Ludo avvertono un cambiamento progressivo, apparentemente inspiegabile e senza dubbio spaventoso, che mescola la loro identità umana a quella di lupi. In maniera sempre più insistentemente, la loro nuova natura ferina si fa spazio e li chiama a gran voce, imponendo loro di abbracciare una vita via via più selvaggia e di imparare a misurarsi con istinti e bisogni mai sentiti prima. Perché questo, in fin dei conti, esige il destino da licantropi che il morso dei lupi ha disegnato per loro: mettere “a tacere la mia coscienza umana per scoprire un altro corpo, un altro passo, un altro sguardo sul mondo?”, come spiega bene Mila verso la metà del racconto.

E il lettore che fa? Travolto da una narrazione incalzante, segue i tre ragazzi nelle loro successive trasformazioni, nella paura di essere scoperti da familiari e amici, nella caccia spietata che una sinistra lupa rossa dà loro e nel tentativo di fare luce sulle inquietanti morti che hanno accompagnato la metamorfosi. Lo fa col fiato corto e il cuore in gola perché il ritmo che l’autrice riesce a imprimere alla narrazione aderisce come una seconda pelle ai sussulti emotivi e ai minimi cambiamenti che i ragazzi percepiscono nel loro essere, rendendoli tangibili all’immaginazione di chi scorre le pagine. È così che la metamorfosi si svela poco a poco, tra aspetti oscuri e verità che man mano prendono forma, proprio come accade ai protagonisti del romanzo. Nel cuore delle avventure e delle prove che Mila, Tristan e Ludo si trovano ad affrontare, si va delineando in maniera sempre più netta e distinta la forza protettiva, rassicurante e persino curativa dell’amicizia, chiarissima forse solo a chi – come i bambini e gli animali – sperimenta senza alcuna remora una vicinanza – fisica ed e motiva – quasi istintiva, con l’altro. In un crescendo di tensione ed emozione, il romanzo si chiude con una fuga nel bosco dei tre protagonisti che alimenta come un mantice la curiosità del lettore verso il seguito della saga (in uscita a novembre): un ingrediente da non sottovalutare, questo, che insieme alla scelta di Camelozampa di impiegare caratteristiche di stampa ad alta leggibilità, può fare la differenza nell’ardua sfida di solleticare anche lettori meno propensi a frequentare i libri o con maggiori difficoltà ad affrontare la lettura.

 

Hank Zipzer. Odio i corsi estivi

In Tiratemi fuori dalla quarta abbiamo lasciato Hank alle prese con un tormentato superamento della penultima classe e ora eccoci qui: è arrivata l’estate e con essa i temibili corsi estivi che Hank si trova a dover frequentare mentre i suoi migliori amici si godono lo spassoso programma dei Giovani Esploratori. Si aggiunga poi che i compagni di corso del povero Hank sono i peggiori in circolazione (compresa la fidanzata dello stolido Nick McKelty) e si capirà il perché dell’umore nero di Hank. Unica consolazione: a tenere i corsi estivi è il signor Rock, insegnante di musica e docente preferito di Hank. È lui a chiedere come compito la presentazione di un personaggio famoso ammirevole e ad Hank, in particolare, consiglia di scegliere Albert Einstein. Così il ragazzo inizia una forsennata ricerca di informazioni sullo scienziato: l’obiettivo è confezionare la più straordinaria introduzione mai vista alla SP 87 perché la posta in gioco è alta. In ballo, per Hank, c’è infatti la possibilità di partecipare al talent show finale dei Giovani Esploratori con la performance da urlo dei Magik 3.

Anche questa volta il protagonista brilla per la sua capacità di affrontare i problemi con creatività, per le sue associazioni mentali sorprendenti, per il suo saper fare di una motivazione forte un importante alleato. Ma rispetto agli episodi precedenti, il protagonista mostra qui un’ulteriore inattesa qualità: il saper accogliere con dolcezza persone indifese, come il piccolo Mason, riconoscendo nelle difficoltà altrui le proprie e vestendo i panni di un affettuoso e talentuoso insegnante.

L’invenzione che ho inventato

Se c’è una lezione che il Piccolo Principe ci ha insegnato bene è quella di guardare oltre le apparenze, perché quello che può sembrare un cappello può rivelarsi in realtà una pecora ingoiata da un boa. Ecco, un bell’omaggio a quella preziosa lezione ci pare di scorgerlo nel delizioso albo L’invenzione che ho inventato, da poco reso disponibile dall’editore Storie Cucite in versione tradizionale e in versione inbook.

Protagonista della storia è Tommaso, un bambino operoso e creativo che, armato di fogli e pastelli, disegna un’invenzione geniale da lui stesso messa a punto. In cosa consista non lo scopriamo fino all’ultimo (e non lo riveleremo certo qui!) perché tutte le persone che Tommaso incontra vanno troppo di fretta, hanno uno sguardo troppo superficiale o sono troppo supponenti per coglierne davvero il senso, liquidando presto l’invenzione come una casa troppo storta, dal comignolo troppo alto, dal design antiquato o addirittura fatta al contrario. Solo alla fine, quando ormai Tommaso è del tutto scoraggiato al punto da gettare il suo lavoro nel cestino, trova il sostegno dovuto nella sua compagna Clara che capisce senza indugi in cosa consista la sua invenzione  e ne coglie al volo tutta la genialità.

Rispettoso del più autentico spirito infantile, L’invenzione che ho inventato dice in maniera davvero delicata e puntuale l’importanza di mantenere uno sguardo fresco sulle cose e di prestare attenzione al loro senso più nascosto, restituendo a chi sa mostrare un pensiero divergente tutto il rispetto e il valore che merita.

Il libro si compone di pagine ampie in cui il testo in simboli WLS riquadrati trova adeguatamente spazio, agevolando così la lettura p. Adatto a un pubblico di lettori un pochino rodati – data per esempio la presenza di frasi piuttosto lunghe e di strutture sintattiche dalla linearità variabile – L’invenzione che ho inventato offre un’occasione per sperimentare non solo una lettura non scontata ma anche possibilità immaginative nuove.

Farfariel

Farfariel è il titolo di un romanzo insolito e coraggioso pubblicato da Uovonero nel 2018 per un pubblico di lettori forti. È insolito e coraggioso perché racconta di un luogo e di un tempo distanti dal presente (eppure da questo per nulla scissi) quale la campagna abruzzese del periodo fascista, e lo fa scegliendo una lingua fedelissima al quadro scelto, in cui dialetto e italiano si fondono e si contaminano profondamente.

La storia narrata è quella di Micù, bambino tenace e intelligente a cui la poliomielite ha lasciato in eredità una costituzione gracile, una salute instabile, una statura ridotta e una gamba zoppa: caratteristiche che segnano profondamente la sua quotidianità, tra dolori fisici, prese in giro malevole e stupidi pregiudizi dettati dalla credenza popolare. Ma Micù è forte di spirito e questi ostacoli impara a saltarli col suo personalissimo passo, soprattutto quando l’arrivo di un diavolo impertinente di nome Farfariel lo costringe a mettersi sulle tracce di un libro misterioso che condizionerà radicalmente la sua vita e il suo modo di affrontarla.

È una vita tutt’altro che in discesa, quello di Micù, costretto a fare i conti con un periodo storico molto duro e un contesto socio-culturale molto arretrato e povero. Qui la distanza tra signorotti e braccianti è netta e apparentemente incolmabile, ben rappresentata da personaggi ben definiti e capaci di portare con sé una precisa visione dell’esistenza. Intorno a Micù si muove infatti una moltitudine di personaggi che incarnano valori molto diversi tra loro: due su tutti il papà di Micù, lavoratore infaticabile e a tratti violento che a testa china si rassegna al suo destino sottomesso e che in esso proietta anche il destino del figlio, e il nonno Tatà che, forte di un passato avventuroso in America (o per meglio dire, lamerica, di cui reca traccia la sua lingua misteriosa e affascinante), porta avanti e trasmette a Micù l’idea di un necessario e giusto  riscatto sociale.

Densissimo e ricco di memoria, Farfariel non è un libro immediato o leggero. La sua lettura – vuoi per la lingua impastata di dialetto, vuoi per le vicenda che affondano in un contesto sopito – mette il lettore di fronte a una sfida consistente e impegnativa ma che, se accolta e affrontata con determinazione, può offrire un bagaglio prezioso di spunti e nondimeno un certa ironia.

Nel mio giardino il mondo

Un giardino, piccolo o grande che sia, è un piccolo teatro a cielo aperto. Qui accadono meraviglie di diversa taglia, avvengono scoperte straordinarie e si dipanano storie travolgenti: la natura offre infatti materie prime a iosa per trasformare pomeriggi qualunque in autentiche imprese da ricordare.

Lo sanno bene i tre protagonisti del delizioso albo senza parole Nel mio giardino il mondo, firmato da Irene Penazzi ed edito in Italia da Terre di Mezzo. Intercettati sul fare della primavera, quando gli uccelli si risvegliano e i primi germogli fanno capolino, i tre giovani si avviano fuori casa armati di una palla, una poltrona e un rastrello: tre oggetti simbolo di quel che un giardino può diventare. Cornice di giochi, relax e lavori all’aria aperta, il giardino si trasforma infatti fin dalla seconda pagina in un luogo del fare in cui è difficile annoiarsi. C’è da estirpare le erbacce, sistemare il pollaio, creare rifugi a prova di sole e di pioggia, curare bestiole, gustare ciliegie, fare gli indiani, creare dinosauri,  festeggiare compleanni e trovare tesori. Solo per fare qualche esempio, puntualmente fotografato dalla matita colorata dell’autrice. C’è da fare tutto questo e molto altro perché la bella stagione passa in fretta e non si fa in tempo a meravigliarsi di fronte alla magia delle lucciole in una calda sera d’agosto che è già ora di raccogliere fichi, creare tane per ricci, scaldarsi di fronte a un fuocherello e rassettare il giardino prima che la prima neve cada e l’inverno renda meno intensa (ma non certa nulla, come ci suggeriscono il pupazzo e la slitta!) la vita all’aria aperta.

Scorre insomma un anno intero tra le pagine di questo albo meraviglioso, scandito da ritmi diversi a seconda della stagione di volta in volta ritratta. Al breve e pacato inverno, reso attraverso due pagine silenziose prive di figure umane, si contrappongono le numerose e movimentate pagine dedicate alla bella stagione in cui i bambini protagonisti paiono non fermarsi mai, animati da un irrefrenabile spirito di creazione ed esplorazione che trova nello spazio del giardino un vero e proprio regno delle possibilità. Il tratto di Irene Penazzi, dal canto suo, è preciso e dinamico, capace di restituire tutta la vitalità delle giornate operose all’aria aperta e il brulicare di avventure più o meno immaginarie che nel cuore di un giardino possono prendere forma. Ci si può attardare con gusto e perdere con grande soddisfazione, dunque, tra le sue tavole ricchissime ma tutt’altro che soffocanti, nelle quali riconoscere con delizia gesti familiari, dettagli nascosti, spunti di gioco e  osservazioni importanti.

Anche in virtù di questa qualità oltre che dell’assenza di parole, risultano innumerevoli le letture che di questo albo si possono fare, a tutto vantaggio anche di un pubblico di giovani lettori con difficoltà (per esempio legate alla dislessia, alla sordità o ai disturbi della comunicazione) che possono qui trovare un terreno narrativo fertilissimo, aperto e stimolante.

Un lupo nella neve

Ci sono un lupo e una bambina dalla mantella vermiglia, nel libro di Matthew Cordell ma – attenzione! – la storia narrata non è affatto quella di Cappuccetto Rosso (per quanto questa echeggi senza dubbio). Qui il lupo e la bambina non sono infatti nemici ma diventano piuttosto complici in una situazione di comune difficoltà.

La protagonista dal cappuccio rosso viene presentata dall’autore all’uscita di scuola quando, sorpresa da una tormenta di neve, perde la strada di casa e si trova smarrita. La stessa sorte capita in contemporanea a un cucciolo di lupo che finisce per restare indietro rispetto al suo branco e a ritrovarsi solo in mezzo alla bufera. Superato il timore del primo incontro, i due decidono di affrontare insieme l’ignoto nel tentativo di ritrovare le rispettive famiglie, condividendo la preoccupazione, la paura e la difficoltà di procedere in una situazione ostile. Sarà proprio quella condivisione a renderli più forti di quel che paiono di fronte a ostacoli pericolosi e a riportarli sani e salvi sulla via di casa. Rintracciata mamma lupo, infatti, anche la bimba potrà godere della gioia del ricongiungimento con i suoi cari grazie all’intervento  riconoscente del branco del suo nuovo amico.

Come la più classica delle fiabe, Un lupo nella neve accompagna il lettore a esplorare i sentimenti più bui e quelli più luminosi del suo essere umano. Lo fa con una forza e una semplicità di grandissimo impatto, soprattutto se si considera che la storia procede interamente per immagini: caratteristica, questa, che rende il lavoro di Matthew Cordell ancora più interessante, perché ne consente la piena fruizione anche da parte di giovani lettori con difficoltà di lettura legate per esempio alla sordità o alla dislessia.

Le piccole vittorie

Le piccole vittorie è un racconto autobiografico a fumetti in cui l’autore, il canadese Yvon Roy, offre al lettore la sua personalissima esperienza di papà di un bambino con autismo. La graphic novel ripercorre infatti la storia della sua famiglia alla luce di quella diagnosi che ne ha fortemente segnato lo sviluppo. Dalla nascita di Olivier all’accettazione del suo peculiare modo di stare la mondo, dalla rottura della coppia genitoriale agli sforzi per mantenere comunque sereni i rapporti famigliari, dall’iniziale incomprensibilità di una diversità inattesa alla messa a punto di strategie creative per costruire un rapporto padre-figlio unico e solido. Yvon non fa mistero, infatti, dello spiazzamento che la diagnosi di autismo di Olivier ha portato nella sua vita e delle amorevole soluzioni che di giorno in giorno sperimenta per farlo crescere, per dimostrargli il massimo supporto e per consentirgli di affrontare con successo limiti e sfide che talvolta parrebbero (o verrebbero presentate come) insuperabili. Così Yvon si ingegna, per esempio, per accompagnare Olivier a fronteggiare piccole grandi paure, per accogliere cambiamenti dentro e fuori casa e per sperimentare nuove abilità, in un cammino che non manca di cadute ma nemmeno di possibilità di rialzarsi. Il risultato è un racconto vivo, forte ed emozionante, che mette in luce l’importanza di un ruolo spesso trascurato quale quello paterno  nella costruzione di un percorso di vita pieno da parte di bambini e ragazzi con disturbo dello spettro autistico.

Schiettissimo e disposto a soffermarsi anche su sfaccettature intime o dolorose di una vita famigliare segnata da una diagnosi complessa, Le piccole vittorie si rivolge soprattutto ai lettori adulti e condivide alcune profonde riflessioni con un altro bellissimo e recente fumetto sulla genitorialità, con un punto di vista squisitamente paterno, quale quello di Fabien Toulmé uscito per Bao Publishing con il titolo Non è te che aspettavo. Anche Yvon Roy, come il collego francese, rivendica la scelta di raccontare una storia personalissima che non pretende di offrire ricette, verità o rappresentazioni universali, ma prova piuttosto a condividere un percorso di vita particolare nel quale ci si possa riconoscere o si possa trovare un sostegno e un incoraggiamento.

Il mago di Oz

Il lavoro che negli ultimi anni Erickson ha portato avanti sul fronte dell’adattamento dei classici della letteratura per l’infanzia a uso di lettori con difficoltà comunicative è importante e prezioso. Lo è soprattutto perché condotto con grande rispetto a attenzione nei confronti dei testi originali e con il coinvolgimento di molteplici figure le cui diverse professionalità sono garanzia di un prodotto finale che unisce con efficacia accessibilità e qualità estetica. Lo avevano mostrato già i primi due titoli della collana I classici con la CAAPinocchio e Il piccolo principe – e tornano ora a confermarlo i titoli più recenti come Il mago si Oz.

Felicemente illustrato da Giulia Orecchia, il libro restituisce al lettore tutta la vivacità dell’immaginario di Lyman Frank Baum con tavole in cui i colori si fanno protagonisti e i personaggi  toccano nel vivo la fantasia del lettore. Le incisive illustrazioni dell’artista milanese sono frequentissime (una ogni doppia pagina), il che concorre a rendere il libro una vera delizia per gli occhi e a fare dell’immagini un elemento chiave per l’aggancio, la comprensione e la rappresentazione della storia nella mente del lettore.

Per quanto semplificato e adattato, infatti, il racconto non è affatto banale sia per la ricchezza di eventi e personaggi coinvolti, sia per la lunghezza e il corpo del testo. Dal punto di vista narrativo vengono mantenuti infatti tutti gli episodi principali del romanzo – dall’incontro con il Boscaiolo di stagno, lo Spaventapasseri e il Leone all’arrivo nel regno di Oz, dall’incontro con la strega dell’Ovest all’avventura con le Scimmie Volanti, dalle ricompense del grande Oz al ritorno a casa – mentre da quello sintattico non mancano frasi di una certa lunghezza o composte da subordinate ed elementi lessicali poco comuni. Il libro si pone dunque come proposta di lettura adatta a un pubblico con difficoltà non troppo marcate e/o con una certa dimestichezza già accumulata con la lettura in simboli.

Scelti all’interno della collezione di WLS (Widgit Literacy Symbols), questi coinvolgono tutte le parti del testo (non solo quelle lessicali, quindi) e comprendono sia l’elemento alfabetico sia l’elemento grafico all’interno del riquadro. La loro distribuzione sulla pagina, come da modello inbook, segue la punteggiatura della frase così da rendere più agevole la lettura. Allo stesso scopo va sottolineata l’iniziativa dell’editore di corredare il volume cartaceo di una registrazione audio del testo, scaricabile gratuitamente grazie a un codice inserito in prima pagina: un accorgimento tutt’altro che irrilevante nell’ottica di rendere la fruizione del racconto il più possibile ampia e adatta a esigenze differenti.

Uff!

Dalla noia possono nascere cose meravigliose: parola di Uff, il più noiosamente annoiato dei bambini del pianeta! Dedito alla noia fin da quando era piccino e capace di elevarla ad arte degna di un professionista, Uff decide un giorno di proclamarsi “Sua maestà, il re supremo della noia”. Ma un re non può esser tale senza un trono e un castello. Che vanno dunque costruiti, magari con del cartone. Senza uno stuolo di sudditi, servitori e guardie. Che vanno dunque selezionati, magari tra i pupazzi e gli oggetti di casa. E senza una vita di corte. Che va dunque organizzata, gestita e regolata, magari con un gran dispendio di risorse immaginative. Così accade che nella noiosissima vita di Uff qualcosa scatti e che – resti tra noi –un barlume di divertimento faccia il suo trionfante ingresso nel regno della noia!

Con Uff!, Ilaria Guarducci costruisce una storia leggera e iperbolica che omaggia col sorriso le potenzialità insite nella noia ma anche il diritto a esser così come si è, anche se questo vuol dire risultare un pochino grigi e poco brillanti: perché anche sotto una corazza apparentemente piatta e immobile può celarsi un mondo ricchissimo e capace di stupire. Lo fa con un personaggio incisivo anche e soprattutto per la maniera in cui viene raffigurato forte di scodella fulva, orecchie a sventola e sguardo eloquentissimo. L’autrice mostra in generale una capacità apprezzabilissima di “dire” con le sue figure, creando un divertente dialogo con il testo. Stampato ad alta leggibilità grazie alla scelta del font Easyreading e a un’impaginazione ariosa, questo si presta ad incuriosire anche i lettori più riluttanti grazie a una palpabile ironia di fondo e a un uso efficace (e non distraente) di grassetti, colori e diverse dimensioni.

Una giornata di sole

Una giornata di Sole è una raccolta di microstorie quotidiane che vedono protagonista un cane di nome Sole. Pelo chiaro ed energia da vendere, Sole si trova ad affrontare diverse situazioni per lui perlopiù nuove – dall’incontro con il gatto neo-inquilino di casa al primo pomeriggio senza la sua padrona, dalla rottura del pupazzo preferito ai tuffi nel fiume – e le emozioni che da esse derivano. Attraverso ciò che accade al cucciolo peloso – soggetto capace di suscitare grande interesse e di rivelarsi familiare a numerosi bambini – il libro offre semplici e spendibili spunti anche per riflettere e riconoscere le emozioni umane. Non a casa al termine del volume si trovano alcuni suggerimenti di attività che genitori e insegnanti possono proporre sul tema ai loro bambini.

Pubblicato da Homeless Book in simboli WLS, Una giornata di Sole presenta un testo lineare ma non minimale, composto perlopiù di frasi brevi o coordinate e contraddistinto da un lessico quotidiano. Le illustrazioni semplici ma attente soprattutto a rendere con precisione le emozioni dei protagonisti – vero focus del libro – aiutano a rafforzare l’aggancio con il racconto il quale, grazie a una struttura frammentata in tante piccole storie, si presta agevolmente anche a una lettura in più momenti.

Fortunatamente

Fortunatamente è un albo delizioso che narra le peripezie affrontate dal giovane e impavido Ned per partecipare alla festa a sorpresa a cui è stato invitato: peripezie tutt’altro che banali, se si considera che comprendono il pilotare un areo che esplode per aria, buttarsi con un paracadute bucato, finire su un covone di fieno da cui spunta un forcone, esplorare un tunnel sotterraneo popolato da tigri, solo per citarne alcune. Ma Ned mantiene costantemente saldi i suoi nervi e, aiutato da una buona e regolare dose di fortuna, riesce a raggiungere la festa il cui ospite d’onore è davvero speciale!

Perfettamente congegnato dall’autore americano Remy Charlip che alterna con perizia avvenimenti fortunati ed avvenimenti sfortunati in un susseguirsi di emozioni irresistibile, Fortunatamente gioca con gusto con l’uso del colore e del bianco e nero e si contraddistingue per un testo incisivo e di grande ritmo. Scritto più di cinquant’anni fa, Fortunatamente è stato portato in Italia da Orecchio acerbo nel 2013. È però alla squadra de Il treno, cooperativa romana specializzata nella proposta di attività e prodotti in LIS, che si deve l’adattamento di questo straordinario lavoro in modo da risultare davvero a misura di bambini sordi segnanti. Grazie al passaggio dalla carta al digitale, che consente l’introduzione a ogni pagina di brevi video che raccontano il testo in LIS, Fortunatamente raggiunge più facilmente un pubblico spesso trascurato dall’editoria per l’infanzia. Lo fa peraltro con un prodotto apprezzabilissimo soprattutto per la maniera rispettosa e armonica con cui l’elemento aggiuntivo – i video in LIS appunto – va a integrarsi sulla pagina originale.

Il prigioniero senza frontiere

Ci sono libri piccoli piccoli che sanno dire cose molto grandi. E sanno farlo, talvolta, senza usare nemmeno una parola. È il caso del silent book Il prigioniero senza frontiere, firmato dall’autore canadese Jacques Goldstyn e proposto in Italia dall’editore Picarona: un albo tanto leggero quanto denso che illumina silenziosamente su quanto rivoluzionario sia il potere della parola e su quanto sacrosanto sia il diritto di esercitarla.

Protagonista del libro è un signore intento a partecipare a una manifestazione di dissenso. Non sappiamo quasi nulla di lui e dell’idea che difende ma la sua espressione gentile e la compagnia di una bambina sorridente che lo tiene per mano durante la protesta ci fanno presumere fin da subito che le sue intenzioni non siano cattive o bellicose. Eppure la manifestazione si trasforma in uno scontro, la polizia si prodiga in manganellate e arresti e così l’uomo si ritrova  improvvisamente e incomprensibilmente  in carcere. I valori per cui stava manifestando continuano ad animare i suoi pensieri anche se la solitudine della cella tenderebbe a portargli via la speranza. Ma un giorno qualcosa accade: l’uomo riceve una lettera che gli riporta il sorriso. Deve essere una lettera pericolosa, pensa la guardia, se quello è l’effetto, e così la lettera finisce in briciole. Ma poi le lettere diventano due, tre, dieci, cento… e per disfarsene la guardia è costretto a bruciarle.  Il problema parrebbe risolto se non che le tracce di fumo, cenere e brandelli di carta arrivano più lontano del previsto e tanti sconosciuti – vecchi e bambini, esquimesi e cow boy, marinai e clown e chi più ne ha più ne metta – iniziano a scrivere lettere al prigioniero, regalandogli una via di fuga tanto straordinaria quanto inattesa.

Costruito intorno a una potentissima metafora – quella delle parole che possono divenire ali – Il prigioniero senza frontiere si ispira a un’iniziativa reale promossa ogni anno da Amnesty International che invita i cittadini che hanno a cuore il rispetto dei diritti umani a scrivere missive ad alcune persone incarcerate ingiustamente così da non farle sentire sole e anzi a favorire la loro liberazione.  Questa maratona di lettere – così si chiama l’iniziativa – costituisce una forma di resistenza civile e manifestazione non violenta del proprio dissenso, in cui le parole reclamano a gran voce il loro peso e il loro valore. Goldstyn, dal canto suo, è riuscito a trasformare tale iniziativa in una storia di grandissima forza e peraltro ampiamente accessibile grazie a un racconto che oltre a fare a meno del testo, si sviluppa per quadri ben costruiti che rendono i passaggi narrativi  chiari e fruibili anche in caso di scarsa dimestichezza con la decodifica delle immagini.

 

Il piccolo vagabondo

Il piccolo vagabondo è un essere dall’aspetto reale e dall’indole fantastica, un ometto dall’aria affabile che viene in soccorso di viaggiatori e viandanti per aiutarli a ritrovare la strada e forsanche loro stessi. Con questo scopo egli compare con regolarità, facendo da trait d’union tra le sette storie che compongono la bellissima raccolta di brevi racconti senza parole firmati dalla giovane Crystal Kung. Cinese di nascita, taiwanese d’adozione e infine cosmopolita di spirito, l’autrice ha infuso ne Il piccolo vagabondo  la sua personalissima inclinazione al viaggio e tutto il ventaglio di emozioni e di epifanie che questo può recare con sé.

Dallo smarrimento al riscatto, dalla rinascita alla memoria: il variegato carico di esperienze che può nascere dall’incontro con il mondo è prima racchiuso e poi schiuso dai sette personaggi che escono dal suo finissimo pennello con una forza e una vividezza rare. C’è per esempio un ciclista che si perde e si ritrova finalmente tra le strade tortuose del Tibet, una giovane donna che riscopre la sua identità in una città apparentemente estranea o un anziano che grazie a un ombrello giallo ricevuto in dono riassaggia per un istante la sua giovinezza: tutte figure che interpretano sfaccettature differenti di un percorso di ricerca ed esplorazione, e che in qualche modo arrivano a una svolta sul loro sentiero grazie al provvidenziale intervento di quel piccolo vagabondo che all’occorrenza compare e scompare.

L’universo narrativo che grazie al particolare stile di Crystal Kung pare letteralmente prendere vita a filo di pagina è sospeso tra la dimensione reale e quella squisitamente onirica. Immergervisi offre al lettore un’occasione preziosa di confrontarsi non solo con sette storie emblematiche ma anche con il proprio personale bagaglio di ricordi e propositi, di orizzonti e radici, in un viaggio che dalla pagina muove nel profondo. Si tratta di un viaggio incantevole e struggente che l’autrice rende possibile grazie a un racconto per immagini che cattura il lettore e gli domanda un costante e raffinato coinvolgimento. Tutt’altro che immediata ed elementare è dunque la decodifica dei quadri che compongono il volume e della loro successione, a riprova del fatto che un’educazione all’immagine è tanto necessaria quanto quella al testo e che l’assenza di testo non significa automaticamente accessibilità della storia. Lettori curiosi e predisposti a itinerari narrativi arditi che manifestino spiccato interesse per il potenziale narrativo delle figure possono trovare qui una proposta appagante, avvincente, ricca e stimolante.  E ben sappiamo quanto di questo ci sia bisogno per tutti quei ragazzi che pur scontrandosi con forti difficoltà nella decodifica del testo, mostrano grande piacere, abilità e soddisfazione nell’attardarsi e confrontarsi con la sfida delle immagini.

Il tesoro del labirinto incantato

Cinque amici e un tesoro da trovare: nel parco dove regolarmente si trovano a giocare il pettirosso Red, la tartaruga Gaia, la talpa Pino, il riccio Valentino e la gatta Lola, compare infatti un giorno labirinto misterioso. Come esplorarlo per esser certi di arrivare al tesoro che cela? La saggia Gaia suggerisce di muoversi tutti insieme così da unire forze e talenti e l’idea si rivela vincente. Il fine ingegno della tartaruga, l’olfatto sopraffino della talpa, la vista acuta del riccio e quella ampia del pettirosso, uniti alla memoria  ben allenata della gatta portano il gruppo dritto alla meta e alla scoperta di un tesoro che più sorprendente non potrebbe essere, non solo per i protagonisti ma anche per Tommy e Viola che la storia del labirinto la ascoltano dalla zia Susanna in una sorta di storia-cornice che racchiude quella principale. Tommy ha infatti una gamba rotta e questo gli impedisce di andare a divertirsi al parco ma l’ascolto della storia del labirinto lo porta a entusiasmarsi all’idea di un parco in cui tutti possano giocare insieme, proprio come Red, Gaia, Pino, Valentino e Lola. Sicché a sua volta si impegna per progettarne uno e fare in modo che possa diventare reale!

Perché di parchi così, in cui il gioco possa essere effettivamente condiviso al di là di eventuali limiti sperimentati da qualcuno o più semplicemente di esigenze ludiche differenti, non ce ne sono molti nel nostro paese. Ed è un peccato. Quello al gioco è infatti un diritto sacrosanto  e l’ambito della progettazione dei parchi è uno di quelli in cui un approccio inclusivo, che tenga cioè conto delle esigenze di tutti, compreso chi vede male o non vede affatto, chi non può correre o arrampicarsi e chi può farlo ma con cautela, non può che risultare arricchente per tutti. Proprio da questa idea nasce il progetto che ha dato vita a Il tesoro del labirinto incantato, frutto del lavoro coordinato di moltissime realtà sensibili al tema del diritto al gioco e costruito con l’esplicito intento di portarvi l’attenzione dei lettori. Il libro, dal canto suo, propone una storia semplice in cui la diversità è chiaramente incarnata da personaggi zoomorfi dalle caratteristiche ben marcate, tanto nella mancanza (la cecità di Pino o la difficoltà a muoversi di Gaia, per esempio) quanto nella ricchezza di risorse complementari: una storia che, nella sua piana e facile rappresentazione, mira  a rendere concretamente apprezzabile anche da lettori inesperti l’idea che la diversità, nel gioco come nella vita, possa e debba essere un’opportunità.

Ma l’impegno delle realtà che hanno dato vita al libro e al parco inclusivo a cui esso si ispira (parco che proprio grazie a parte dei proventi del libro potrà prendere vita), non si è limitato al confezionamento di una storia dal messaggio chiaro e incisivo ma si è apprezzabilmente allargato alla sua resa il più possibile accessibile. Il tesoro del labirinto incantato presenta infatti sulla stessa pagina il testo in quattro versioni differenti – una più articolata, in nero, minuscolo e con font ad alta leggibilità Easyreading, una più piana ed elementare, in nero, maiuscolo a grande carattere, una in Braille e una simboli WLS – un’attenzione allargata a diverse esigenze di lettura che davvero raramente si è trovata all’interno di un volume. Grazie a un QRcode inserito nella seconda pagina, inoltre, è possibile ascoltare il testo in formato audio. Le illustrazioni, infine, si presentano ben contrastate e propongono rappresentazioni a tutta pagina prive di eccessivi dettagli, così da risultare a loro volta massimamente fruibili.  Interessante e degno di nota, a proposito di questo lavoro a 360° sull’accessibilità, il fatto che il libro sia nato dalla cooperazione di realtà editoriali contraddistinte da competenze diverse come Camelozampa, Puntidivista o la Federazione Nazionale delle Istituzioni pro Ciechi. Perché anche quando si parla di lettura accessibile l’insegnamento  di Red, Gaia, Pino, Valentino e Lola è chiaro: fare rete e mettere insieme abilità, conoscenze e talenti diversi non può che portare a un vero tesoro!

Supercarlo

Ci sono supereroi e supereroi. Supercarlo, per esempio, non è il tipo di supereroe che potremmo definire classico. Il suo costume è un po’ minimal – un paio di occhiali scuri – e i suoi superpoteri sottilissimi – olfatto, tatto, udito e gusto ultrasensibili. Eppure le sue imprese sono davvero straordinarie. Ne conosciamo qualcuna grazie al racconto di un suo amico, voce narrante della storia: quella volta in cui Supercarlo ha ritrovato la strada di casa grazie ai soli profumi della via, per esempio. O quelle altre in cui ha percepito suoni leggerissimi come le foglie cadute sul prato o il respiro del vicino assopito. L’ammirazione dell’amico per queste abilità di Supercarlo è davvero grande e sincera, e su di essa si regge l’intero racconto che assume da cima a fondo la forma di un ritratto affettuoso e ammirato. Fino all’ultima pagina che con un  semplice ribaltamento di ruoli e superpoteri restituisce a Carlo la sua normalità e al suo amico un pizzico di quotidiana straordinarietà.

Snello e dall’aspetto accattivante, Supercarlo è un racconto illustrato costruito in maniera molto efficace da Daniele Movarelli e Liuna Virardi. Pur poggiando su un’idea un po’ rischiosa e frequentemente ripresa all’interno della letteratura per ragazzi che guarda al tema della disabilità – ossia quella di riabilitare quest’ultima attraverso una certa idealizzazione di chi ne è colpito  – Supercarlo trova il modo di mantenere i piedi ben saldi a terra, concentrandosi su quella quotidianità – le avventure in città, le sfide dell’immaginazione, i pomeriggi di giochi e di storie, le merende golose – che rende ogni bambino a suo modo uguale a tutti gli altri pur nella sua unicità. Interessante e felicissima in questo senso la sinergia tra testi e immagini: la disabilità visiva di Carlo non viene mai infatti nominata ma si intuisce poco a poco grazie agli episodi narrati dall’autore e si palesa all’occhio attento del lettore grazie ad alcuni dettagli inseriti dall’illustratrice (uno su tutti il libro con illustrazioni puntinate). Il risultato è una lettura gradevole e tutt’altro che pedante, capace di raccontare il valore e l’importanza dell’amicizia come fertile incontro di ricchezze e debolezze. Sempre.

Nel buio

C’è il buio reale: quello della notte, delle stanze oscure e, non ultimo, della cecità. E poi c’è il buio metaforico: quello della solitudine, dell’incomprensione, della tristezza. Può capitare che i due si incontrino, generando un cortocircuito che può risultare, paradossalmente, illuminante. O almeno questo è ciò che accade all’interno di Nel buio, un libro intenso e fuori dagli schemi, a partire dal fatto che prende in prestito alcuni tratti propri dell’albo illustrato pur rivolgendosi  a un pubblico di lettori non piccolissimi.

Protagonista della storia è un adolescente dal fragile contesto famigliare che si atteggia a bullo, ricordando ogni tre per due a sé stesso, prima ancora che agli altri, quando si senta un duro e possa fare a meno di legami di ogni tipo. Il suo nome è Lucio, il che ha il sapore di un’anticipazione narrativa se pensiamo che l’incontro con Chiara, altro nome non casuale, sarà per lui letteralmente illuminante. Succede infatti che nel corso di una gita scolastica in visita a una grotta (che poi si scopre essere il percorso Dialogo nel buio), Lucio si perde e, l’oscurità più totale lo costringe a confrontarsi con le sue debolezze e con la bellezza di poter a volte fare affidamento su qualcun altro. È Chiara, per l’appunto, quel qualcun altro che regala a Lucio un po’ di fiducia nel prossimo, conducendolo fuori dalla grotta e accendendo un poco il suo cammino. Chiara è infatti cieca e al buio si muove con naturalezza: il suo incedere saldo e gentile, proprio là dove Lucio incespica e le sue sicurezze si sgretolano, le permette di aprire uno spiraglio in quell’animo torvo e chiuso in maniera apparentemente ermetica.

Capace di parlare a orecchie e occhi giovani e ribelli anche grazie a una grafica coraggiosa (tutta giocata sui toni scuri) e accattivante (in cui a immagini ampie si affiancano brevi didascalie e balloon), Nel buio offre  ad adolescenti e preadolescenti un’occasione di lettura insolita, in cui la dimensione del reale e del simbolico si intrecciano in maniera forte e incisiva.

Il nonno bugiardo

Ne racconta di storie, il nonno di Andonis! E il nipote, comprensibilmente, si chiede di continuo se siano vere o meno. Racconta storie quando banalmente arriva in ritardo, nonno Marios, ma anche quando, più sentimentalmente, evoca il suo passato da giramondo. Attore di teatro esiliato durante la dittatura greca, il nonno ha vissuto sulla sua pelle grandi eventi come il ‘68 parigino, eventi che nei suoi racconti restano sospesi tra il reale e l’immaginario, sicché il decenne Andonis oscilla tra il fascino che emana un passato avventuroso  e il timore che qualcosa gli venga costantemente tenuto nascosto. Come tutto ciò che riguarda la nonna, per esempio, di cui nessuno in famiglia parla. Chi era? Dove è finita? Perché tutti tacciono quando viene citata? E così silenzi e  mistero alimentano una visione talvolta distorta e talvolta surreale della storia famigliare fino a quando, una serie di viaggi in cui il nonno porta con sé Andonis, gli consentono di ritrovare i pezzi mancanti a una visione d’insieme. Quei viaggi saranno l’occasione per conoscere direttamente alcune tracce di quel passato favoloso narrato dal nonno e per  rafforzare il legame che lo lega a quest’ultimo: un legame che si alimenta di esperienze sui generis, citazioni di classici, conversazioni da grandi e che rivela forse tutta la sua intensità proprio quando il nonno viene a mancare.

Scritto da una delle più affermate autrici greche, Il nonno bugiardo è un libro dall’andamento perlopiù placido (ma mai stagnante!) e capace di un’accelerata sul finale, quando i tasselli del puzzle famigliare vengono a ricomporsi. Animato da personaggi ben caratterizzati e da una capacità rara di intrecciare la Storia e le storie, il romanzo di Alki Zei invita il lettore a una lettura sorniona, resa più fruibile non solo da una stampa ad alta leggibilità nella versione cartacea ma anche dalla possibilità di optare per soluzioni variegate – ebook (in formato epub o mobikindle, 7.90 €), audiolibro (8.90 €) e una combinazione dei due (9.90 €) – che dimostrano ancora una volta la grande sensibilità dell’editore Camelozampa per la questione dell’accessibilità della lettura.

Buon appetito. Un, due, tre… pappa!

L’interesse della casa editrice Bertoni nei confronti degli inbook e del loro potenziale nei confronti di bambini con e senza bisogni comunicativi complessi ha dato i suoi primi frutti nel 2018, con la pubblicazione de Il trenino Andrea va in montagna, seguito a stretto giro da Buon appetito. Un, due, tre… pappa!. A differenza del primo, edito soltanto in simboli, questo secondo volume nasce come alternativa adattata di un libro omonimo tradizionalmente stampato.

Tema dell’inbook in questione è, come anticipato dal titolo, il momento della pappa, qui positivamente trattata con attenzione agli stimoli multisensoriali e alle occasioni di socialità che esso offre. Il punto di vista preso in considerazione è quello di un paffuto bambino che dalla posizione privilegiata del suo seggiolone assiste alla preparazione di deliziosi manicaretti, partecipa con gusto al loro assaggio e si gode infine, a pancia piena, il momento ludico che segue il pasto. Una routine molto semplice e molto familiare è dunque al centro di questo volume smilzo nel formato e nel contenuto, che invita a trasformare il momento del pranzo in un momento di condivisa gioia.

Scritto in rima senza grandi ambizioni, con ampio ricorso per esempio a diminutivi, il testo si compone di frasi perlopiù brevi e semplici. Non sempre sviluppate linearmente, queste non mancano di termini poco usuali o dialettali che aumentano la complessità della lettura. I simboli utilizzati, come da modello inbook, sono i wls, riquadrati, in bianco e nero e scelti per tutti gli elementi del testo, compresi per esempio pronomi, preposizioni e articoli. A completare il tutto una serie di illustrazioni dai colori pieni e netti che sottolineano il tono positivo del testo.

Ridere come gli uomini

Fabrizio Altieri, autore e insegnante pisano, ha scritto un libro per ragazzi molto coraggioso. È un libro ambientato durante la seconda guerra mondiale e dell’orrore che questa ha recato con sé è da capo a fine pienamente intriso. Avanzando nella lettura, si piange, si ha paura e ci si chiede senza posa come sia stato possibile ciò che è accaduto, il che non è cosa da poco. Non ha avuto timore, lo scrittore, di mettere i giovani lettori di fronte alle numerose sfaccettature del dolore che hanno caratterizzato l’occupazione nazifascista, comprese quelle legate alla morte. Lo fa attraverso una storia che mescola abilmente verità storica e avventura, seguendo il tentativo di due fratelli di mettersi in salvo da un inseguimento nazista.

Uscito per fare delle commissioni insieme alla sorella Donata, Francesco trova infatti al suo ritorno i genitori impiccati dai nazisti. Francesco si rende allora conto di non essere più al sicuro e da lì inizia la fuga dei due fratelli per oltrepassare l’Arno e raggiungere la riva controllata dagli americani. Ma il viaggio a piedi è lungo e Donata, nata con la Sindrome di Down e proprio per questo perseguitata dalla SS che dà il tomento a lei e Francesco, rallenta un poco il cammino e lo rende talvolta più difficoltoso. Come quando si impunta per restare accanto ad ogni costo a Wolf, un cane lupo addestrato dalle SS e ad esse ribellatosi, che inizia a seguirli nel loro pericoloso viaggio. Sarà proprio Wolf, con il suo fiuto eccezionale e la sua profonda conoscenza del nemico, a proteggere i due protagonisti in più di un’occasione finendo per trovare in loro dei compagni affezionati e fedeli pienamente ricambiati. Quello del cane, peraltro, è uno dei punti di vista che l’autore assume per narrare la storia, creando un significativo effetto di risonanza agli eventi narrati e soprattutto ai pensieri che da essi possono scaturire.

Con una tensione narrativa mai smorzata, frutto di un periodo che davvero fu latore di pericoli e timori difficili da scacciare, Ridere come gli uomini riunisce intorno a una vicenda di fantasia numerosissimi spunti reali che, pur non essendo trattati nel dettaglio ma in qualche modo solo abbozzati in virtù di incontri più o meno fugaci, lasciano un segno nel lettore  e senz’altro concorrono a gettare in lui il seme della curiosità. Così, lungo il loro percorso Francesco e Donata incappano nelle SS, in un gruppo di anarchici generosi,  nei partigiani, nei disertori, nei fascisti di fede e in quelli per convenienza, nei contrabbandieri e negli alleati. Fanno esperienza diretta o vengono a conoscenza dei campi minati, delle rappresaglie, dei rischi corsi dai giusti come chi nascondeva gli ebrei e i perseguitati. Incontrano insomma a distanza ravvicinatissima tutto il male, anche il più irrazionale, che il conflitto mondale portò con sé, ma anche il bene che nonostante tutto trovò il mondo restare vivo. Il coraggio, la solidarietà, la pietà e la fiducia sono valori fortissimi che Francesco e Donata imparano presto a cogliere e condividere. La loro diventa così una storia singola che si fa anche storia plurale, capace inoltre di dare voce a una persecuzione poco sbandierata ma dolorosissima come quella operata dal nazismo nei confronti delle persone con disabilità.

Il bambino con le scarpe rotte

Il protagonista di questa storia di nome fa Dario ma quasi nessuno dei suoi compagni lo chiama così. Per tutti è “il bambino con le scarpe rotte”: appellativo sprezzante che ne sottolinea la condizione di indigenza e ne ferisce profondamente i sentimenti. Dario però non reagisce alle prese in giro, tende a tenere un basso profilo e a incassare i colpi senza dare grandi soddisfazioni ai suoi tormentatori. Un giorno però Bob e la sua gang si avvicinano minacciosi e fanno per togliere la sedia su cui Dario è seduto e questi, in uno scatto di rabbia, spinge via con forza il compagno facendogli battere la testa. Spaventato dalla sua stessa reazione e dal dolore causato a Bob, Dario corre via finendo per rompere il suo unico paio di scarpe. Quella che pare una disgrazia, tuttavia, apre per il bambino delle possibilità nuove: Dario scopre infatti di poter correre molto veloce, da scalzo, e proprio una gara a piedi nudi gli offrirà la chance di riappacificarsi con Bob.  “Tutto si aggiusta”, dice con dolcezza la mamma di Dario, in una chiosa che non ha certo a che vedere con le sole scarpe.

Racconto di altri tempi, capace di portare a galla una piaga tutt’altro che scomparsa come la povertà, Il bambino con le scarpe rotte si presenta come un albo ad alta leggibilità, grazie all’impiego del font Easyreading e di una serie di caratteristiche tipografiche come la maggiore spaziatura tra le parole, le lettere e le righe o la sbandieratura a destra: tratti che lo rendono particolarmente fruibile anche in caso di dislessia. Da non sottovalutare, in questo senso, anche la scelta di proporre la storia in forma di albo: la combinazione di testi snelli e immagini protagoniste a tutta pagine costituisce, infatti, un incentivo significativo alla lettura da parte di bambini della scuola elementare – cui frequentemente si propongono solo racconti con poche immagini –  anche con difficoltà legate ai Disturbi Specifici dell’Apprendimento.

 

Meno male che il tempo era bello

Che nessuno si azzardi più a dire che le biblioteche sono posti noiosi, polverosi e in cui non succede mai niente. L’incredibile vicenda della biblioteca Jacques Prévert, narrata abilmente da Florence Thinard, prova incontrovertibilmente il contrario. Ciò che accade è che un pomeriggio come un altro, durante un forte temporale, la biblioteca inizia a fluttuare come fosse una barca in mezzo al mare. Nessuna spiegazione plausibile, nessuna soluzione immediata: agli sventurati che si trovavano all’interno della biblioteca al momento del fattaccio non resta che rimboccarsi le maniche e fare fronte all’incredibile evento. E sì che la combriccola non potrebbe essere assortita in maniera più stravagante: insieme al personale – la solerte bibliotecaria Sarah, il direttore Patisson e la signora Perez addetta alle pulizie –  si trovano un utente fuori dagli schemi di nome Saïd e un’intera classe di scuola media accompagnata dal professor Daubigny.

Dopo i primi istanti di smarrimento, il gruppo si adatta alle avverse condizioni, trasformandosi in una ciurma a tutti gli effetti con tanto di mansioni specifiche, turni di guardia e insperato spirito da lupi di mare. Quando si è a bordo di una biblioteca fluttuante, tocca procurarsi il cibo, conservarlo e cucinarlo, raccogliere e immagazzinare l’acqua potabile, lavarsi, riposarsi, mantenere alti gli animi e, non ultimo, cercare di farsi notare da qualche potenziale mezzo di soccorso. Tutte piccole grandi imprese che la squadra riesce a portare a termine, in un crescendo di colpi di scena, imprevisti e svolte avventurose, grazie a un ammirevole spirito di gruppo, a una guida adulta intraprendente e mai scoraggiata, a un entusiasmo adolescenziale finalmente valorizzato a pieno, e ai preziosi spunti che i libri – da Robinson Crusoe ai manuali tecnici – sanno custodire e rivelare. Siamo pur sempre in una biblioteca!

Dopo un inizio calmo e pacato, che lascia al lettore il tempo di acclimatarsi nella Jacques Prévert e prendere confidenza con i visitatori di quel fatidico martedì 12 febbraio, il romanzo di Florence Thinard prende letteralmente il largo, portando con forza il lettore tra e sopra le mura di quell’insolita barca che dalla Francia raggiunge rocambolescamente le Azzorre. La molteplicità di personaggi coinvolti, i dialoghi serrati e spesso non attribuiti, le frasi non sempre brevi e talvolta ricche di coordinate non danno certo vita a una lettura banale ma la natura avvincente del racconto lo rende particolarmente appetibile anche a ragazzi che con le lettura non vanno proprio d’accordo, magari per difficoltà legate alla dislessia. A supporto di questi ultimi (ma in favore in realtà di tutti i lettori, dato il carattere universalmente amichevole dei tratti in questione) viene inoltre la scelta dell’editore di impiegare il font Easyreading e le principali caratteristiche di alta leggibilità per la stampa del volume ma anche di offrire la possibilità di scaricare il romanzo in formato mp3 così da immergervisi attraverso l’ascolto, esclusivo o affiancato  alla lettura.

Ci si vede all’Obse

Non è un’estate facile quella che aspetta Annika. Non è un’estate facile né tantomeno prevedibile. Proprio quando la partenza per la casa di campagna si fa imminente, infatti, alla mamma di Annika si rompono le acque e un’inattesa corsa in ospedale si rende necessaria, tra lo spavento e la concitazione del momento. Annika ne è molto scossa e per un po’ cerca il più possibile di evitare casa sua, dove ancora il sangue della mamma lascia traccia e tutto sembra parlare di un evento che dovrebbe essere lieto e che invece è iniziato malissimo. Sono giorni  confusi, tormentati e solitari quelli che seguono la nascita del fratellino, giorni in cui la ragazzina alterna momenti in compagnia dell’affezionato nonno e momenti in compagnia di un improvvisato gruppo di amici conosciuto all’Obse, il parco dell’osservatorio astronomico di Stoccolma.

Sono amici strani – Kaja, Tubbe, Foglia, Biscotto e Finnico – amici che condividono i pomeriggi tra ozio, bravate e autentici atti vandalici in un tempo che scorre pigro e quasi sospeso. Il gioco più frequente è obbligo o verità, senza però la possibilità di scegliere la seconda opzione: perché la storia che ognuno di loro porta sulle spalle è a suo modo dolorosa e il tacito accordo su cui si regge il gruppo è che nessuno sappia nulla degli altri. Annika dal canto suo si adegua, mettendo a frutto la sua rinomata predisposizione a raccontare bugie e mostrando un lato di sé in cui lei stessa fatica a riconoscersi. Fino a quando le cose in ospedale prendono rapidamente una piega inaspettata, il gruppo trova abbastanza forza da concedere spazio a una condivisione più profonda e la verità si fa troppo pressante per essere tenuta dentro.

Disincantato e schietto, a tratti crudo e stridente, Ci si vede all’Obse offre un ritratto della preadolescenza tutt’altro che consueto. Con coraggio e autenticità fa emergere il lato più buio e doloroso dell’essere ragazzi, quando la vita ti mette davanti a situazioni difficili senza averti ancora fornito tutti gli strumenti per affrontarle. Che sia per una vita che rischia di spegnersi appena nata, una quotidianità povera, una situazione famigliare agiata ma con adulti ben poco presenti o un fatto che ti fa smettere di credere in Dio, poco importa: la sofferenza covata e irrisolta lascia strascichi evidenti e trova talvolta espressione  e sollievo in atti e vicinanze apparentemente inopportune ma forse vitali. Cilla Jackert questo lo rende molto bene, offrendo al lettore soprattutto di scuola media una lettura che scuote e anima, e forsanche turba, nel profondo. La consueta attenzione dell’editore Camelozampa a rendere la narrazione fruibile anche a giovani lettori con difficoltà legate a una disabilità o a un Disturbo Specifico dell’Apprendimento trova qui espressione non solo nell’apprezzabile stampa del volume ad alta leggibilità ma anche nella possibilità offerta di godere del racconto in formato audio mp3 (8,90 euro), audio ebook (9,90 euro) o ebook epub o mobikindle (7,90 euro)

Champion

La scrittura di Christophe Léon ha un potere magnetico che difficilmente lascia scampo. Incisiva, schietta e sempre puntualmente attenta al mondo che racconta, questa riesce a modellare narrazioni autentiche di cui il lettore sente forte e chiaro il valore: un fatto che avevamo largamente apprezzato qualche anno fa in Reato di Fuga (Sinnos, 2015) e che ora non manca di trovar conferma nel romanzo breve edito da Camelozampa e intitolato Champion. Anche qui c’è di mezzo un incidente d’auto (quantomeno potenziale): in piena campagna, su di una strada poco frequentata, si incrociano infatti Brandon, giovane promessa dell’atletica diretto a piedi allo stadio, e l’hummer che Luc, suo coetaneo, è intento a guidare senza permesso del padre e soprattutto senza patente. Cosa accada di preciso tra Brandon e l’hummer guidato da Luc non lo sappiamo fino alla fine e l’abilità dell’autore sta proprio nel fatto di mettere progressivamente a fuoco il momento dell’incontro e comporre intorno ad esso un complesso collage emotivo. Perché a margine (ma nemmeno troppo) di quell’incontro appaiono diversi altri personaggi, apparentemente senza legami con la vicenda principale e in realtà ed essa legati a doppio filo.

C’è Lauryanne, per esempio, che scorge Brandon lungo la strada e tenda di avvisarlo dell’arrivo del mezzo ma poi si disinteressa di quel che può essergli accaduto. C’è Abigail, la fidanzata di Brandon, che con lui aveva appuntamento allo stadio ma che interpreta il suo non presentarsi come un affronto personale. C’è Louella, la fidanzata di Luc, che vive in diretta la folle corsa sul pericoloso mezzo, tormentandosi a lungo sulle possibile conseguenze di quella bravata. E poi c’è il giovane David, ragazzo autistico intento a fare una consueta e lunga passeggiata proprio in prossimità del luogo incriminato e incapace di resistere alla tentazione di appropriarsi del paio di cuffie e del telefono che lì ritrova. Tutti in qualche modo sono indirettamente coinvolti nell’accaduto ma tengono la bocca chiusa per timore o per indifferenza. E sì che in quella curva con scarsa visibilità il giovane Brandon scompare, lasciando la polizia con un bel mistero da risolvere.

Che il giovane covasse pensieri tormentati lo scopriamo man mano, quando l’autore ci mette a parte della deprecabile proposta fattagli dall’allenatore e dal papà, di ricorrere all’aiuto del doping per poter ambire a importanti medaglie con minor tempo e fatica. Ecco allora che accanto al tema della responsabilità e della scelta, ricompare fortissimo anche il tema dello scontro generazionale e del significato più autentico che la parola adulto dovrebbe contenere. Il tutto attraverso un racconto polifonico in cui ogni capitolo porta uno sguardo e una voce nuova. Come in un cambio registico di inquadratura, ogni capitolo sembra cioè avviare una storia diversa mentre in realtà arricchisce quella già messa in piedi. L’effetto dal canto suo è insolito e vincente poiché porta nuova linfa narrativa a ogni ripartenza, fino al delinearsi complessivo del quadro in cui ogni filo trova il suo spazio e concorre a definire un unico disegno. Questa incalzante tensione narrativa, unita a una rara capacità di cogliere l’animo adolescente nel profondo fanno di Champion un romanzo estremamente coinvolgente. La sua brevità e la stampa ad alta leggibilità, inoltre, lo rendono particolarmente fruibile anche in caso di dislessia.

I libri delle stagioni – Autunno e Inverno

I wimmelbuch sono, per definizione, libri brulicanti. Brulicano i personaggi sulla pagina, brulicano le storie a cui questi danno vita e brulica, da ultimo, la fantasia del lettore che corre loro dietro. Quando lo sguardo incontra le pienissime tavole di questi volumi, la densità di elementi che chiamano attenzione è tale da generare un particolare ed eccitante spiazzamento, travolgente preludio  al dipanarsi di una composizione narrativa tutt’altro che caotica e casuale. Questo almeno è ciò che accade negli straordinari Libri delle stagioni di Rotraut Susanne Berner che, dissolta la prima impressione di sopraffazione data dalla fittezza degli elementi, rivelano una struttura rigorosissima in cui ogni dettaglio assume un preciso e meditato significato. E proprio da questo scarto imprevisto tra confusione iniziale e meticolosa esattezza che pian piano si rivela dipende forse il carattere irresistibile di questi libri in cui il lettore è silenziosamente invitato ad attardarsi per compiere un’esplorazione che difficilmente si esaurisce in una sola lettura.

I libri delle stagioni sono, come facilmente intuibile, quattro, due dei quali – Inverno e Autunno – pubblicati in Italia nel 2018 da Topipittori. La cittadina in cui sono ambientati è sempre la stessa, ben riconoscibile con  il suo centro e la sua campagna circostante, e caratterizzata da edifici chiave per la comunità come il centro culturale e quello commerciale, la piazza, la stazione o il parco con il laghetto. Sviluppata lungo una strada dritta come un fuso, la cittadina viene osservata dall’autrice come attraverso una cinepresa che si muove orizzontalmente catturando sette istantanee finemente legate l’una all’altra: a prestar bene attenzione, infatti, i dettagli dell’estremità destra di una doppia pagina combaciano con quelli all’estremità sinistra della seguente sicché, se poste affiancate, queste potrebbero ricomporre un paesaggio unico senza soluzione di continuità. All’interno dei diversi libri, le istantanee sono scattate dalla matita dell’autrice sempre nello stesso punto il che aumenta la sorpresa e il gusto di una lettura consecutiva o parallela dei volumi poiché all’interno di cornici analoghe accadono cose sempre differenti.

Perché ogni stagione ha le sue attività, i suoi riti e i suoi ritmi, la natura e la città vestono abiti diversi a seconda del momento dell’anno e così fanno i suoi abitanti che, sempre non a caso, ricorrono da un volume all’altro. Così la signora riccia e paffuta che in autunno raccoglie e trasporta un’enorme zucca, in inverno rincorre il bus per non fare tardi a un appuntamento; il signore dall’ampio cappotto verde che in autunno acquista e sfoggia un’originale lanterna a forma di oca, in inverno accompagna un’oca in piume ed ossa a incontrare le sue simili del lago; e il pappagallo Nico che in autunno esce dalla finestra di casa per andarsene a zonzo per la città, in inverno decide di replicare l’esperienza nonostante i primi fiocchi di neve. E di questo passo potremmo continuare a lungo perché gli abitanti che popolano la cittadina e le pagine della Berner sono tanti e minuziosi, ciascuno con una storia, una personalità, un ruolo sociale e una quotidianità che l’autrice ha ben chiari in mente e che non manca di svelare al lettore grazie a una coerenza narrativa, interna al singolo volume ma anche all’intera serie, davvero sbalorditiva.

Anche e soprattutto per questo sono libri incredibili, i suoi  libri delle stagioni, che celano marchingegni narrativi sofisticatissimi e aprono le porte a una lettura dilatata,  personalissima e potenzialmente ripetibile all’infinito. Sono talmente tanti i particolari cui prestare attenzione che ogni volta ci si ritrova a stupirsi e a godere di quel piccolo fremito di sorpresa e soddisfazione dato da un dettaglio rivelatore, da un quadro che si ricompone, da dei fili che si intrecciano rivelando il complesso e rigoroso impianto progettuale dell’autrice. E i dettagli in questione sono diversissimi tra loro, più o meno nascosti (il libro acquistato dalla signora col fez non ha un’aria felicemente familiare?), più o meno raffinati (quella volpe che dal muretto osserva il corvo e il suo formaggio appena rubacchiato, non omaggia con gusto la tradizione esopiana?), più o meno istantanei (chi riesce a rintracciare il bottino della gazza ladra e i suoi originali proprietari?): dettagli che giocano saporitamente con la dimensione del grande e del piccolo, del vicino e del lontano, dell’immediato e del durevole predisponendo uno spazio di scoperta che si adatta a età, contesti di lettura, capacità di inferenza e attenzione, conoscenze, e, non da ultimo, abilità e modalità di lettura diverse.

Sono volumi straordinariamente trasversali, dunque, I libri delle stagioni e questo li rende preziosissimi anche in un’ottica rivolta all’accessibilità. L’assenza di testo, la stratificazione narrativa e la libertà di movimento non solo concessa ma implicitamente incoraggiata nel lettore li rende infatti apprezzabili e fruibili a pieno anche da parte di bambini con disabilità – uditiva o cognitiva, per esempio, ma anche comunicativa –  o Disturbi Specifici dell’Apprendimento, predisponendo un terreno fertilissimo, proprio perché naturalmente accogliente nei confronti di possibilità di lettura differenti, per il brulicare di esperienze narrative e relazionali.

Ago storia di un capitano

Ago, storia di un capitano è la storia di Agostino Di Bartolomei, capitano della Roma negli anni ottanta. Non c’è ragione, tuttavia, di considerare questi volumetto – agile e scattante come un buon centrocampista – di interesse esclusivo per gli appassionati di calcio o, addirittura, per i soli tifosi della Roma. Quella di Ago è infatti una storia di talento che non sfocia nell’arroganza, di una timidezza che favorisce il gioco di squadra, di una maniera non ostentata di vivere lo sport del calcio. Sicché, per quanto si tratti di un felice omaggio a un grande campione, anche chi non lo conosce affatto può godersi il valore e la bellezza della sua storia.

Piacevole, scorrevole e conciso, Ago storia di un capitano propone una lettura accessibile e amichevole non  solo grazie al font specifico per dislessia biancoenero e a caratteristiche tipografiche che affaticano meno la vista, ma anche grazie a un racconto snellissimo a firma di Giulia Franchi in cui poche frasi brevi fanno quasi da didascalia alle numerose e incisive illustrazioni. Dinamiche, espressive ma al contempo molto essenziali, queste sono realizzate da Massimiliano di Lauro che gioca con perizia sui vuoti e sui pieni della pagina. Il risultano è un racconto snello e palpitante che in poche pagine sa appassionare il lettore. Un bel goal insomma per la casa editrice Biancoenero!

Oggi divento

Quello dei quiet book – libri interattivi in stoffa che propongono a ogni pagina piccole attività che stimolano la dimensione sensoriale, la motricità fine e l’apprendimento – è un mondo estremamente affascinante e creativo. In rete circolano diversi video che mostrano prototipi molto raffinati, veri e propri capolavori di manifattura che invitano i bambini a sperimentare attività variegate: dal conto all’allacciatura delle stringhe, dall’associazione di forme alla ricomposizione di figure bi o tridimensionali. Sono libri complessi, estremamente stimolanti, spesso personalizzabili in virtù del fatto che risulta molto difficile (talvolta pressoché impossibile) realizzarli in una maniera diversa da quella artigianale. E questo chiaramente incide, e non poco, anche sui costi che spesso rendono questi volumi letteralmente proibitivi e un’esperienza di lettura e gioco dalle straordinarie potenzialità difficilmente fruibile da parte del grande pubblico.

Ecco perché lo sforzo fatto dalla casa editrice di Rieti Puntidivista per pubblicare un quiet book interessante ma abbordabile è davvero ammirevole e degno di nota. Il libro, composto da cinque doppie pagine in feltro, si intitola Oggi divento ed è dedicato ai mestieri. Il bambino e la bambina che compaiono in copertina e che da qui sono staccabili per accompagnare il lettore attraverso le pagine del libro possono infatti trasformarsi in dottori,  cuochi, meccanici, pompieri e carpentieri – senza distinzione di genere, il che non è affatto scontato! – grazie a un numero considerevole di accessori, anch’essi sagomati in feltro e divisi in base alla professione di riferimento. Grazie a dei semplici pezzetti di velcro, i diversi accessori possono essere agevolmente applicati sulle sagome dei protagonisti, o semplicemente avvicinati ad esse, per dare vita a piccole situazioni e avventure quotidiane che si animano sulla e oltre la pagina, e poi essere, con la stessa facilità, ricollocati al loro posto. Tra di essi figurano attrezzi del mestiere, come stoviglie, utensili, scale ed estintori;  indumenti,  come camici, caschetti o cappelli da chef; e mezzi di trasporto, come l’ambulanza e il camion dei pompieri.

Pur senza offrire la varietà e la complessità di stimoli cui si faceva cenno sopra, Oggi divento propone un set davvero ricco per sviluppare semplici narrazioni che coinvolgono direttamente il lettore il quale, non trovando alcuna traccia scritta ma neppure alcun elemento di cornice se non l’ambito professionale suggerito da ogni gruppo di accessori, è chiamato in prima persona a far animare i personaggi e dunque a far nascere il racconto. L’interazione e la libera combinazione degli elementi (anche tratti da pagine diverse, perché no!) sono dunque la chiave di questo volume, fertile e al contempo semplice, oltre che capace di rispondere a bisogni immaginativi e narrativi molto diversi, inclusi quelli dettati da una disabilità sensoriale, comunicativa o cognitiva. L’assenza di testo, la consistente libertà di approccio lasciata al lettore, l’apprezzabile manipolabilità dei pezzi (sufficientemente spessi e agevolmente combinabili) e la loro chiara riconoscibilità nonostante la realizzazione con un unico materiale, rendono infatti Oggi divento un supporto prezioso e molto versatile, che merita di essere valorizzato all’interno di percorsi scolastici o familiari volti a sostenere e nutrire il diritto alle storie, anche nella loro componente squisitamente ludica.

 

Zucchero filato

Ci sono estati ed estati: quelle spensierate, che semplicemente attraversano un tempo sospeso tra la fine di un anno scolastico e l’inizio del successivo, e quelle decisive, che non solo segnano passaggi critici di crescita ma portano anche con sé cambiamenti inaspettati. Ecco, l’estate raccontata da Derk Visser in Zucchero filato rientra decisamente nel secondo tipo. Non solo la protagonista Ezra si accinge a iniziare la scuola superiore ma nella sua famiglia accade qualcosa di inatteso: il rientro dalla guerra del papà, infatti, non è affatto come nelle aspettative – gioioso e con la prospettiva di andare ad abitare in una casa più grande – bensì tutto il contrario – cupo e potenzialmente capace di distruggere l’unità famigliare.

Profondamente segnato dall’esperienza del fronte vissuta sulla propria pelle, il papà di Ezra appare il fantasma di sé stesso: paranoico, con la testa sempre altrove, depresso e inspiegabilmente aggressivo. Basta un petardo o la visione di una divisa per far scattare qualcosa di oscuro nella sua mente e fargli avere reazioni del tutto imprevedibili. E questo non è facile da accettare per nessuno, tantomeno per una ragazzina come Ezra alle prese con una fase delicatissima della vita come l’adolescenza.

Così Ezra si ritrova suo malgrado a farsi grande prima del previsto, prendendosi cura di quel papà così incapace di badare a sé stesso e alla sua famiglia. Lo fa anche quando questi passa il segno e aggredisce la mamma, costringendola a rifugiarsi presso una casa di accoglienza insieme a Zoe, la sorella minore di Ezra. Ma Ezra no. Lei gli rimane accanto fino a che è possibile, fino a quando non è costretta dai servizi sociali a raggiungere la mamma, nell’attesa che un periodo di cura porti un po’ di serenità tra le mura di casa.

Ostinata e risoluta, Ezra si mostra come un pendolo che oscilla tra il bisogno di sentirsi accudita e protetta e la necessità di tenere insieme la famiglia con tutte le sue forze, anche mostrandosi dura e sfrontata all’occorrenza. Accanto a lei, la sorellina di otto anni Zoe: la personificazione dell’ingenuità proiettata talvolta in un mondo adulto che non dovrebbe riguardarla. Come quando Ezra la porta con sé al centro commerciale per rubare un top da un negozio, scatenando una guerra di sfide e ricatti con una commessa meschina. Ma anche in quel caso è proprio Zoe, con il suo sguardo ancora inesperto sulle cose, a  mantenere Ezra aggrappata a una dimensione in cui il gioco, il sogno e la speranza possono ancora trovare spazio.

Il loro è un rapporto profondamente vitale, capace di offrire rifugio reciproco da una realtà – la famiglia che si disgrega, il quartiere disagiato, i guai quotidiani, il diventare grandi che entusiasma e spaventa- che talvolta si fa opprimente. Ecco allora che gli incalzanti dialoghi tra le due sorelle, intorno ai quali ruota l’intera narrazione, si fanno specchio efficace e ben riuscito di una realtà multisfaccettata e travolgente, anche per il lettore che si trova dall’altra parte della pagina. Con un racconto forte e schietto, Derk Visser propone una lettura tutt’altro che scontata e capace di lasciare un segno. La stampa ad alta leggibilità per cui opta l’editore Camelozampa – con font Easyreading e impaginatura più ariosa – offre dal canto suo un ultimo e significativo incentivo per il lettore, anche con difficoltà legate ai DSA, a immergersi in una storia che parte dai margini per mettere l’adolescenza al centro.

Una piccola grande invenzione

La storia delle invenzioni è piena zeppa di aneddoti intriganti, corse al fotofinish per la registrazione dei brevetti, contese lunghe secoli per l’attribuzione di un’idea. Non fa eccezione l’invenzione della molletta da bucato, protagonista di un lungo percorso progettuale fatto di mutande al vento, primi clienti insoddisfatti, bislacche soluzioni in corso d’opera e migliorie che attraversano le generazioni. Geniale inventore di quel semplice ma indispensabile oggetto che non manca nella casa di nessuno di noi, è il toscanissimo signor Piolo, benché la storia ufficiale attribuisca i meriti allo statunitense David M. Smith. Contraddistinto da un estro originale e incentivato da una caotica famiglia, il signor Piolo si mette all’opera per trovare il modo di far asciugare i panni di casa al ritmo con cui i suoi numerosi figli riescono a sporcarli: la sua sarà un’impresa poco eroica ma a dir poco rivoluzionaria che val la pena conoscere e ricordare, ancora oggi, ogni volta che un calzino resta saldamente appeso a uno stendibiancheria!

Raccontato in maniera snella e brillante, capace di accendere piccole scintille di curiosità e qualche sorriso, la storia del signor piolo e della sua Piccola grande invenzione è proposta da Sinnos nella deliziosa collana leggimi!, contraddistinta da tutte le principali caratteristiche di alta leggibilità (font specifico per dislessia leggimi, sbandieratura a destra, carta opaca, spaziatura maggiore). Corredata inoltre dalle frizzanti illustrazioni di Federico Appel, che non solo alleggeriscono la lettura, alternandosi o accompagnandosi frequentemente al testo, ma  ne caratterizzano fortemente lo spirito leggero e brioso, Una piccola grande invenzione ha il merito di coniugare storia, divulgazione scientifica e narrazione in un mix piacevole e coinvolgente.

L’orto della scuola

Permettere ai bambini di riappropriarsi di un rapporto sano e intenso con la natura, per esempio attraverso la cura di un orto di classe, è una pratica utile e quanto mai necessaria di questi tempi. Così anche la maestra di Luca propone ai suoi bambini di coltivare alcuni ortaggi durante l’anno. Le patate tanto per cominciare.

Nella prima storia che compone il volume L’orto della scuola (intitolato Patatine gialle fritte) la classe di Luca si dedica infatti con passione alla coltivazione di questo tubero che richiede pazienza e impegno. Saranno mesi lunghi quelli che si riveleranno necessari alla crescita delle patate, rendendo ancor più gustoso il momento in cui la cuoca della scuola potrò finalmente friggerle. Piselli e insalata sono invece i protagonisti della seconda storia (intitolata Il furto di insalata). Coltivati da Luca e dai suoi compagni con l’aiuto della maestra e dell’esperto contadino Osvaldo, questi spariscono da un giorno all’altro misteriosamente. A nulla varranno le indagini messe in campo e i sospetti verificati. La verità verrà comunque a galla grazie a un atto di coraggio e onestà del colpevole: qualità che val la pena coltivare, quanto e ben più degli ortaggi.

Di impianto un po’ più didascalico rispetto ad altri volumi della serie, L’orto della scuola risulta più dinamico e scorrevole nella sue seconda parte, grazie a una struttura narrativa più intrigante.

 

LA COLLANA TANDEM

L’orto della scuola fa parte della collana Tandem, la cui idea di base è sfiziosa: due storie indipendenti ma comunque legate tra loro, l’una più breve, semplice, stampata in maiuscolo e composta di frasi perlopiù essenziali; l’altra più lunga, più articolata, stampata in minuscolo e composta da frasi non prive di subordinate. La lettura della prima, più agevole e a misura di principiante, crea le condizioni e gli incentivi (conoscenza dei personaggi e della situazione di partenza, voglia di scoprire cosa succede in seguito, sfida a mettersi alla prova con un testo adatto a lettori un pelo più arditi) per affrontare la seconda nonostante il livello di difficoltà maggiore. Entrambe, poi, sono stampate dall’editrice Il Castoro rispettando criteri di alta leggibilità grazie a una font specifico denominato Sassoon e a una sbandieratura a destra. Ulteriori accortezze potrebbero venire dall’uso di una carta non lucida come quella attuale e da una più ampia spaziatura.

Teo e Leo

Teo e Leo sono fratelli, gemelli per la precisione. Si assomigliano molto (ma non del tutto!) e vivono questa loro affinità a tratti con favore e a tratti con avversione. Nella prima storia che li vede protagonisti (Gemelli quasi uguali), per esempio, i due si divertono al parco giochi in modi non convenzionali che avranno conseguenze un pochino dolorose, a suon di bernoccoli e denti dondolanti, ma che offriranno loro l’inattesa occasione di distinguersi l’uno dall’altro. Nella seconda storia (Voglio la febbre!), invece, i due si trovano forzatamente separati poiché Leo si ammala e Teo no, il primo resta quindi a casa mentre al secondo tocca andare a scuola. Invidiosi l’uno dell’altro e desiderosi di godere dei privilegi altrui, i due gemelli si inventano fantasiosi stratagemmi fino a scoprire che ciò che rende speciale lo stare a casa o a scuola dipende in gran parte da chi si ha accanto.

Vivaci e scanzonati Teo e Leo sono due personaggi divertenti, resi particolarmente simpatici da un approccio sorridente alla quotidianità delineato dall’autrice Sara Stangherlin e dal tratto fumettistico dell’illustratore Fabio Santomauro.

 

LA COLLANA TANDEM

Teo e Leo fa parte della collana Tandem, la cui idea di base è sfiziosa: due storie indipendenti ma comunque legate tra loro, l’una più breve, semplice, stampata in maiuscolo e composta di frasi perlopiù essenziali; l’altra più lunga, più articolata, stampata in minuscolo e composta da frasi non prive di subordinate. La lettura della prima, più agevole e a misura di principiante, crea le condizioni e gli incentivi (conoscenza dei personaggi e della situazione di partenza, voglia di scoprire cosa succede in seguito, sfida a mettersi alla prova con un testo adatto a lettori un pelo più arditi) per affrontare la seconda nonostante il livello di difficoltà maggiore. Entrambe, poi, sono stampate dall’editrice Il Castoro rispettando criteri di alta leggibilità grazie a una font specifico denominato Sassoon e a una sbandieratura a destra. Ulteriori accortezze potrebbero venire dall’uso di una carta non lucida come quella attuale e da una più ampia spaziatura.

Clown

La caccia appassionata di Camelozampa a chicche editoriali del passato da proporre (o riproporre) in Italia ci ha regalato in poco tempo libri pazzeschi e per questo non smetteremo facilmente di dire un sentito grazie all’editore di Monselice. Un grazie che si fa ancor più accorato ora che i suoi tipi hanno reso disponibile anche nel nostro paese quel capolavoro silenzioso firmato da Quentin Blake che è Clown.

Pluripremiato, anche con il Bologna Ragazzi Award nel lontano 1996, Clown è un albo senza parole ormai più che trentenne che avrebbe potuto esser creato l’altro ieri. Nelle avventure del pagliaccio pupazzo in cerca di una casa per sé e per i suoi amici gettati nell’immondizia da una risoluta donna – madre, nonna, governante o chi lo sa? –, si ritrova infatti una visione d’infanzia puntuale e una rappresentazione del mondo adulto, capace di mettere in luce, con tutte le sue ombre, l’attualissima tendenza a controllare, strattonare, mettere in mostra e sterilizzare, letteralmente e metaforicamente parlando, i bambini e il loro mondo.

Dal bidone della spazzatura in cui viene buttato insieme ad altri giocattoli, il clown di Quentin Blake esce con una caduta rocambolesca che è anche, significativamente, l’inizio di una rimessa in piedi. Da qui, dopo aver trovato le scarpe giuste – un paio di buffi scarponcini malconci – questi inizia a rincorrere e interpellare una serie di bambini nel tentativo di farsi adottare, insieme ai suoi compari di sventura. La risposta è sempre positiva ma tra chi viene trascinato via distrattamente con una sorta di guinzaglio e chi viene allontanato dal pagliaccio presumibilmente perché zozzo, la ricerca di un nuovo compagno di giochi si fa più ardua del previsto. Fino all’incontro – al volo, è il caso di dirlo – con una bambina in una situazione di disagio famigliare il quale, pur costringendola a farsi grande più in fretta del necessario, non annichilisce la sua capacità di stupirsi, godendo di piccole magie quotidiane e rendendole forse apprezzabili anche a qualcuno dei grandi che girano nei paraggi.

Lo stile di Quentin Blake è come sempre freschissimo, irriverente e dinamico, al punto che vien da chiedersi se possa esistere un personaggio che meglio di un clown – sempre in movimento, a tratti goffo e con il suo carico di malinconica ironia – vi trovi espressione. Forse no. E forse anche per questo quest’albo che proprio un clown rende protagonista ci appare così stupefacente. Capace di coniugare uno sguardo sorridente e un grande rispetto per i temi e le vite ritratte, con i loro più o meno superficiali aspetti di povertà, Clown mette a nudo vizi e debolezze caratteristici dei grandi, rivelandone tutta la miopia dello sguardo, soprattutto quando rivolto ai piccoli.

Inimitabile nella capacità di far avanzare una narrazione  e di darle spessore emotivo affidandosi a dettagli minimi e minuziosi, Quentin Blake propone qui una storia non solo indomita – nel senso e nel ritmo – ma anche largamente accessibile. All’assenza di testo – ossia di quell’elemento che spesso preclude la possibilità di godere appieno di un bel racconto, soprattutto in caso di dislessia o sordità – si aggiunge qui una costruzione per immagini che richiede sì alcune inferenze ma che dissemina la pagina di indizi utili a compierle e che perlopiù immortala frammenti narrativi che accompagnano per mano il lettore nella decodifica dell’accaduto. Questa modalità a tratti cinematografica fa sì che al lettore si offra una certa libertà interpretativa – quella peraltro caratteristica dei silent book – senza che passaggi troppo ostici o oscuri facciano inciampare il lettore il quale dunque, anche in caso di lievi difficoltà, può godere di una performance narrativa degna di un grade artista come Blake e come il suo irresistibile Clown.

Peter Pan

Novità tattile nata in casa L’albero della Speranza, Peter pan intende offrire anche ai lettori con una disabilità visiva un assaggio delle vicende fantastiche elaborate da Barrie. Nelle pagine rilegate a spirale che compongono il volume si condensano infatti le avventure di Wendy e dei suoi fratellini, condotti da Peter e da Trilly sull’Isola che non c’è e resi partecipi del celebre scontro con Capitan Uncino. Ci sono dentro le pagine dell’albo il volo notturno, l’esplorazione della Laguna delle Sirene, dell’Accampamento indiano e della Rocca del teschio, il rapimento di Trilly, il duello con le spade e l’incontro con il Coccodrillo: un concentrato di avventura che sta proprio un po’ stretto in un numero così contenuto di pagine e che si presta  più a soddisfare la curiosità e la fantasia di chi già forse conosce la storia dell’eterno bambino che non quella di chi ne è del tutto digiuno.

Peter pan  fa parte della collana Il tocco magico edita dalla casa editrice eporediese, specializzata proprio in volumi tattili. Sia i testi e sia le illustrazioni sono firmati da Anna De Stefano, già curatrice dei precedenti titoli della collana (tra cui Il principe e Pinocchio) che condividono con quest’ultimo impostazione e cifra stilistica. Ritroviamo anche qui infatti un racconto molto asciutto, attento principalmente a sintetizzare gli avvenimenti e ad anticipare ciò che le dita scopriranno nella pagina accanto, e affiancato da illustrazioni di stampo figurativo, in cui gli umani  sono sempre in primo piano, rappresentati nella loro interezza e in maniera piuttosto dettagliata. La ricerca e l’invenzione – caratteristiche importanti di un ambito editoriale quale quello tattile – si concentrano qui dunque su altri aspetti, quali per esempio la scelta di materiali adatti a rappresentare i singoli dettagli (come la carta sottilissima da imballaggio impiegata per la nave fantasma del finale) o la cura per i particolari (come la catenella mobile alla caviglia di Trilly liberata).

Odio i mocciolosi

Non si può negare che Mirello sia un tipo schietto. Prima ancora che il libro a lui dedicato decolli, il mostro ci tiene a mettere le cose in chiaro. “Mi chiamo Mirello e odio i mocciolosi”, esordisce spuntando deciso da pagina uno. Patti chiari, amicizia lunga. Se siete mocciolosi fatevene una ragione: con il mostro Mirello non avrete vita facile. Oppure sarà il contrario? In effetti, nonostante le minacciose premesse, il mostro Marcello si rivela un concentrato di goffaggine e una garanzia di flop del terrore. Incapace di rivestire qualsivoglia ruolo spaventevole, fa cilecca come Mostro della paura paurosa di sotto-il-letto, come Mostro della paura paurosa di dentro-l’armadio e persino come Mostro della paura paurosa di dietro-le-tende. Un fiasco totale, insomma, una caporetto della paura. Ma se è vero che la capacità di reinventarsi è qualità preziosa per gli umani, non vi è ragione per cui non dovrebbe esserlo anche per i mostri. Ecco allora che un’inaspettata carriera si prospetta davanti a Marcello. Che, certo, continuerà a odiare i mocciolosi, ma che almeno per una di loro potrà fare un’eccezione!

Odio i mocciolosi è un albo orchestrato in maniera davvero accurata ed efficace: capace di fare di parole e immagini un cocktail equilibrato, appare ideale per una lettura ad alta voce. Tanta parte in questo ha l’abilità dell’autrice Chiara Lorenzoni nello scegliere  espressioni gustose, nel dare una divertente veste quotidiana a un punto di vista fantastico, e nel dosare con perizia  racconto serrato e indugio su dettagli succulenti. Non da meno sono le illustrazioni di Antongionata Ferrari, ironicamente garbate, che sottolineano il carattere divertente e divertito della narrazione, che alternano felicemente riprese ampie e sequenze più frammentate e che fanno delle sfumature di colore un’intrigante e silenziosa chiave per interpretare le emozioni del protagonista.

Da ultimo,  anche la cura grafica gioca un ruolo interessante nella dinamicità e nella piacevolezza di Odio i mocciolosi. L’impiego di un font ad alta leggibilità come Easyreading, in particolare, risulta apprezzabile non tanto (o non solo) in favore di una lettura autonoma a misura di bambino dislessico – essendo probabilmente più apprezzabile, il volume, da parte di un pubblico in età prescolare – quanto in favore di un’idea di libro che sia da subito accogliente, anche quando letto al bambino da un adulto. Il bambino futuro lettore, anche con Bisogni Specifici dell’Apprendimento, costruisce infatti pian piano il suo rapporto con la parola scritta e il fatto di incontrarla da sempre in una forma più amichevole, non può che contribuire a rendere meno avversa tale costruzione.

Col naso all’insù

Si può volare in tanti modi: con le ali, certo, ma anche con l’immaginazione, con le emozioni, con il pensiero e con i sogni. A riflettere su queste molteplici possibilità è la protagonista dell’albo Col naso all’insù, bambina curiosa e pensosa che si lascia affascinare dal movimento aereo di sinuosi pennuti. Alla sua domanda direttissima “Cos’è il volo?”, l’uccello da lei interpellato risponde indicando tutto ciò che occorre per librarsi – dalla leggerezza la coraggio, dalla pazienza alla fantasia – avviando un dialogo denso e insieme rarefatto su ciò che consente a un individuo di “abbandonarsi al proprio vento”. Non vi è dunque una storia vera e propria, tra queste pagine, ma piuttosto una riflessione ad alta voce che porta la protagonista a conoscersi e a conoscere un pochino di più le sue potenzialità.

Il libro, scritto da Simonetta Angelini e proposto dall’editore Il Ciliegio anche in una versione in simboli, schiude quindi possibilità di riflessione e interpretazione molto personali nel lettore, anche grazie ad affascinanti ed essenziali illustrazioni firmate da Cristina Lanotte. D’altra parte, proprio quest’animo fortemente metaforico della narrazione, rende la sua fruizione in simboli da parte di bambini la cui capacità di astrazione è spesso compromessa, una sfida molto ardua e rischiosa. Un’espressione come “Il coraggio è un cuore tanto grande da farci entrare nel cielo”, per esempio, condensa in pochissime parole diversi concetti molto complessi da cogliere e interpretare proprio per il loro carattere astratto, allusivo e simbolico che difficilmente intercetta e incontra il favore di lettura di bambini  con autismo. È senz’altro positivo, si badi bene, il fatto che anche grazie a libri come questo la varietà delle possibilità di lettura offerte ai bambini (e ragazzi) con bisogni comunicativi complessi sia sempre più ampia e che la difficoltà non diventi ostacolo insormontabile alla proposta di sfide e percorsi nuovi. Occorre però prestare attenzione, nel momento in cui si decide di proporre volumi così complessi e distanti da un modo molto concreto di conoscere il mondo, a valutarne la reale fruibilità da parte del singolo lettore.

Una per i Murphy

La scrittura di Lynda Mullaly Hunt è magnetica, lo avevamo scoperto leggendo Un pesce sull’albero (non a caso vincitore di numerosi riconoscimenti in tutto il mondo tra cui il Premio Letteratura per Ragazzi di Cento). Ecco perché la pubblicazione, sempre per i tipi lungimiranti di Uovonero, di un nuovo romanzo dell’autrice americana (anche se in realtà sarebbe il suo primo) è una notizia che manda in brodo di giuggiole. Ed ecco perché, anche dopo la lettura, in quel brodo si resta a mollo!

Una per i Murphy – questo è il titolo del libro – è infatti un romanzo di grande forza, che mette a  nudo l’importanza di un’educazione sentimentale di cui la famiglia è prima custode. Lo fa attraverso la vicenda di Carley Connors, ragazza tenace e fragilissima, vissuta per anni insieme a una madre per nulla in grado di occuparsene, scampata alle intenzioni violente del patrigno e finita in affido all’affettuosa famiglia dei Murphy. E qui, in particolare, inizia il racconto che riprende Carley nei mesi in cui cerca di trovare il suo nuovo posto e il suo nuovo ruolo in una dinamica famigliare che le è del tutto sconosciuta, in cui impara a costruire relazioni solide basate sulla fiducia e l’apprezzamento (reciproco ma anche di sé stessi), in cui viene a patti con il suo passato e con il suo presente e in cui sperimenta in prima persona che consentire agli altri di lasciarsi amare e accudire è prima di tutto questione di allenamento. Quello di Carley è un percorso in salita ma con una pendenza che man mano cala, fino a quel finale tutt’altro che atteso con cui si apre per lei una fase di consapevolezza nuova in cui riuscire a definirsi non solo in base a “quello che la rende diversa da tutti gli altri”.

In mezzo c’è una trama fitta di relazioni in costruzione, autentiche e tangibili, prima fra tutte quella con la signora Murphy solo apparentemente distante da Carley e in realtà capace di un avvicinamento paziente e di un abbraccio rispettoso dei tempi della ragazza. E poi quella con il papà e fratelli Murphy, ciascuno animato da sentimenti diversi e contrastanti nei confronti della ragazza; quella con la compagna Toni, amica non scontata e costantemente in divenire; quella con la madre biologica, in un tira e molla emotivo che richiede pazienza; e non ultima quella con la Carley reale, così diversa dalla ragazzata corazzata e resa inavvicinabile da un’infanzia anaffettiva. Proprio quelle relazioni, tenute insieme da un personaggio dinamitico e pungente come quello della protagonista,  rende il romanzo palpitante e vero, capace di smuovere il lettore nel profondo e di farlo interrogare sul valore dei sentimenti, al li là della specifica questione dell’affido. E l’autrice è davvero brava in questo perché attraverso una scrittura in movimento, che si plasma proprio sulla crescita di Carley, riesce a passare dalle iniziale frasi criptiche e tenute insieme da fili fragilissimi, espressione di un’esistenza tormentata e di un’emotività asfittica, a un racconto di ampio respiro in cui la consapevolezza di sé e della propria interiorità consente al pensiero di  dilatarsi.

Potente e profondo, Una per i Murphy è un invito caldissimo al lettore a trovarsi un posto comodo e a prendersi qualche ora per sé (per sicurezza munito di una buona scorta di fazzoletti), per gustarsi parole pesate e storie che realmente lasciano un segno. Grazie dunque a Uovonero non solo per aver portato in Italia questo romanzo, ma anche per averlo stampato ad alta leggibilità così da agevolare l’accesso anche a lettori meno forti  o con maggiori difficoltà di lettura, a una narrazione che letteralmente  travolge.

Dracula

Prosegue la preziosa esperienza di Parimenti, la collana di libri in simboli pensata per consentire l’accesso di giovani-adulti con difficoltà comunicative e cognitive ad alcuni grandi classici della letteratura internazionale. Dopo la felice pubblicazione de Il diario di Anna Frank, il 2018 ha portato infatti un secondo apprezzabile titolo, sempre edito da la meridiana e realizzato grazie alla collaborazione tra l’editore pugliese, il Centro Documentazione Handicap di Bologna e l’Associazione Arca Comunità “L’arcobaleno”. Si tratta in particolare dell’adattamento del capolavoro di Bram Stoker, Dracula.

Costruito, nel rispetto dell’originale, come un puzzle di diari e testimonianze di diversi personaggi, anche il Dracula di Parimenti racconta la storia del celebre vampiro della Transilvania a partire dal primo incontro tra questi e l’avvocato Jonathan Harker, chiamato a gestire per lui una trattazione immobiliare a Londra. Fin da questo primo incontro la stranezza e la pericolosità del conte, noto a tutti per la sua sete di sangue, si rendono manifeste contribuendo a rendere gli avvenimenti successivi – dall’arrivo a Londra della misteriosa nave carica di 50 casse di legno, un cane nero e un capitano morto al timone, agli inquietanti comportamenti notturni della giovane Lucy Westenra , dalla brutta fine che toccherà a quest’ultima alla caccia disperata a Dracula condotta senza risparmiarsi da  Harker, sua moglie Mina e gli amici Seward e Van Helsing – un concentrato di avventure da brivido. Nonostante le vicende, così come le descrizioni, siano infatti significativamente ridotte e semplificate, l’atmosfera horror e il crescendo di tensione che hanno consacrato il romanzo di Stoker vengono in qualche modo restituite al lettore.

Il testo, scritto in simboli WLS secondo il modello inbook, si presenta generalmente lineare ma non rinuncia a costruzioni sintattiche di una certa complessità, con più di una coordinata o subordinata. Tutti gli elementi della frase – compresi dunque pronomi, preposizioni e articoli – risultano inoltre simbolizzati. Da rimarcare infine l’attenzione mostrata dai curatori della collana a offrire esperienze di lettura il più possibile variegate e coerenti, proponendo di volta in volta illustrazioni di segno diverso e adeguate al testo trattato. Così, qui, le immagini curate da Melissa Ottonello Ferrati sottolineano il tono cupo della narrazione con uno stile contraddistinto da bianco e nero, ombre  e qualche tocco rosso sangue.

A Oliver piace. A Oliver non piace

Amanti di cani e aspiranti amanti di cani: a raccolta! Con la pubblicazione di A Oliver piace. A Oliver non piace, Homeless Book pensa proprio a voi. Il libro, curato nei testi e nelle illustrazioni da Sara Francesca Peila, si propone infatti di accompagnare i giovani lettori, con bisogni comunicativi speciali e non, alla scoperta dei comportamenti più corretti e rispettosi del miglior amico dell’uomo.

Contraddistinto da una veste grafica pulita e gradevole e diviso in due parti (l’una leggibile tenendo il libro dal dritto e l’altro tenendolo da rovescio), A Oliver piace. A Oliver non piace offre infatti una carrellata di semplici indicazioni su come approcciarsi ai cani in modo da non indispettirli ma anzi da instaurare con loro un rapporto sereno e arricchente. Al fine di rendere tali indicazioni il più possibile fruibili a un pubblico allargato – si pensi peraltro a quanto frequentemente animali come i cani si accompagnano a bambini con disabilità – il libro fa ricorso ai simboli WLS.

Basato sull’esperienza personale dell’autrice (Oliver è infatti un cane in carne ed ossa molto simile al protagonista del volume), il libro  si contraddistingue per una certa generale chiarezza, che accomuna i testi – lineari, poco astratti e privi di strutture sintattiche troppo complesse – e illustrazioni – essenziali, nette e prive di dettagli superflui. Il risultato è un volume senza pretese narrative ma molto efficace nel suo intento e informativo e capace, con il suo aspetto davvero amichevole,  di creare una sincera tenerezza nei confronti del cagnone protagonista!

 

IMG_20181116_154224

IMG_20181116_154310

Cosa vede Don Q?

Questa sì che è una bella novità! Semplice e rodato nella trama e nella struttura, Cosa vede Don Q? è un libro che porta un reale, coraggioso e importante elemento di rinnovamento nel panorama dei libri in simboli, grazie alla scommessa sul valore del gioco, della sorpresa e dell’imprevisto.

Ma andiamo con ordine. Quella di Don Q è una storia lineare e, se vogliamo, collaudata di scambi e divertenti rivelazioni. Il protagonista – moderno e giovane cavaliere in sneakers, con cavallo giocattolo ed elmo a scolapasta – un giorno perde gli occhiali e muovendo alla loro ricerca si imbatte in una serie di oggetti e personaggi che, a causa della visibilità ridotta, paiono sempre diversi da ciò che sono e mostrano la loro reale identità solo in un secondo momento. Così, quella che pare la scopa di una strega si rivela essere un  ronzino, il castello un albero, il mago un gatto e così via, in una successione di incontri che si chiude solo con il felice ritrovamento degli occhiali da parte del protagonista.

Ciò che rende insolita e speciale questa storia è il meccanismo ludico che consente la trasformazione degli oggetti agli occhi di Don Q e del lettore: una semplice aletta chiusa su ogni pagina fa infatti sì che un dettaglio di ogni figura assuma un nuovo significato una volta che l’aletta si volta. Si tratta di un meccanismo senz’altro noto e molto usato nell’ambito dei libri-gioco ma del tutto inusitato nell’ambito dei libri in simboli e più in generale dei libri accessibili. E questo lo rende davvero degno di interesse, soprattutto perché sottende una riflessione fondamentale sull’importanza di coltivare la dimensione ludica e il gusto per lo stupore anche laddove sia presente una disabilità.

La sorpresa, come sosteneva chiaramente Munari, è motore di conoscenza e come tale va coltivata il più possibile. Certo, i libri in simboli devono tenere conto delle esigenze di lettori che trovano nella linearità di pensiero e racconto, nella regolarità dei riferimenti e in una certa prevedibilità della narrazione un terreno confortevole in cui far viaggiare la fantasia, ma questo non significa che la sorpresa e l’imprevedibilità debbano essere sistematicamente sacrificate o messe da parte. Anche perché i lettori, così come i bisogni comunicativi, sono diversi e variegati. Ecco dunque che la scelta di Homeless Book di proporre anche a bambini con esigenze speciali un’esperienza di lettura diversa dal consueto, più interattiva e inattesa, appare innovativa e senz’altro meritevole di interesse e sperimentazione.

Peraltro, sarà bene sottolineare che l’elemento di sorpresa, latore di una certa circoscritta forma di imprevedibilità e di spiazzamento, va qui a innestarsi su di una struttura narrativa di per sé molto regolare e prevedibile grazie alla quale il lettore sa che a ogni pagina il personaggio incontrerà qualcosa che si rivelerà poi essere tutt’altro. C’è insomma, per certi versi, un’attesa o un’attendibilità del ricredimento, o per dirla altrimenti un certa prevedibilità dell’imprevedibile, che può concorrere forse a rendere quest’ultimo più accettabile e godibile. Il gioco che così si crea tra prima impressione e vera essenza delle cose va inoltre a sostenere e rafforzarsi a vicenda con il gioco  tra dimensione fantastica e dimensione reale, la prima espressa da ciò che Don Q crede di vedere – perlopiù elementi caratteristici dell’imaginario fiabesco (creature magiche e straordinarie, tesori, fortezze ecc…) – e la seconda espressa da ciò che Don Q vede effettivamente – perlopiù elementi caratteristici del quotidiano (una mucca, un gatto, un cesto di giochi…): un gioco imprescindibile quando si parla di bambini e in cui facilmente il lettore potrà ritrovare la sua esperienza. Pare insomma di cogliere tra le righe di questo libro snello e poco appariscente un’idea di infanzia giustamente multisfaccettata, che la componente della disabilità rende più complessa a non certo più piatta. E questo non è poco.

Cosa vede Don Q? si caratterizza infine per un testo semplice, forse  un pelo affinabile, e dalla struttura ricorrente, in cui prevalgono un lessico concreto e quotidiano e frasi perlopiù brevissime o con una sola coordinata. I simboli WLS che raccontano la storia sono dal canto loro grandi e riquadrati e presentano l’elemento alfabetico, in maiuscolo, all’interno del riquadro stesso. Ad accompagnarli, sulla pagina di sinistra, le illustrazioni essenziali e briose firmate da Piki (già arruolata dalla Homeless Book per I tre porcellini in CAA) che sposano chiarezza compositiva e gradevolezza estetica con una certa apprezzabile efficacia.

Puzzetta e piccolo pirata

Chi da piccolo ha avuto un fratello o una sorella con cui condividere la cameretta, sa che il momento di dormire può offrire occasioni ghiottissime per far viaggiare la fantasia in piacevole compagnia. Se costruite e vissute insieme, le avventure fantastiche hanno infatti un sapore diverso, più ricco e travolgente, nutrito di immaginari che si intrecciano e si mescolano. Così è anche per Puzzetta e Piccolo pirata – nomi di battaglia per esplorazioni al chiaro di luna – che ogni sera tenendosi per mano vengono catapultati in situazioni bizzarre, talvolta paurose e talvolta buffe, da cui sempre riescono a uscire facendosi coraggio a vicenda.

Accade con l’incontro con l’orso bianco, apparentemente ferocissimo ma in realtà mansueto e persino delizioso; con la visita a casa della nonna mancata e rimpiazzata da una nonna farlocca a cui rubare fette di pizza; e con le performances di canto di fronte al grande pubblico interrotte da presunti rumori intestinali. A turno, è uno dei due bambini a modellare sui suoi gusti e sogni il set dell’avventura, raggiunta poi magicamente grazie all’intervento di misteriosi folletti. Sempre a turno, l’altro bambino fa dal canto suo da spalla, da accompagnatore e da completatore della fantasia. Nei sogni a occhi aperti dei due fratelli si mescolano così con attenta adesione al mondo infantile, sogno e realtà, ricordi e desideri, ricerca del brivido e bisogno di rassicurazione, individualità e legami forti, in un rito notturno potenzialmente senza fine e denso di significato.

Puzzetta e piccolo pirata è un racconto che strizza l’occhio al giovane lettore e ne sostiene la lettura – anche laddove questa sia poco abituale o resa difficoltosa da disturbi specifici dell’apprendimento – grazie a una struttura che assembla episodi  ben definiti e in parte autoconclusivi e a un aspetto grafico amichevole che sfrutta criteri di alta leggibilità. Più lento e distaccato nelle parti introduttive, più snello e sorridente nelle parti dialogate, il racconto di Julie Bonnie si accompagna alla illustrazioni di Charles Dutertre (già apprezzatissimo in coppia con Alex Cousseu nella creazione delle avventure di Lucilla Scintilla) che con pochissimi mirati tratti sanno cogliere ironicamente ma con grande rispetto quella sospensione tra reale e fantastico che è caratteristica del libro e dell’infanzia tutta.

Il circo del nano e della donna barbuta

La diversità è una forza… parola di uomo forzuto! Ma anche di donna barbuta, di equilibrista con una gamba sola, di bambino invisibile o di uomo volante: tutti protagonisti irresistibili del singolare circo messo in piedi da Fausto Gilberti nell’ultimo albo edito da Corraini. Il circo del nano e della donna barbuta è infatti un circo sui generis in cui i due proprietari e i loro undici singolari figli sbalordiscono il pubblico a suon di performances che di normale non hanno proprio nulla. Tra loro c’è chi agisce col pensiero, chi racconta fiabe senza voce, chi è alto come un gigante e chi sente suoni impercettibili grazie ad abilità che sono frutto di anomalie. Nel circo gilbertiano, infatti, “al netto del difetto, erano quasi tutti fenomeni fenomenali” e questo rende la lettura dell’albo uno spettacolo sbalorditivo.

Privo di fronzoli, come si confà a una fiaba di altri tempi, ma ricco di invenzioni, come si addice a un racconto modernissimo, Il circo del nano e della donna barbuta riesce a offrire uno sguardo scanzonato e irriverente sulla spinosissima questione della diversità, regalandole così tutta la leggerezza che merita per sottolineare il potenziali nascosto nella differenza. Nel circo senza pari di Fausto Gilberti, infatti, la disabilità, e con essa altre forme di diversità in senso lato, trovano posto senza essere distorte dal filtro della political correctness. Ciò che le rende dicibili e pensabili è piuttosto il loro pieno e coerente inserimento, senza alcuna forzatura, in una cornice fiabesca che restituisce loro con un certo distacco, visibilità e complessità.

Tutto giocato, fin dall’irresistibile copertina, sul contrasto netto et ipnotico del nero, del bianco e del giallo canarino, Il circo del nano e della donna barbuta mette in campo lo humour originale e lo stile grafico inconfondibile di Fausto Gilberti, che predispongono immediatamente il lettore a una lettura invitante e gustosa. Il testo essenziale, spesso incline alla rima e sempre votato al sottile e brioso sorriso, danza in piena sintonia con le illustrazioni stilizzate e insieme concorrono a rendere l’insolito circo davvero memorabile.

Mio nonno è un koala

Ha un’abitudine strana, il nonno di Elia: starsene tutto il giorno sull’eucalipto del giardino con le gambe a penzoloni. È una forma di pensosa malinconia, la sua, che affonda le radici in un tempo lontano, quando ancora la sua terra era abitata dai koala. Incalzato dal nipote, l’anziano racconta la storia di una preziosa foresta di eucalipti vissuta con cura e rispetto dal popolo dei koala ma improvvisamente  distrutta da mostri tutti cingoli, denti e metallo: una distruzione che porta il koala amico del nonno a fuggire dapprima e a tornare poi nella speranza di rivedere comparire il suo adorato eucalipto. Ma poiché gli alberi richiedono tempo per ricrescere, una volta estirpati, quella comparsa si fa attendere e del koala a un certo punto non si sa più nulla. Da qui la forte motivazione del nonno a ripiantare un albero tanto caro al koala e a dedicargli tanto tempo nella speranza che l’animale torni a farsi vivo. Il suo è una sorta di tributo, di offerta di scuse a nome dell’intera umanità capace di azioni distruttive e scriteriate verso madre natura. Ma attendere a volte non basta ed è così che, sollecitato da un moto di intraprendenza di Elia, la pensosa malinconia del nonno si trasforma in azione, con il sottinteso ma chiarissimo invito al lettore a fare altrettanto nel suo piccolo.

“Perché aspettare?” – come dice l’anziano – è in definitiva un buon interrogativo che ci può infatti riguardare tutti e che esprime bene l’importanza di una vita in cui il rispetto per gli altri e la natura passi prima di tutto per l’esempio attivo.

Mio nonno è un koala è un albo dallo spiccato impegno ecologista, scritto e illustrato con delicatezza da Francesca Pirrone (autrice tra l’altro anche del bel libro tattile Foglie) e pubblicato da Terra Nuova con caratteristiche di alta leggibilità. L’impaginazione più ariosa e il carattere Opendyslexic, scelte dall’editore,  donano dal canto loro un valore aggiunto importante al testo, rendendolo più amichevole e fruibile anche in caso di disturbi specifici dell’apprendimento.

Celestino lo gnomo speciale di Babbo Natale

Quella di Celestino è una storia a sfondo natalizio che del Natale porta tutto lo spirito pervaso di bontà. Sono i buoni sentimenti, in effetti, i veri protagonisti di questa fiaba moderna in cui la disabilità ha un ruolo centrale e significativo.

Celestino è un aiutante di Babbo Natale: un aiutante speciale, però, che non può camminare e che anche per questo riceve un occhio di riguardo da chi gli sta accanto. Non solo Babbo Natale vuole un gran bene a Celestino ma anche gli altri gnomi manifestano affetto e comprensione straordinari nei suoi confronti. È benvoluto, insomma, Celestino, anche quando Babbo Natale gli consente eccezionalmente di girare per il mondo in compagnia di una renna per sondare i desideri dei bambini. Proprio durante uno di questi viaggi esplorativi, Celestino si imbatte in un bimbo con le sue stesse difficoltà e da quell’incontro matura un desiderio davvero prezioso e importante che solo la magia di Babbo Natale trasformerà in realtà.

Pur appesantito da diversi stereotipi relativi alla disabilità (come l’assoluta gentilezza e bontà disinteressata, l’affetto incondizionato delle persone circostanti, la tendenza a suscitare tenerezza, l’associazione all’essere speciali…), Celestino lo gnomo speciale di Babbo Natale accende un faro interessante sulla questione del diritto al gioco e dell’importanza che gli adulti – anche senza magia – si preoccupino di offrire strumenti e giocattoli davvero a misura di qualunque bambino.

Mostro fai da te

Non è facile avere dieci anni, essere piccolo e magrolino e per di più andare bene a scuola. Il destino da zimbello, in quel caso, è infatti dietro l’angolo. Lo sa bene Paul, soprannominato con disprezzo Pulce e preso di mira dal bullo Jo Pappa, molto più grande e molto meno gentile di lui, più forte con le mani che con i numeri e le parole. Proprio per questo suo subire insistenti angherie, Paul desidera continuamente e ardentemente farsi un amico, così da sentirsi meno solo e in pericolo. Anche Jo, dal canto suo, ha un desiderio ed è quello di non venire trattato da stupido e non venire, come invece accade, maltrattato a casa. Le storie e i desideri dei due ragazzi, apparentemente così distanti, trovano un giorno una strada comune. Nel tentativo di costruirsi un mostro tutto suo, che possa accompagnarlo e difenderlo, Paul si caccia infatti in un guaio più grosso di lui in cui trovano posto adulti senza scrupoli e altri generosi, creature gommose al gusto fragola, incidenti scolastici da espulsione e prove di coraggio da veri eroi: tutte cose a cui il bambino è tutt’altro che avvezzo e che potranno sfociare in un lieto fine solo grazie alla più impensata delle alleanze, quella con Jo appunto!

Forte di una trama avventurosa, di uno stile snello e di una stampa ad alta leggibilità, Mostro fai da te si presta a catturare l’attenzione anche di bambini poco avvezzi alla lettura perché ostacolati da un disturbo specifico dell’apprendimento. Il connubio tra vicende avvincenti, personaggi memorabili, narrazione ironica e impostazione grafica amichevole – dettata soprattutto da  un font specifico denominato Junction, una spaziatura maggiore tra le lettere, le parole e le righe, una sbandieratura a destra e un uso di carta color crema – costituisce infatti un invito ghiotto per lettori curiosi, a scoprire nella lettura un piacere da non sottovalutare. Almeno quanto un gommoso Chumpa Chumpa!

Davì

Davì ha diciannove anni, una corporatura secca secca, un look eccentrico in cui spicca una sgargiante cresta verde e una quotidianità che fa a meno di una famiglia. Abbandonato molti anni prima dalla madre e trascurato per il resto dal padre, Davì ha scelto di fare della città la sua dimora, esplorandone gli angoli di giorno e abitando un cantuccio del centro commerciale di notte. È la biblioteca, grazie alla presenza premurosa e attenta di Beatrice, il luogo per lui più simile a una casa: un posto in cui trovare riparo per il fisico e per i pensieri, in cui sentirsi accolto e in cui scambiare parole che fanno bene. Qui Davì viene spesso, tra un giro in città e un lavoretto alla libreria poco distante, nei momenti di svago e in quelli del bisogno, come quando viene violentemente aggredito o quando la sua vita viene messa in subbuglio dal folgorante incontro con la giovane Nicla. La biblioteca si fa cioè rifugio aperto, di fronte a una città che si mostra invece piuttosto diffidente. Perché la presenza di Davì, con quel suo aspetto trasandato e quel suo stile fuori dagli schemi, non passa inosservata e perlopiù vincola gli sguardi a giudizi sommari. Lo sa bene il lettore che conosce pian piano il ragazzo non solo attraverso il suo stesso racconto, tra ricordi del passato e un istintivo tentativo di ritrovarsi con la madre, ma anche attraverso quello dei passanti che per pochi istanti lo incontrano e lo inquadrano.

La vita di Davì, in effetti, è tutta un fuori quadro, in un mondo che invece quadrato vuole essere. Attraverso la sua storia, che mette a bene a nudo la fragilità dell’adolescenza, Davì dice tanto del bisogno di ciascuno di apparire, non tanto nel senso di mettersi in mostra quanto di non sentirsi invisibile. La sua esistenza fatta non a caso di presenze ed assenze, comparse e scomparse, vistosità e vita nell’ombra, è un concentrato di contrasti e incertezze in cui non è così difficile riconoscersi e a cui il giovane lettore può dunque restare facilmente agganciato, grazie anche a una narrazione che scivola in fretta ma non manca di lasciare il segno.

Come la storia del suo protagonista, animata nel profondo da partenze e ritorni, anche la storia del libro Davì è un viaggio con tante tappe. Pubblicato per la prima volta ormai diciotto anni fa dai tipi delle Edizioni EL, il libro di Barbara Garlaschelli è approdato nel 2013 in casa Camelozampa che ora lo ripropone ad alta leggibilità all’interno della curatissima collana Gli Arcobaleni. Davì si fa così esempio emblematico di un prezioso lavoro di riscoperta editoriale messo in piedi dalla casa editrice padovana, con l’intento di valorizzare titoli di qualità del passato ingiustamente dimenticati e di renderli fruibili ad un pubblico il più possibile ampio. Chapeau!

3300 secondi

3300 secondi sono poi 55 minuti, nemmeno un’ora. Cosa potrebbe succedere di tanto importante in un lasso di tempo così circoscritto? Molto, a dirla tutta. E Fred Paronuzzi lo dimostra al lettore con quattro storie di adolescenza che nel tempo di una lezione di scuola si sfiorano, si incontrano e soprattutto prendono una svolta. Tra le pagine di questo romanzo tanto intenso quanto breve c’è dunque la trepidazione di Julie per un amore fuori dagli schemi appena dichiarato, c’è il ricordo doloroso di Ilyes che prova a prendere le distanze dalla sua immagine di straniero, c’è il dramma di Océane che ha subito una violenza in un’unica serata di trasgressione e c’è la decisione di Clément di allontanarsi da un luogo in cui la morte della sorella si fa soffocante.

Le storie di Leah, Ilyes, Océane e Clément sono storie molto forti a cui ci si sente avvinghiati dopo  poche pagine, sono storie che portano a galla alcuni volti di un’interiorità adolescenziale che rischia di essere occultata da chi la vive e ignorata da chi la vede. La bravura di Fred Paronuzzi sta nel cogliere tutta l’autenticità e la familiarità di storie così singolari, sicché anche in un racconto di immigrazione, di violenza, di lutto o di omosessualità il lettore si rispecchia anche se l’esperienza narrata parrebbe non gli appartenergli affatto. Perché sono le emozioni, la fragilità, la ricerca di un’identità soddisfacente e il desiderio di prendere in mano il proprio destino a parlare davvero a chi legge questo libro, il che la dice lunga su quanto sia potente.

Insieme a Davì di Barbara Garlaschelli e Maionese, ketchup o latte di soia di Gaia Guasti, 3300 secondi dà avvio a una serie di pubblicazioni ad alta leggibilità targate Camelozampa e inserite all’interno della collana Gli arcobaleni. I titoli in questione, come in passato accaduto per Dante Pappamolla e più recentemente per Madelief lanciare le bambole, sfruttano il carattere tipografico Easyreading che risulta meno stancante alla vista e più leggibile anche in caso di dislessia.  

Micromamma

Una mamma pret-à-porter: così diventa, in pratica, la mamma di Sander il giorno in cui inizia a rimpicciolire. Fenomeno strano davvero, il suo: la signora diventa infatti più piccola ogni volta che qualcosa va storto. E così, tra la notizia dell’operazione a cui deve sottoporsi, la fuga villana del fidanzato Allan e quell’incidente in pasticceria con la torta di nozze caduta dal tavolo, la mamma di Sander diventa a tutti gli effetti una micromamma che sta in un taschino, dorme in una scatola di fiammiferi e usa un bottone come piatto. Sander si occupa di lei con una tenerezza e una maturità fuori dal comune fino a quando la mamma sparisce dalla cartella in cui l’aveva riposta per portarla a scuola con sé. E da lì la situazione precipita in un turbinio di incursioni vietatissime in classe, corse al parco, indagini e inseguimenti fin nel mezzo di una festa di matrimonio. Complice delle ricerche e del lieto fine, il trovatello Zorro: un cane irresistibile, la cui generosa vivacità offrirà  un supporto più che mai prezioso a Sanders in un momento di grande fragilità.

Attraverso avventure rocambolesche e a tratti surreali, Piret Raud dà voce a una vulnerabilità non solo infantile ma più ampia, familiare: una vulnerabilità che nella vita vera ha tante facce, tante sfumature e tanti risvolti. Nello strano caso della micromamma, leggero e piacevolissimo per come è raccontato, si leggono per esempio il disagio di sentirsi sovrastati da avversità troppo grandi da affrontare, il dolore di apparire invisibile agli occhi di un genitore e un certo infantilismo dei grandi di cui i piccoli fanno le spese, il tutto attraverso una forma narrativa che trasforma felicemente in situazioni reali quelli che sono di solito solo modi di dire (sentirsi piccolo piccolo o invisibile, avere la testa tra le nuvole…).

Stampato ad alta leggibilità da Sinnos – con font specifico leggimi, spaziatura maggiore, sbandieratura a destra, sillabazione evitata, paragrafi distinti e illustrazioni frequenti – Micromamma offre un’occasione di lettura avvincente anche per chi non affronta il testo in maniera speditissima, forte di una veste grafica amichevole che si sposa a una trama senza posa.

Il principe azzurro. La principessa fuxia

Ci sono libri che non vorresti chiudere, una volta terminati. Bene, Riccardo Francaviglia e Margherita Sgarlata hanno trovato la soluzione: un libro che ricomincia, con una storia nuova, nel momento esatto in cui sembra essere concluso. Come? Con un’arguta costruzione narrativa che consente di rileggere il medesimo volume a partire dal fondo. Cambia il verso di lettura ma le illustrazioni restano le stesse, perché ciò che fa emergere la nuova storia è l’occhio del lettore, focalizzato su un nuovo protagonista su indirizzo del (secondo) titolo.

Così, se dapprima è il viaggio del Principe Azzurro ad occupare la scena, a suon di duelli e mari e burrasca, in un secondo momento sono le avventure della principessa Fuxia,  con la sua traversata e i suoi pensieri amorosi, a conquistare attenzione. Ed è spiazzante, in effetti, rendersi conto che sono sempre state lì senza che vi si badasse troppo. Come per magia, cornice e primo piano si scambiano di posto, in un gioco di punti di vista tutt’altro che banale. A rendere possibile questa danza prospettica è certo l’assenza di parole – Il principe azzurro. La principessa fuxia è infatti un silent book – che lascia il lettore libero di muoversi sulla pagina e dedicare attenzione a ciò che di volta in volta ritiene opportuno. Ci troviamo quindi davanti a un racconto che, procedendo per sole immagini, strizza l’occhio e offre una lettura gustosa (ma – attenzione – non immediata e priva di sforzo interpretativo!) anche a lettori che normalmente faticano a confrontarsi con un testo scritto, per esempio per difficoltà legate alla dislessia o a una disabilità uditiva.

Con una costruzione che moltiplica le possibilità di accesso alla storia, rimette in gioco prospettive e convinzioni, Il principe azzurro. La principessa fuxia pare così dare un’originale e interessante interpretazione dell’idea proustiana secondo cui “L’unico vero viaggio, l’unico bagno di giovinezza, sarebbe non andare verso nuovi paesaggi, ma avere altri occhi, vedere l’universo con gli occhi di un altro, di cento altri, vedere i cento universi che ciascuno vede, che ciascuno è”.

Tredici cervi blu

Luna è una bambina solare e timida, poco avvezza ad alzare la voce e a far sentire le sue ragioni. Suo fratello maggiore Ralf è l’esatto opposto: irascibile e poco accomodante, ha spesso reazioni imprevedibili. Il loro è un rapporto non semplicissimo, fatto di poche parole e molti silenzi. Fino al giorno in cui i cervi fanno la loro comparsa. Da quel pomeriggio apparentemente come tanti, infatti, qualcosa cambia nella vita dei due fratelli. I piccoli cervi blu che Luna vede uscire dal vaso, che giocano con e su di lei e che improvvisamente, così come sono comparsi spariscono, non schiudono solo delle possibilità immaginative (Chi sono? Da dove vengono? Perché solo Luna riesce a vederli?) ma anche relazionali. Luna scopre infatti che anche Ralf, in passato, ha avvistato degli animali fantastici e che anche lui da quell’incontro si è sentito arricchito, rinvigorito, trasformato. Quello degli animali misteriosi diventa così un segreto tacito e condiviso – che tale deve restare per non causarne la scomparsa definitiva –, che avvicina i due fratelli più di ogni altra cosa in un momento di delicato equilibrio familiare come quello della nascita di un nuovo fratellino.

Contraddistinto da uno stile sospeso tra reale e fantastico – tanto nelle parole quanto nelle illustrazioni – I tredici cervi blu è un racconto in cui le emozioni, anche quelle più oscure come la paura e la rabbia, trovano posto senza essere giudicate, in cui la fantasia acquisisce pieno diritto di dimora nel quotidiano e in cui l’inspiegabilità di certi avvenimenti non cerca a tutti i costi una ragione forzata. Anche per queste ragioni nell’avventura straordinaria di Luna e di Ralf, il giovane lettore può facilmente rispecchiarsi e sentirsi compreso, interrogarsi sul proprio vissuto emotivo e riconoscere il valore straordinario della propria immaginazione.

Stampato da Sinnos con tutti i crismi dell’alta leggibilità – dal font meno confusivo leggimi all’impaginazione più ariosa, dalla sbandieratura a destra alla carta opaca – I tredici cervi blu si presenta come un racconto corposo ma al contempo leggero in cui il contributo delle strepitose e frequenti illustrazioni di Mattias De Leeuw (già apprezzatissimo per ragioni analoghe nel silent book La notte del circo), sottilissime e insieme dense di dettagli ed echi espressivi, amplifica a dismisura le possibilità evocative della narrazione.

Celestiale

Celestiale è una parola che di rado si sente pronunciare. Ed eppure è una parola straordinaria, carica di senso e sonorità, perfetta per indicare quelle che cose così belle da mandarti in orbita. Il gusto delle patatine fritte, il suono del violoncello o le canzoni dei Madredeus, per esempio, almeno stando ai gusti di Maddalena che di celestialità, pare se ne intenda. Per lei questa parola è importante, importantissima, soprattutto perché definisce meglio di qualunque altra le qualità di Fabrizio Fiorini, il timido ragazzo di cui è pazzamente innamorata. Il suo è un amore smisurato e totalizzante come solo l’amore adolescenziale sa essere, dotato di una sua logica e al contempo del tutto irrazionale, meraviglioso e struggente come poche altre cose al mondo: un amore che come silenziosi e rispettosi confidenti osserviamo da vicino, con tenerezza e apprensione, soprattutto nel suo alternare gioie e sofferenze.

A dargli voce non solo la stessa Maddalena ma anche il suo celestialissimo Fabrizio, in un controcanto di punti di vista che dà tutto il senso di un sentimento articolato e sfuggente. Alle loro si aggiunge poi la voce di Ivano detto Lama, fratello di Maddalena, che dell’amore crede di poter e voler fare a meno, forte della sua corazza da vero duro. A legare strette le tre voci non è solo la vicinanza dettata dalla parentela o da un sentimento ma anche una comune e inattesa riflessione sul valore della parola, protagonista invisibile di questo racconto. Le parole che dicono l’amore, le parole che l’amore rende incapaci di dire, le parole che ci fanno risuonare le storie dentro, le parole pronunciate da qualcuno che ci cambia la vita: tutte le parole insomma che dicono quello che siamo, quello che sentiamo, quello che vorremmo o che potremmo essere.

Celestiale fa parte della collana Zonafranca che Sinnos rivolge ai lettori grandicelli e in cui trovano spazio temi caldi e complessi interpretati da voce interessanti come quella della giovane Francesca Bonafini. Pubblicato ad alta leggibilità, il volume offre una lettura davvero fresca e nuova nel panorama editoriale per adolescenti, garantendo loro possibilità di riconoscimento e confronto, leggerezza non frivola, spunti impensati di pensiero e una misura che non spaventa.

Occhi da orientale

Ha un narratore insolito, Occhi da orientale. Alta e maestosa, sempre attenta a ciò che accade nel cortile, è infatti la vecchia quercia che fa ombra all’asilo a raccontare al lettore la storia di Chiara, bambina placida e taciturna che stenta a fare amicizia con i compagni. Di lei non sappiamo molto, se non che “ha qualcosa di diverso dagli altri bambini” – confermato in maniera appena accennata dal titolo del libro – e che se ne sta spesso sotto l’albero ad accarezzare il gatto Mattia. È gentile, Chiara, e la vecchia quercia la prende in simpatia a differenza di quanto fa con Goffredo, bambino prepotente e dispettoso. Così, quando il gatto Mattia si arrampica troppo in alto e non riesce a tornare a terra, la quercia non esita a sostenere Chiara nel suo coraggioso tentativo di arrampicarsi per salvare l’animale. È così che Chiara arriva in alto, dove nessun altro bambino è mai arrivato, fino a scorgere lo scoglio dei gabbiani in mezzo al mare. Ed è così che qualcosa, nella percezione dei compagni cambia, consentendo una prima felice possibilità di relazione.

Un po’ fuori dagli schemi a cui l’editoria per l’infanzia attenta alle tematiche della disabilità ci ha abituato, Occhi da Orientale sceglie la strada del sussurro, in parole ed immagini, per raccontare la sua storia. È una storia senza fretta, questa, e come tale viene narrata, chiedendo al lettore di prestare ascolto e prendersi il suo tempo per assaporare, cogliere, capire. I testi raffinati di Annamaria Piccione, votati talvolta al ricordo e alla riflessione pensosa, e le illustrazioni particolarissime di Monica Saladino, che uniscono in maniera efficace matita e collage, trovano un comune punto di incontro nell’apprezzabile scelta di mettere l’infanzia – tutta – al centro della narrazione, senza fare della questione della disabilità una bandiera forzatamente sventolata. Ne emerge un racconto pacato e poetico, che invita sommessamente a riconoscere le occasioni che la vita ci porge di superare e rimettere in discussione pregiudizi e distanze.

Yxxy. Il segreto non segreto

Avevamo conosciuto Alexander, detto YxxY, in occasione del suo ingresso alla scuola dell’infanzia. A questo era dedicato, infatti, il volume Yxxy. Un giorno speciale. Ora l’anno scolastico è finito e per Alexander e i suoi compagni è tempo di festa. L’appuntamento è a casa di nonni di Matteo, per un pomeriggio di giochi – di palcio soprattutto –, di scherzi in piscina e di merende. Ma quel pomeriggio diventerà per il protagonista anche un momento di scoperta rispetto alle differenze tra maschi e femmine e di emozioni che possono diventare preziosi segreti.

Curato, come il volume precedente, da Marinella Michielotto per la parte del testo e  da Licia Zuppardi per la parte delle illustrazione, Yxxy. Il segreto non segreto ha coinvolto numerose altre professionalità sia per quel che concerne l’attenzione agli aspetti pedagogici della storia sia per quel che riguarda la simbolizzazione del testo. L’intenzione alla base di questa scelta è quella di offrire uno strumento che rispetti e accolga il più possibile le esigenze del piccolo lettore, soprattutto se con disabilità. Apprezzabili, in questo senso, il coraggio di affrontare questioni di genere – delicate e ancora spesso oggetto di tabù, tanto più se riferite a un contesto quale quello della disabilità -, la scelta di offrire una rappresentazione “silenziosa” di una situazione di disabilità – che compare naturalmente nella storia, senza dover essere sottolineata né, al contrario, mimetizzata – e la capacità di raccontare una possibilità di inclusione – senza strepiti ma grazie, per esempio, all’introduzione di giochi realmente accessibili e tali da consentire una effettiva condivisione da parte di tutti i bambini (il palcio, per l’appunto, ma anche lo sguazzare in acqua).

Disponibile in una versione standard e in una versione inbook, che ne propone il testo in Widgit Literacy Symbols (WLS), Yxxy. Il segreto non segreto propone in maniera semplice e accessibile un messaggio positivo molto schietto e una possibilità interessante di dialogo intorno a tematiche complesse .

Una scatola gialla

Una grafica ricercata e pulita,  un viaggio misterioso a bordo dei più disparati mezzi di trasporto e un saporito equilibrio tra sorpresa e ripetizione: gli ingredienti di base di Una scatola gialla lasciano prevedere un manicaretto editoriale niente male. E così è, in effetti. Il particolarissimo libro firmato da Pieter Gaudesaboos offre una lettura gustosa in cui dapprima si accelera per seguire il tortuoso percorso del contenitore che dà il titolo al volume e scoprire cosa vi si nasconda, e poi si rallenta per godere delle minuscole e minuziose figure con cui l’autore anima il racconto.

Protagonista del libro è, per l’appunto, una scatola gialla dal contenuto ignoto che passa di mano in mano (dal pilota al comandante e da questi al macchinista, all’autista e al postino) e di mezzo in mezzo (dall’aereo alla nave e da qui al treno, al pullman e alla biciletta) fino ad arrivare in possesso di una bambina. Nei diversi passaggi la scatola subisce incidenti e intemperie che ne riducono la dimensione – sicché da enorme diventa via via minuscola – e il suo contenuto si fa oggetto di congetture da parte dei protagonisti. Un rinoceronte, un elefante, un leone, una scimmietta o forse un gatto: cosa conterrà l’imperscrutabile scatola? Nulla di quanto ipotizzato, a dire il vero, ma un oggetto apparentemente insignificante come un fischietto con cui rimettere insieme tutti i tasselli della storia e dare loro un nuovo e inatteso valore narrativo.

Con Una scatola gialla prosegue la felice avventura de I libri di Camilla, collana curata da Uovonero con lo scopo di offrire in versione simbolizzata alcuni degli albi più amati, editi negli anni da case editrici diverse, rendendoli finalmente fruibili anche a un pubblico con difficoltà comunicative. Rispetto ai volumi precedenti, Una scatola gialla è soggetto a qualche aggiustamento in più, funzionale a una più chiara e soddisfacente lettura in simboli. Così, per esempio, le proposizioni coordinate e subordinate vengono spezzettate in frasi più brevi e alcuni elementi delle illustrazioni (come gli ingrandimenti dei personaggi di volta in volta coinvolti) scompaiono, rendendo la pagina più pulita e le sue componenti più distinte. Si tratta di adattamenti significativi ma ben calibrati dal momento che non ne risentono né il ritmo del testo, che continua a risultare ben scandito e incalzante, né i focus delle illustrazioni, che trovano espressione nei simboli collegati ai personaggi, gli unici a essere colorati all’interno della sequenza simbolica.

L’edizione in simboli de Una scatola gialla, che non manca peraltro di offrire al lettore alcuni giochi conclusivi così come previsti nell’edizione originale targata Sinnos, propone quindi una lettura piacevole, adattissima sia a una fruizione condivisa  sia a prime esperienze di fruizione autonoma, grazie anche alla scelta di simboli WLS con testo in stampatello maiuscolo. Da non sottovalutare inoltre, quella che appare come un’ottimale predisposizione di un volume come questo di Pieter Gaudesaboos a una trasposizione in simboli in virtù sia di una struttura iterata, che fa della ripetizione un uso frequente e funzionale, sia di  illustrazioni molto precise e nette, che soddisfano il gusto estetico e la ricerca di rigore.

Mangia la foglia!

Anna, Magnus e Stina sono tre cugini. Durante i pranzi di famiglia il loro tavolo, piccolo e rotondo, diventa una postazione separata e privilegiata di osservazione degli adulti. È da qui che i tre assistono al grande litigio di maggio che porta lo zio Jan e la zia Betta, genitori di Stina, ad allontanarsi  per un po’ dalla famiglia. Ed è da qui che assorbono, più o meno inconsapevolmente,  le dinamiche divisive che gli adulti mettono in atto. Quelle stesse dinamiche non tarderanno a trovare una replica in scala ridotta anche tra i piccoli di casa, alimentate in particolar modo dalla dieta vegetariana di Stina. “Stina è una ragazzina inutile”, “Io una volta l’ho sentita fare muuuu”, dicono di lei Magnus e Anna, convinti così di consolidare la loro amicizia esclusiva. Fino al giorno del funerale della nonna di Stina, quando le prese in giro di Magnus passano il segno facendo correre un grosso rischio alla cuginetta e aprendo gli occhi di Anna su quanto un’amicizia che si regge sul dileggio altrui sia fragile e inconsistente.

Il racconto breve scritto da Bart Moeyaert (qui in una sorridente conversazione con l’editrice Della Passarelli in cui si racconta come nasce Mangia la foglia) è denso e avvincente, capace in pochissime parole di tratteggiare un’infanzia vera e palpitante, finanche politicamente scorretta. Nelle noiose ore a tavola, nei “facciamo finta che…” che si sviluppano sul prato, nelle promesse indissolubili, nella forza silenziosa del modello adulto, nella tentazione di costruire rapporti saldi su un comune nemico ma anche nella capacità di cogliere un’ingiustizia quando perpetrata, si leggono infatti quella fragilità e quella determinazione che rendono speciale l’età bambina. L’autore le coglie con un’efficacia rara, offrendo al giovane lettore un’occasione intensa di leggersi e riconoscersi. Le parole di Bart, stampate ad alta leggibilità e dunque rese più agevoli da scorrere anche in caso di dislessia, sono accompagnate dalle illustrazioni di Alice Piaggio che aggiungono una forte carica espressiva a una narrazione già molto intensa.

Il ladro di Panini

Appetitoso come un panino al prosciutto, provolone e lattuga (con uno strato di maionese fatta in casa, naturalmente!), Il ladro di panini è una ghiotta novità edita da Sinnos. È ghiotta per il formato, che si ispira al fumetto pur non procedendo solo per balloons e che combina in maniera accattivante immagini frequenti e testi snelli ad alta leggibilità. È ghiotta per la storia, che smilza e appassionante, coinvolge il lettore in un giallo da gourmet. Ed è ghiotta per lo stile irresistibilmente ironico degli autori Patrick Doyon e André Marois.

Protagonista del libro è Marin che un giorno, all’ora di pranzo, non trova nel suo cestino il raffinato panino che la mamma è solita preparagli. Il panino al prosciutto, provolone, lattuga e maionese fatta in casa, nella fattispecie: quello del lunedì. Il problema è che non si tratta di un furto o di uno smarrimento isolato: la faccenda si ripete infatti il martedì, con il succulento panino al tonno, pomodorini secchi e maionese fatta in casa, il giovedì con il delizioso panino all’uovo, parmigiano, cipolla rossa e maionese fatta in casa e il venerdì, con l’intrigante panino al pollo, avocado, cetriolo e maionese fatta in casa. Solo il mercoledì il malcapitato la scampa, il giorno del panino con tofu, rughetta, pomodorini e gamberetti. L’affronto è davvero grande e la fame pure, perciò Marin si mette a investigare, individuando possibili sospettati, lanciando accuse spavalde e tendendo ingegnose trappole. Fino all’agognata cattura dell’impostore, colto letteralmente con le mani nella… maionese!

Davvero divertente e agevole da seguire Il ladro di panini combina la soddisfazione di una storia corposa (anche nel numero di pagine) con una grafica accattivante e amichevole, capace con buona probabilità di stuzzicare anche i lettori più recalcitranti o convinti che la lettura debba necessariamente essere affar ostico e poco piacevole.

Zelda la piratessa

I pirati che navigano sul Lamantino sono i più classici a cui si possa pensare: il capitano Arraffa, l’ubriacone Beone, i guerci Senzocchio e Unocchio, il saggio e vecchio Nodo e l’attivo Scheggia. E poi c’è lei – Zelda – che ribalda invece ogni cliché e costringe ciurma e lettori a una virata nel proprio immaginario. Trovata dai pirati in una cesta in mezzo al mare, Zelda cresce con indole e abitudini marinaresche, imparando al volo a fare come e meglio dei suoi compagni di viaggio di sesso opposto. Salita a capo dell’imbarcazione, Zelda conduce avventure mirabolanti, ricche di tesori e di imprese. Ma il coraggio non si misura solo in monete d’oro sotterrate e palle di cannone sparate: anche la capacità di interrogarsi sulla propria identità, di cambiare strada e di tornare sui propri passi possono essere indicatori preziosi. E allora Zelda, che non ha paura di tornare bambina, di sperimentarsi principessa e infine di trovare la sua rotta ideale, di coraggio ne ha davvero da vendere!

Stampata ad alta leggibilità, con un uso accorto non solo del font leggimi e delle caratteristiche di impaginazione (spaziatura maggiore, sbandieratura a destra) ma anche del colore e della dimensione del testo, Zelda la piratessa fa parte della bella collana I tradotti di Sinnos, che sceglie dalla produzione estera storie  avvincenti e coinvolgenti per farne la leva principale di conquista del lettore, con e senza dislessia.

La costituzione in tasca

“Giovanni, tu lo sai che cos’è la Costituzione?”, chiede Emma.
“No e non me ne importa, ho dodici anni, ho tutta la vota davanti. La Costituzione è roba da vecchi”, risponde Giovanni.

Si apre così, con un dialogo che non potrebbe essere più credibile, La Costituzione in tasca: l’agile e denso volume ad alta leggibilità che Sinnos ha volute dedicare alla nostra Carta per il suo settantesimo compleanno. È un dialogo tra due ragazzini che con il pretesto di una ricerca scolastica si confrontano e si interrogano sul significato e sull’attualità del libro che sostiene e guida la nostra Repubblica. È roba da vecchi, dice Giovanni, interpretando quello che potrebbe essere un sentire diffuso. Quanti giovani e giovanissimi si interessano alle leggi fondamentali del nostro Paese? O meglio: quanti hanno occasione di incontrare la Carta in maniera comprensibile e attiva? Senz’altro pochi, sicché riconoscere e rispettare la loro posizione e offrire uno strumento utile per rivederla con cognizione di causa è un’azione civile di grande e silenziosa portata. Perché Giovanni – e con lui il lettore – scopra che nonostante i suoi 70 anni suonati la Costituzione è tutt’altro che roba da vecchi, serve che le parole difficili di cui si compone suonino più familiari e comprensibili alle giovani orecchie e che il contenuto che essa porta si cali concretamente nel quotidiano bambino.

Ecco, con questo scopo si muove La Costituzione in tasca, costruita come un dialogo incalzante, a cui prendono parte, oltre a Emma e Giovanni, anche personaggi di natura teatrale come Pausa e Tafferuglio – che marcano momenti riflessivi e di acceso dibattito – e di natura storica come Piero Calamandrei. Ai loro interventi si alternano poi le citazioni di alcuni articoli, presi in ordine sparso e citati nella loro forma ufficiale, ma anche notizie e riflessioni che aiutano a collocare la stesura della Carta in un preciso momento storico per mano di persone in carne ed ossa (bellissimo, per esempio, il riferimento alle 21 madri costituenti che si tennero per mano durante il voto per il ripudio alla guerra). Il risultato è un testo composito che potrebbe ben prestarsi a un’interpretazione su palcoscenico ma che al contempo sviscera con parole chiare un testo apparentemente antico e distante, rendendolo la base ideale per un confronto tra pari in classe. Non è, se vogliamo, una lettura di evasione, ma è una lettura che rende stimolante l’avvicinamento a un testo che merita di essere interiorizzato da tutti i cittadini, anche e soprattutto quelli del futuro. Il fatto poi che proprio un testo che promuove la conoscenza della Costituzione sia stampato ad alta leggibilità – con font leggimi e caratteristiche di impaginazione più amichevoli anche per il lettore dislessico – è una piccola importante attenzione a quello che è, non a caso, uno dei diritti – quello alla cultura – sanciti dalla Carta.

La Costituzione in tasca rispecchia in pieno l’impegno che da sempre Sinnos profonde in favore della legalità e della cittadinanza attiva attraverso il potentissimo strumento dei libri. Nato in seno a un progetto importante intitolato BILL – La biblioteca della legalità, il volume è stato scritto da due persone che il diritto lo conoscono a fondo e che con cura si dedicano a renderlo maneggiabile da bambini e ragazzi. Il lavoro di avvicinamento alla Carta costituzionale fatto da Valeria Cigliola ed Elisabetta Morosini, che di mestiere fanno i magistrati, è infatti attento e profondamente mosso dalla convinzione che il rispetto della Costituzione passa prima di tutto dal sentirla propria e vicina. In questo senso, interessante e apprezzabile è anche il gioco di carte proposto alla fine del volume, con tutto il necessario da staccare e ritagliare, per  far sì che le parole che raccontano i nostri diritti e doveri diventino qualcosa di concreto che muove con leggerezza pensieri e confronti.

“La Costituzione sono io.
La osservo, la leggo, la prendo, ci gioco, la mangio a colazione con la cioccolata calda e le frittelle.

Hank Zipzer mago segreto del ping-pong

Inizia un nuovo anno scolastico alla SP87, il quinto per Hank e i suoi amici di sempre, Ashley e Frankie. E inizia col botto, a dire il vero, se si considera che al posto della nuova attesissima insegnante, la classe di Hank si ritrova sulle croste l’arcinota signorina Adolf e che la prima iniziativa che coinvolge l’istituto è una Parata degli Atleti in cui ognuno può mettere in mostra i suoi talenti sportivi. E se la prima disgrazia in qualche modo è sopportabile (sono quattro anni, d’altronde, che Hank si allena a sopravvivere alla rigidità dell’insegnante), la seconda ha un che di catastrofico. La predisposizione sportiva non è infatti tra le qualità più spiccate di Hank, data la difficoltà di concentrazione e coordinamento associata al suo Disturbo Specifico dell’Apprendimento. Non a caso le selezioni per la squadra di calcio fatte dall’allenatore Gilroy sono un vero e proprio fiasco per il ragazzo, a cui non resta che rassegnarsi a un vergognoso futuro da scaldapanchine e raddrizzatore di coni. O forse no?

Complice il premuroso nonno Papà Pete, Hank scoprirà una disciplina in cui non solo ha talento ma soprattutto si diverte: il ping pong. Da lì in poi sarà tutto un allenamento per sviluppare le tre fatidiche C – Concentrazione, Controllo e Convinzione – e soprattutto per accettare il fatto che il giudizio degli altri non ha il diritto di minare la soddisfazione e gli sforzi (sportivi e non) di qualcuno. Alla faccia del fastidioso Nick McKelty, fortemente motivato a denigrare la scelta sportiva di Hank, questi avrà l’occasione di dimostrare a tutti che il ping pong è uno sport con la S maiuscola e che chi lo pratica può essere molto coraggioso e altruista, oltre che atletico.

Nona avventura della serie ideata da Henry Winkler e Lin Oliver, Hank Zipzer mago segreto del ping-pong vanta le caratteristiche di alta leggibilità (font senza grazie, sbandieratura a destra, assenza di divisioni sillabiche, spaziatura maggiore, a capo secondo il ritmo e la struttura della frase) che, insieme a uno stile spassoso, a vicende avvincenti e a una squadra di personaggi irresistibile, ha reso il personaggio piuttosto noto e amato. Senza per nulla risentire di un appiattimento dovuto all’alto numero di episodi pubblicati – aspetto tutt’altro che trascurabile – la serie di Hank Zipzer ha l’apprezzabile merito di aprire possibilità di lettura soddisfacente e piena anche a bambini e ragazzi che con la lettura non vanno propriamente d’accordo, non solo grazie agli importanti accorgimenti tipografici indicati ma anche grazie a storie che sanno coinvolgere e divertire senza rinunciare alla ricchezza di contenuto . La dislessia, da cui il protagonista è emblematicamente contraddistinto, è qui trattata inoltre con un’ironia sempre rispettosa, quella che viene da una conoscenza diretta e che dà alle difficoltà un risvolto narrativo pratico, offrendo così strumenti preziosi per capire e per capirsi. In quest’ultimo episodio, per esempio, viene messa in luce la questione della concentrazione e del coordinamento occhio-mano che tanta parte ha nella definizione del disturbo di Hank. Le informazioni riportate sono utili e pertinenti ma mai posticce o dall’intento divulgativo fuori contesto ed è proprio la loro rielaborazione hankesca a renderle in definitiva davvero spendibili:

Mi chiedo se da qualche parte c’è un’officina meccanica per cervelli, dove puoi portare il tuo cervello e loro ci lavorano mentre aspetti. Riparatemi il meccanismo della concentrazione. E già che ci siete, controllatemi anche acqua e olio, grazie.

Divento grande, vado a scuola

Prosegue l’interessante esperienza editoriale di Homeless Book sul fronte delle storie sociali: storie realistiche che mirano a far comprendere e assimilare ai bambini, soprattutto ma non solo con difficoltà comunicative e comportamentali, le regole e gli atteggiamenti attesi in specifiche situazioni.

Mentre Imparo a fare la pipì, era dedicato a bambini in età prescolare, Divento grande, vado a scuola si rivolge ai bambini un pochino più grandi, alle prese con le novità in fatto di ritmi, regole e abitudini che la scuola primaria porta con sé. Qui si focalizza l’attenzione su ciò che si può e ciò che non si può fare in classe, sui luoghi in cui si svolgono le diverse attività, sulle persone con cui si entra in relazione e su ciò che si impara di giorno in giorno: una presentazione puntuale e comprensibile di tanti aspetti dall’alto potenziale confusivo e intimorente.

A rafforzare la spendibilità di questo tipo di pubblicazione, l’idea di renderla personalizzabile grazie all’aggiunta di dettagli – nel testo e nelle immagini – che rispecchino la specifica realtà del lettore: il viso del protagonista, per esempio, è lasciato in bianco e nero per invitare il bambino ad apporvi la sua foto e alcuni riquadri del testo in simboli sono lasciati bianchi per consentire di aggiungere regole specifiche della singola scuola. Si tratta di piccole attenzioni che unite però alla cura nella costruzione del testo e nella simbolizzazione, fanno di questi testi degli strumenti funzionali.

No! Le unghie no!

No! Le unghie no! è un chiaro esempio di come una storia cosiddetta su misura, ossia costruita ad hoc nei contenuti e nella forma sulle esigenze di uno specifico bambino, possa trasformarsi in una storia per tutti. Nato all’interno di un gruppo di lavoro eterogeneo, composto da genitori, insegnanti, educatori e terapisti che a vario titolo si occupano di un bimbo di nome Federico, il libro è stato confezionato per rispondere alla passione di quest’ultimo per gli animali, alla sua insofferenza verso il taglio delle unghie  e alla sua preferenza per una comunicazione su base visuale. Il prototipo di No! Le unghie no! – composta da un testo in simboli corredato da illustrazioni – è stato poi sistematizzato secondo il modello in-book e reso disponibile al pubblico dalla casa editrice Homeless Book che grande attenzione dedica alla lettura in caso di difficoltà comunicative.

Contraddistinto da una struttura iterata e da un testo lineare ma con alcuni elementi di complessità (periodi  con diversi complementi o alcuni discorsi diretti non esplicitamente attribuiti) No! Le unghie no! racconta la storia di un bambino che si convince a tagliare le unghie – cosa che non ama affatto fare – grazie alle vicende esemplari di alcuni animali che proprio a causa delle unghie lunghe si cacciano nei guai. L’elefante, il leone, la scimmia e la mucca si trovano infatti a rompere piscine, palloncini, gonfiabili e monopattini: tutte cose familiari al protagonista ma anche e soprattutto al lettore.

Senza pretese letterarie e artistiche, coerentemente con la sua origine, il libro porta con sé una storia semplice e facile da seguire.

Io rispetto

C’è un paese di nome Armonia, in cui ogni persona vive serenamente, libera di giocare, crescere, imparare, esprimersi, realizzarsi nella maniera che le è più congeniale, anche nel caso in cui sia colpita da una disabilità. Armonia è certo un paese fantastico ma che traduce in immagini efficaci il senso di un documento importante come la Convenzione dei Diritti delle Persone con Disabilità e che si vorrebbe non distasse molto dalla realtà. I suoi abitanti accoglienti, le sue leggi amichevoli e i suoi luoghi ospitali rendono bene l’idea di come dovrebbe costruirsi una società inclusiva quale quella raccomandata dal documento redatto dall’ONU nel 2006. Questo, reso a misura di bambino grazie a un lavoro intitolato “Parliamo di abilità” promosso dall’UNICEF, funge proprio da ispirazione per i quattordici componimenti in rima di Io rispetto. Filastrocche per una lettura della Convenzione dei Diritti delle Persone con Disabilità, scritti da BendettoTudino e illustrati da MariannaVerì.

Il volume nasce da un progetto dell’Unicef, dell’Agenzia Politiche a favore dei Disabili del Comune di Parma e dall’associazione Rinoceronte Incantato. Forte dell’idea che le norme vadano il più possibile fatte proprie e interiorizzate, il libro sceglie la via della rappresentazione poetica per dare un senso pieno, comprensibile e vicino al sentire dell’infanzia a norme rigorose e astratte. Così il diritto di ridere, scegliere, esserci o decidere acquistano un significato più vivo e palpitante, più facile da riscontare e forse mettere in pratica nella vita di tutti i giorni. Tra tanti diritto, poi, non manca quello a noi tanto caro, di leggere, che l’autore chiude così:

Impara così un Mondo felice

Quel che si fa, si pensa e si dice.

Con le mani, gli occhi e la mente,

studia il sapere di tutta la gente.”

Lucia

La giornata di Lucia inizia, come per tutti, con pochi automatici gesti quotidiani: lavarsi i denti, mettere a bollire il tè, infilarsi il giubbino, afferrare il bastone. Il bastone le serve per muoversi per strada ed è il dettaglio che ci fa capire con certezza che Lucia è una bambina cieca: una bambina che il libro di Roger Olmos intende accompagnare nel suo cammino da casa a scuola e qui dare voce a una piccola storia di bellezza che ha la possibilità di fiorire proprio grazie a quello che parrebbe il limite della protagonista. Dopo un suggestivo percorso in autobus e un eloquente percorso a piedi, accarezzata dal vento come in altalena, divertita da un legnetto su una staccionata che pare un organo e incuriosita da bizzarri personaggi dalla testa di colonia, pipa o foglie, Lucia arriva a scuola e condivide momenti preziosi con un compagno poco alla moda al cui aspetto Lucia non bada.

Frutto di un grosso e accurato lavoro condotto dall’autore per immergersi realmente nel mondo di una persona cieca, Lucia offre una storia delicata e una riflessione raffinatissima sullo scarto che separa la reale percezione di una persona non vedente e il nostro modo consueto di immaginarla. L’autore sottolinea, in particolare, e veicola questo scarto con un gioco sapientissimo e suggestivo tra immagini colorate e in banco e nero così come tra figure realistiche e figure fantastiche. Ecco allora che il consueto immaginario onirico di Olmos trova quindi qui un terreno fertilissimo e una possibilità di espressione nuova, funzionale a rappresentare un’esperienza fuori dal comune.

Nato dalla collaborazione tra CBM onlus, che si occupa di disabilità visiva nei paesi più poveri, e Logos edizioni, Lucia fa parte di una collana inaugurata da un altro grande illustratore – Lorenzo Mattotti – con un albo più astratto e adatto a un pubblico adulto intitolato Blind. Si tratta di una collana volta a esplorare il mondo della disabilità visiva nelle sue molteplici sfaccettature: un progetto importante in cui una riflessione profonda sulle possibilità d’inclusione nasce e si diffonde grazie alle matite più pregiate dell’attuale panorama editoriale.

Che favola, Mattia

Quella di Mattia è una storia di sogni e passioni che aiutano a superare ostacoli e difficoltà. Mattia è infatti un bambino dalla spiccata immaginazione che ama sentirsi raccontare e inventare storie fin da quando è piccolissimo. Con l’arrivo alla scuola elementare il suo interesse per la narrazione si scontra però con una certa difficoltà nella lettura e nella scrittura: lettere che si spostano, siscambiano, si compongono sulla pagina in maniera differente da come aveva previsto. Mattia scopre così di essere dislessico ma la sua tenacia e la sua passione per le storie lo portano a impegnarsi con ancora maggiore dedizione per riuscire ad avere la meglio sulle parole.  Sarà proprio questo impegno, unito a una sorprendente valorizzazione del suo talento da parte di maestra e compagni, a far sì che la storia di Mattia trovi un lieto fine.

Con un testo piano dai toni spiccatamente positivi e illustrazioni piacevoli he accompagnano discretamente la lettura, Che favola, Mattia racconta difficoltà e possibilità di un bambino dislessico, cercando di alimentare l’autostima di chi condivide con il protagonista un rapporto ostico con la scrittura. A supporto di tale intento va senz’altro anche l’apprezzabile scelta dell’editore Acar di pubblicare il volume utilizzando un font ad alta leggibilità, un carattere maiuscolo e una spaziatura tra lettere, parole e righe maggiore.

La bambina che andava a pile

Quello con La bambina che andava a pile è stato amore a prima vista. Tutto subito per quel titolo curioso e quelle illustrazioni graffiate e graffianti, che non passano inosservate fin dalla copertina. Poi per la testimonianza preziosa di una sordità vissuta da dentro, la ricchezza di piani di lettura, l’unione commuovente tra ironia e profondità che, davvero, è raro trovare in un albo che tocca il tema della disabilità. Ma andiamo con ordine.

La bambina che andava a pile è l’opera prima di una giovanissima autrice bresciana (classe 1992!), cresciuta con una sordità profonda diagnosticata all’età di due anni e poi con un impianto cocleare posizionato all’età di dieci. Proprio quell’esperienza d’infanzia, così particolare e distante da quella della maggior parte dei bambini, è protagonista del libro che raccoglie in forma lapidaria una serie di riflessioni su cosa significhi, concretamente, essere sordi in un mondo di udenti: la rincorsa delle parole, l’ostilità del buio che crea un distacco netto col resto del mondo, le voci – molteplici – su cui può fare affidamento, la vita in equilibrio tra più dimensioni, il valore relativo del concetto di diversità, il peso variabile dei nomi con cui si dice e si dà forma a una realtà. Quello di Monica Taini è un ritratto personale ma scorre fluido e avvincente come una storia avventurosa, forse perché propria come un’avventura è pieno di rivelazioni e colpi di scena. Ogni pagina è una bordata di senso, talvolta illumina talvolta colpisce allo stomaco, ma sempre invita a soffermarsi un attimo (e più) anche grazie all’eco generato da immagini in cui incisione e collage risultano molto espressivi. A chiudere il tutto, un glossario semiserio di cultura sorda che introduce con straordinaria ironia al mondo della sordità, tra oralismo, protesi e logopedia: una chicca utilissima per spiegare termini difficili e dire questa particolare disabilità con una precisione sorridente.

Morale: non lasciatelo sfuggire. La bambina che andava a pile è uno di quegli albi da conoscere e far conoscere. Assolutamente. E per il quale non solo l’autrice ma anche un lungimirante editore come Uovonero merita un grazie a lunga durata.

Divisioni senza resto

Solare e intraprendente, Francesco è un bambino che si muove in sedia a rotelle a causa della distrofia muscolare. I suoi compagni sono perlopiù gentili con lui e spesso si fermano a giocare in classe per non lasciarlo solo. Ma Francesco sa che talvolta non è ciò che preferirebbero fare, e questo un po’ lo incupisce. Trovare un amico vero, con cui trascorrere il tempo per puro piacere, quello sì sarebbe pazzesco. Per questo quando in classe arriva Valentino, un bambino di origine cinese che condivide con Francesco l’insegnante di sostegno a causa delle difficoltà linguistiche, la sua vita si trasforma. Valentino è un tipetto vivace ma anche disposto a chiacchierare di sport (di motori soprattutto!) e a divertirsi con giochi tranquilli. Con lui le giornate di Francesco prendono una nuova spinta: quella verso alcuni guai, nuove relazioni  e soprattutto verso una nuova consapevolezza delle proprie possibilità.

Ben scritto e contraddistinto da un certo dinamismo, Divisioni senza resto è un bel racconto sull’amicizia in cui la disabilità ha tanta parte nella vicenda ma non appesantisce la narrazione portando a derive buoniste. La capacità di Caterina Frustagli è quella di raccontare i sentimenti e le situazioni anche complicati, con grande chiarezza, trovando immagini efficaci per dire anche i pensieri e i concetti più critici. Il titolo stesso ne è un esempio significativa, poiché come dichiara più avanti il protagonista: “Mi piacciono le divisioni, perché dividono e danno a tutti in parti uguali. Se ci sono venti caramelle e cinque bambini, stai sicuro che ognuno avrà quattro caramelle, senza ingiustizie. La vita dovrebbe essere una divisione senza resto: a tutti parti uguali e stop.

Viaggio incantato

Si è preso tanto tempo, Mitsumasa Anno, per comporre Viaggio incantato: lo racconta lui stesso in una nota che apre il volume. Un tempo lento, prezioso, sospeso: lo stesso che il lettore dovrebbe, a sua volta, potersi regalare per assaporare a modinoquesto albo così ricco e delizioso. Sarebbe tempo ben speso.

Viaggio incantato è infatti il racconto di un viaggio in un tempo e in luoghi lontani: un viaggio a misura d’uomo, senza la fretta di arrivare a una meta o l’incombenza di portare a termine un compito. È un viaggio in cui il protagonista lascia la sua terra su una barca e ne esplora una nuova su un cavallo, attraversando strade, villaggi, campi e città. Ma è soprattutto un viaggio in cui ciò che conta è davvero il gusto di viaggiare, di vedere, di scoprire. Protagonista, a dispetto delle aspettativa, non è infatti il cavaliere – quasi invisibile, talvolta apparentemente immobile, comunque discretissimo – ma ciò che questi di volta in volta incrocia e osserva. Sono quadri brulicanti quelli che lo accolgono senza che ci sia una vera e propria interazione: quadri in cui illavoro, la convivialità, il lato quotidiano e il lato eccezionale della vita, le città reali e quelle fantastiche, i riferimenti all’arte, al cinema e alle fiabe si mescolano attraverso figure minutissime tra le quali, letteralmente, ci si perde.

Che siate alla ricerca di un libro cerca-trova, di un albo che vi assorba completamente, di una storia che sembra sospesa, di un libro inclusivo in cui non ci siano barriere testuali, di una proposta trasversale per adulti e bambini o di un libro che lasci il lettore letteralmente a bocca spalancata, ecco in tutti questi casi (e molti altri ancora, a dire il vero) siete davanti al libro giusto. Viaggio incantatoè infatti uno di quei volumi straordinari che soddisfano attese diverse e che offrono possibilità di ingresso e sedimentazione molteplici. È uno di quei libri, frutto di una lunga gestazione, che ripagano con uno sguardo ampio e larga emozione il lettore che gli si accosti senza fretta e con una certa disponibilità allo stupore.

 

 

Che capolavoro!

Ci sono due storie che si incontrano e si intrecciano in questo libro originalissimo firmato da Riccardo Guasco: la storia del protagonista e la storia dell’arte. Come avviene quest’incontro è un’autentica magia: l’autore, infatti, racconta la giornata di un bambino, intento a portare il suo contributo a una grande scultura collettiva, attraverso pagine che omaggiano numerosi capolavori artistici di tutti i tempi. Man mano che il lettore sfoglia il libro, seguendo il sonno, il risveglio e il percorso del personaggio, si trova immerso in atmosfere che con un tocco di genialità mantengono intatto il filo narrativo ma al contempo strizzano l’occhio ad alcuni dei più grandi artisti di tutti i tempi

Così, per esempio, la notte con cui si apre il volume richiama con forza Klee e Van Gogh, la colazione in famiglia mette in scena Modigliani e Magritte e il viaggio in tram arriva persino a Banksy. È un continuo echeggiare di stili e opere – taluni davvero inconfondibili come gli orologi molli di Dalì, talaltri meno noti come l’Uomo che cammina di Giacometti, passando attraverso rivisitazioni libere de La primavera di Botticelli e riferimenti più pop, per esempio alla celebre immagine dei Beatles che attraversano la strada – quello che invita il lettore a partecipare a una piccola caccia al quadro ma anche a non trascurare il contributo che ciascuno di noi può dare alla bellezza del mondo.

Il risultato è un libro che non smette nemmeno un secondo di solleticare la curiosità del lettore, rievocando atmosfere e immagini a lui più o meno note o instillando la voglia di scoprire quelle che gli sfuggono. Che capolavoro!è insomma un volume che di consueto ha davvero poco: non solo perché la narrazione procede solo per immagini (ma d’altronde nell’arte non sono forse le immagini a parlare?), risultando fruibile e accattivante anche per molti lettori con difficoltà di decodifica testuale, ma anche perché sa giocare e far giocare con l’arte in una maniera deliziosamente intelligente!

La notte del circo

È sera tardi, le undici in punto, e dalla finestra aperta della sua stanza da letto una bimba fa entrare di soppiatto un cagnolino nero. La loro è amicizia a prima vista: insieme per più di un’ora giocano a si scatenano in numeri – con la palla, con i cerchi, col tamburo e con la sbarra – degni di un circo. E proprio a un circo, in effetti, l’animale torna, quando la piccola si addormenta. Il risveglio sarà brusco e triste per lei: la palla, i cerchi, il tamburo e la sbarra non hanno più lo stesso fascino senza un compagno di acrobazie. Il sonno riserva però una sorpresa straordinaria e la bimba, riaddormentatasi, si ritrova trasportata da un clown gigantesco sotto il tendone del più fantastico dei circhi. Qui non solo ritrova il suo amico a quattro zampe ma sperimenta l’euforia elettrizzante che le acrobazie circensi possono riservare. Sarà un sogno mirabolante il suo, pieno di ritmo, capriole e meraviglia, e se proprio solo di un sogno si tratti tocca al lettore stabilirlo.

In questo silent book che fa scintillare gli occhi e l’immaginazione, Mattias De Leeuw infonde tuttolo stupore e la magia del sogno. Ad occhi chiusi e ad occhi aperti. Il mondo circense a cui dà vita è pieno zeppo di particolari che fanno di ogni pagina un piccolo spettacolo. È un libro che tira e tesse una moltitudine di fili, il suo: fili su cui camminare con e come un equilibrista, fili che legano le pagine grazie a dettagli minuziosissimi, fili che animano le silhouette smilze dei personaggi e fili che creano una rete tra il mondo onirico e quello reale. L’assenza di parole, che ben si confà peraltro a un mondo come quello di clown e animali, dà vita a un racconto che richiede al lettore un’immersione profonda e sospende pressoché il tempo. Curatissimo nel ritmo, scandito da doppie pagine di ampio respiro che si alternano a pagine frammentatissime, La notte del circo va incontro a lettori curiosi e pazienti, le cui capacità di attenzione e decodifica delle immagini siano un pochino impratichite.

C’era due volte il barone Lamberto

La storia del barone Lamberto, come molte di quelle create da Gianni Rodari, fa un uso sapiente e gustoso del surreale. Qui, in particolare, questo aspetto trova espressione nel bizzarro meccanismo scoperto dal protagonista – ricchissimo nobile che vive sull’isola di San Giulio – per mantenersi giovane: sentire in continuazione ripetere il suo nome. Come anticipato da un’antica profezia, la ripetizione del nome consente di non morire e così Lamberto paga alcuni servitori per garantire la sua giovinezza. E già qui la fantasia ha di che essere compiaciuta. Ma è quando un gruppo di banditi fa irruzione sulla scena con lo scopo di rapire il barone per chiedere un riscatto che il romanzo trova un’ulteriore spinta: è a quel punto infatti che inizia una rocambolesca catena di avventure che comprende una fuga in mongolfiera, il provvido intervento di alcuni scout, la comparsa di un nipote con diabolici piani, una morte improvvisa e persino una resurrezione, fino a una conclusione che porta alle estreme spassose conseguenze l’astrusa corrispondenza tra nomina e giovinezza da cui il romanzo prende vita.

Dinamico e divertente C’era due volte il Barone Lamberto solletica la fantasia dei lettori da ormai quarant’anni e non c’è forse modo migliore di festeggiare tale traguardo con una nuova edizione del romanzo che ne consenta la fruizione anche a chi fatica o proprio non può leggere un testo tradizionalmente scritto, per esempio per difficoltà legate a una disabilità visiva o alla dislessia. Ecco dunque che l’iniziativa di Emons Audiolibri di proporre la storia di Rodari in formato audio, scaricabile o su Cd MP3, appare estremamente apprezzabile. C’era due volte il barone Lamberto va così ad arricchire la già cospicua collezione di testi rodariani realizzati dall’editore in una versione per le orecchie, per i quali sono stati scelti di volta in volta interpreti diversi. Qui la voce, piacevolissima e attenta, è quella di Massimo Popolizio che contribuisce a mantenere giovane un testo con qualche anno sulle spalle. Proprio come accade allo stesso barone!

Maionese, ketchup o latte di soia

Élianor è nuova a scuola: secca secca, pallida pallida e silenziosa come pochi, la ragazza è da subito vittima di scherni e angherie da parte dei compagni. Non che serva per forza un motivo per finire vittima dei bulli, ma questi pensano bene di bersagliarla per il suo presunto insolito odore. E così, in meno di un giorno di scuola, Élianor diventa per tutti la ragazza che puzza. Per tutti tranne uno, a dire il vero: per Noah, infatti, l’odore può raccontare a suo modo la storia delle persone, creando invisibili forme di relazione e contatto, e per questa ragione non esita ad avvicinarsi alla ragazza. Sarà un incontro turbolento il loro, sia perché li porta a sfidare la prepotenza di teppisti come Sylvester sia perché li porta a mettere faccia a faccia due quotidianità molto distanti tra loro. Come può una ragazza che vive con un guru scalzo e che si ciba di strani intrugli naturali  trovare qualcosa in comune con un ragazzo cresciuto a cola e merendine? Sarà necessario per i due andare più a fondo di una dieta per scoprire che ci si può incontrare nelle comuni esperienze di vita, emozioni e rispetto della diversità.

Fresco e avvincente, il racconto di Gaia Guasti parla in modo schietto e diretto alle orecchie dei giovanissimi, trovando così il modo più efficace di dare spazio a cose vere e complesse come il bullismo e la tolleranza. Nei pensieri di Noah ed Élianor, nelle dinamiche tra i banchi di scuola, nelle storie nascoste dei singoli personaggi, si percepisce infatti un’adolescenza palpitante. E brava davvero è l’autrice a coglierla e restituirla nella sua ricchezza. Già edito nel 2016 da Camelozampa, Maionese, ketchup o latte di soia è ora ripubblicato dall’editore padovano in una snella e apprezzabilissima versione ad alta leggibilità che sfrutta il font Easyreading e un’impaginazione più ariosa del testo.

Contro corrente

Emily è una ragazzina degli anni venti, curiosa e intraprendente. A differenza di molte coetanee, della madre e della sorella, non mostra grande interesse per pizzi e merletti ma coltiva una grande passione per il nuoto. È stata la cugina Gertrude, professionista della disciplina e vincitrice negli stessi anni di un’olimpiade e del record di traversata femminile della Manica, ad accendere la scintilla per questo sport il giorno in cui le ha regalato il suo costume da bagno. Come un segno del destino, quel dono sosterrà Emily nei suoi allenamenti segreti e osteggiati in compagnia dell’amico Leo, fino al compimento della sua piccola grande impresa di nuoto al lago.

La vicenda di Emily, inventata ma ispirata alla storia vera della nuotatrice newyorkese Gertrude Ederle, è portata all’attenzione dei lettori dal fumetto edito da Sinnos con un garbo e una cura rari. Alice Keller ha infatti la capacità speciale di raccontare le storie, vere o inventate che siano, con una pacatezza che ammalia e tiene sospesi, un po’ come quando si tira il fiato e ci si immerge in fondo a un lago. È un racconto pulito il suo, talvolta ironico e talvolta secco, un racconto che non prova mai a spiegare le emozioni preferendo di gran lunga lasciare che vengano a galla da sé, naturalmente. A sostenerlo, echeggiarlo e completarlo, le leggiadrissime tavole – ora a tutta pagina ora in formato mignon – di Veronica Truttero. Il risultato è un fumetto che appassiona con grande leggerezza, facendo dell’apprezzabilissima sintonia tra le autrici, la chiave di volta per tenere agganciato il lettore.

Cappuccino e Cappuccetto

La storia di Cappuccetto Rosso la conosciamo tutti, ma la versione che propone Fulvia Degl’Innocenti in Cappuccino e Cappuccetto si discosta un po’ dal racconto consueto. Non solo perché la protagonista è qui una bambina moderna, con lo zaino sulle spalle, uno skateboard in mano e una fermata del bus sotto casa, ma anche perché nel fitto del bosco dove si reca per portare una torta alla nonna malata, le cose non vanno proprio come ci si aspetta. L’incontro con il lupo, ben lontano dallo stereotipo di bestia feroce e pericolosa, scioglie infatti pregiudizi e timori in quella che diventa una scampagnata in compagnia. Perché, come recita il testo, “in due è più difficile perdersi”.

Costruito in modo tale da poter essere letto in un senso e nell’altro, portando da un lato la storia del lupo Cappuccino e dall’altro quella della ragazzina Cappuccetto Rosso, Cappuccino e Cappuccetto fa incrociare le due storie proprio nel mezzo, invitando implicitamente a una riflessione sull’importanza del punto di vista. Stampato come gli altri albi della casa editrice Terra Nuova con font OpenDyslexic, il libro intende consentire una più agevole fruizione della storia anche da parte di bambini con dislessia.

Lo sport non fa per te

Lettori goffi, atleticamente insoddisfatti o poco performanti, attenzione: questo libro è per voi! Maniaci dello sport, difensori della performance al top e professionisti del “tu non puoi giocare”, attenzione: questo libro è anche per voi! Lo sport non fa per te è infatti un inno scanzonato allo sport come contenitore di tante abilità e talenti diversi e come fonte di autentica gioia e appagamento. Tra le sue pagine si susseguono bambini di ogni sorta che, pur apparendo schiappe in uno sport, scoprono di potersi divertire con successo in un altro. Così Michele,a cui il pallone scappa dai piedi, si scopre un asso della pallanuoto; Viola, che a pallanuoto beve solo un sacco d’acqua, può esprimersi con grazia nella ginnastica; e Sara, che a ginnastica non fa che aggrovigliarsi, impara a sfruttare la sua altezza fuori norma per canestri vincenti. E così via, secondo una struttura ciclica che restituisce a tutti (i bambini perlomeno!) il diritto allo sport.

Un tema importante, questo dell’attività fisica prima di tutto come occasione di benessere: tema che gli autori di Lo sport non fa per te declinano in modo felicemente scanzonato e brillante. Federico Appel- che per Sinnos aveva già firmato un importante lavoro dedicato allo sport con la graphic novel Pesi Massimi – torna qui a occuparsene con uno sguardo e un approccio completamente diversi. Versatilissimo nel suo modo di dare forma a un contenuto, l’illustratore dà qui vita a figure dinamicissime, brulicanti e divertenti che danno un bel ritmo alla pagina e vanno a braccetto con i testi ironici di Paolina Baruchello, anche lei già nota all’affezionato lettore di Sinnos per la graphic novel Pioggia di primavera, di tutt’altro segno rispetto a questo volume. Il loro lavoro è vivace su tutti i fronti, anche quello dell’impostazione grafica della pagina che, unita alle consuete scelte tipografiche di alta leggibilità, concorre a offrire anche a lettori con poca dimestichezza o con qualche difficoltà di approccio al testo, una lettura snella che cattura e coinvolge.

Mio nonno gigante

Metti che un giorno ti svegli e ti ritrovi il nonno alto sei metri: un nonno gigante che si aggira in mutande e ciabatte per la città, come un novello King Kong con la dentiera. Cosa fai? Bella domanda! Se lo chiede anche la famiglia Brodino alla quale questa strana avventura effettivamente è capitata. Mio nonno gigante, nato dalla penna scanzonata di Davide Calì, è proprio il racconto di quella mattina insolita in cui la mamma smette di cercar mosche nella tazza di te, il papà smette di controllare se ha vinto alla lotteria, Brodino-figlia smette di pesare le fette biscottate e Brodino-Figlio smette persino di ascoltare i Cani Lagnosi per andare a cercare il nonno colosso: una rincorsa improbabile che scomoda persino generali ottusi dell’esercito e si risolve (si fa per dire), infine, con un astuto stratagemma culinario. Gli anziani, si sa, tocca prenderli per la gola…

Con un racconto che mescola con grande sapore dimensione reale e surreale, non solo negli eventi ma anche nelle parole dei protagonisti, Davide Calì invita i bambini a una lettura che scorre spassosa e originale. Straordinariamente adatta a una condivisione ad alta voce – grazie ai dialoghi ritmati e spiazzanti, all’uso arguto di elenchi e climax e a una narrazione che garantisce un sorriso fisso in volto – Mio nonno gigante offre altresì una ghiotta occasione di lettura autonoma per bambini alle prime armi, anche poco invogliati o propensi a scegliere un libro, a causa di difficoltà legate ai DSA. Le caratteristiche tipografiche care alla casa editrice (font specifica biancoenero, carta color crema e opaca, spaziatura maggiore, sbandieratura a destra, corrispondenza tra punteggiatura e a capo) che garantiscono l’alta leggibilità del volume si sposano infatti a un testo piacevole da seguire e sostenuto da illustrazioni a loro volta molto ironiche. Il risultato è un libretto snello che mette a proprio agio, diverte e dà al piccolo lettore grandi soddisfazioni.

Ombra

Se c’è un soggetto che più di tutti costituisce una sfida per un libro tattile è proprio l’ombra. Impalpabile, questa sfugge all’esperienza delle persone cieche. È possibile, dunque, dare una forma, una consistenza, una rappresentabilità tattile a qualcosa di così inafferrabile? E se sì, come? Michela Tonelli e Antonella Veracchi hanno provato a dare una risposta a queste domande in un volume che ha vinto il titolo di miglior libro didattico al terzo concorso di editoria tattile Tocca a te.

Lo hanno fatto trovando una chiave di volta molto efficace nella personificazione dell’ombra. Rappresentata mentre fugge se cerchi di rincorrerla, intenta a giocare a nascondino a mezzogiorno, lunga e sottile la sera e infine scomparsa quando cala la notte, l’ombra diventa un’amica, una compagna di viaggio, qualcosa che assume un senso al di là della concreta possibilità di percepirla coi sensi. Sono dunque il gioco e l’immaginazione le porte che schiudono al lettore cieco non tanto la comprensione quanto la curiosità verso qualcosa che pertiene a un mondo in cui domina la vista e che al contempo mettono a parte il lettore vedente  di un nuovo modo di considerare la sua ombra.

Il libro infatti si rivolge a entrambi, accettando la sfida di raccontare l’ombra a chi non la può vedere e di rinnovare la percezione di chi invece può farlo. In questo senso la scelta di testi misuratissimi nella lunghezza e nella composizione, di illustrazioni essenziali in cui compaiono solo il suolo, una figura umana, la sua ombra e il sole, e di cui soltanto gli ultimi due, insieme ai colori, cambiano di forma e posizione, è funzionale e vincente perché mantiene viva una certa indispensabile vaghezza. A completare una riflessione per le dita davvero suggestiva, la presenza di una taschina finale con una sagoma nera di stoffa con cui giocare, dormire, inventare. E a quel punto, sì, l’ombra è davvero diventata un’amica.

Il Diario di Anna Frank

Benvenuta Parimenti, aspettavamo da tanto tempo una collana come te! Già, perché Parimenti è la prima collana di libri in simboli per giovani adulti pubblicata da un editore italiano: una proposta di cui ragazzi con disabilità comunicativa e cognitiva lamentavano la tempo l’assenza e che oggi trova un primo significativo spazio, grazie al coraggio e all’impegno delle edizioni la meridiana e al progetto promosso insieme al Centro Documentazione Handicap di Bologna e all’Associazione Arca Comunità “l’Arcobaleno” Onlus di Granarolo.

La collana, inaugurata a gennaio 2018, si apre con Il diario di Anna Frank, di cui propone una versione ridotta, adattata e simbolizzata.  Del lungo e noto diario lasciatoci in eredità dalla tredicenne tedesca è stato infatti selezionato un numero contenuto di passaggi significativi, tale da garantire un equilibrio misurato tra resa del testo e del contesto originale e comprensibilità della vicenda. Così il lettore trova la giovane Anna nel giorno del suo compleanno, quando riceve in dono il diario e  decide di chiamarlo Kitty e confidargli la sua storia; nel giorno in cui con la sua famiglia, prima del previsto, dalla polizia tedesca e si rifugia in un appartamento segreto; negli infiniti giorni seguenti in cui tra la paura, la noia, la fame e la tristezza dominanti cercano di farsi spazio alcuni brandelli di normalità, come il primo tenero amore con Peter o l’invenzione di un modo creativo per preservare la magia dello scambio dei doni di san Nicola. Tutto questo mentre fuori la guerra si inasprisce, le perquisizioni della Gestapo si fanno temibili e le notizie di una futura liberazione arrivano come un’eco senza una precisa data in cui sperare.

Ecco dunque che, anche grazie alla concisa ma puntuale introduzione al volume, anch’essa in simboli, questa particolare versione de Il Diario di Anna Frank riesce a mettere a fuoco, anche agli occhi di chi arranca su di un testo tradizionalmente scritto, ciò che di davvero urgente c’è nel racconto della giovane Anna: la quotidianità travolta, l’umanità vessata, i sentimenti di paura e incomprensione, la vitalità giovanile che cerca spazi di espressione e sopravvivenza, l’insensatezza di una guerra e di una pulizia etnica che non trova alcuna forma di sensatezza.  Il senso profondo de Il Diario di Anna Frank trova quindi nuova forma espressiva in un testo rielaborato in modo da risultare più lineare e diretto e funzionale a una resa tramite codice simbolico. Le frasi prive di costruzioni arzigogolate e contraddistinte da un lessico perlopiù piano vengono infatti simbolizzate facendo ricorso ai Widgit Literacy Symbols: la collezione di simboli adottata dagli inbooks e particolarmente indicata per la traduzione di un testo preesistente. Piuttosto versatile e ricca questa si presta bene a trascrivere in simboli un denso come quello in questione e adatto a lettori che non alle prime armi.

Perché in effetti sono proprio i lettori a essere al centro di un progetto editoriale (e non solo) come questo: quei lettori che crescono con un forte bisogno (e diritto) di confrontarsi con i pari e con la realtà che li circonda ma che spessissimo non trovano gli strumenti adatti a supportare e accompagnare questo bisogno. Perché per essere cittadini attivi, partecipi e coinvolti è necessario poter maturare delle riflessioni, poter conoscere la propria storia, poter ampliare il proprio sguardo con le narrazioni più profonde, e poter costruire il proprio pensiero anche in relazione a quello di altri. Ma è prima di tutto necessario che questi siano possibilità riconosciute a tutti, anche ai ragazzi con disabilità cognitiva e comunicativa. Solo, cioè, partendo dal presupposto – elementare ma tutt’altro che scontato – che il pensiero non sia annullato dalla disabilità e necessiti quindi di adeguato nutrimento, è possibile attivare progetti efficaci e segnare un percorso di reale crescita e inclusione. E questo è esattamente ciò che un progetto come Parimenti fa, mettendo in campo la consapevolezza che i ragazzi con disabilità crescono  e con loro cresce la voglia di confrontarsi con un mondo, un tipo di narrazione e un pensiero via via più complessi.

Il pesciolino d’oro

Quella del pesciolino d’oro – creatura magica che esaudisce i desideri di chi lo incontra, a patto che non sfocino nell’esagerata avidità – è una fiaba popolare che si ritrova in numerose tradizioni e culture. È una fiaba avvincente in cui il protagonista, un vecchio pescatore con una moglie tiranna, passa dall’avere tutto al non avere nulla, invitando il lettore a riflettere sul senso più autentico della felicità.

Da poco la fiaba è resa accessibile dalla casa editrice Homeless Book che ne propone una versione basata sulla Comunicazione Aumentativa e Alternativa. Qui la fiaba risulta adattata prima di tutto nei contenuti: uno dei desideri espressi dal pescatore, probabilmente per risultare più familiare a un lettore d’oggi, è per esempio un’automobile. Il finale inoltre vede i due protagonisti felici della loro condizione di povertà, allorché la storia originale tende a sottolineare la miseria incontro alla quale vannoi protagonisti a causa della loro avidità.

Il testo, asciugato ed essenziale,  si adatta alle esigenze di giovani lettori con disabilità comunicative, sfruttando i Widgit Literacy Symbols (simboli WLS). Ogni pagina, con illustrazione a sinistra e testo a destra, presenta un massimo di tre o quattro frasi, perlopiù brevi o coordinate e dalla struttura lineare.  Tutti gli elementi della frase, salvo i (rari) pronomi, vengono simbolizzati, e la parte alfabetica del simbolo compare in minuscolo all’interno de riquadro.

Le illustrazioni, non  particolarmente d’impatto e dall’aspetto rustico, mirano nella loro semplicità a risultare comunicative e non distraenti.

 

 

 

 

Non è te che aspettavo

Dire tutto quel che c’è da dire e farlo con un’ironia fine e profonda, ecco la dote rara di Fabien Toulmé, autore, voce narrante e protagonista dello splendido fumetto Non è te che aspettavo. Nella graphic novel portata in Italia da Bao Publishing c’è il racconto di una diagnosi  temuta, di una paternità travagliata, di un amore genitoriale che arranca prima di spiccare il volo.

Facciamo la conoscenza di Fabien in Brasile, durante la seconda gravidanza della moglie Patricia, in occasione delle primissime ecografie che sembrano non rivelare alcuna criticità per la bimba in arrivo. Poi lo seguiamo nella periferia parigina,  dove la coppia con la prima figlia Louise, si trasferisce a gravidanza inoltrata: i mesi passano, nuovi esami si accumulano, ma nulla ancora  lascia presagire un’anomalia nel feto. Eppure Fabien ha come un presentimento e l’irrazionale timore che la sua bimba possa avere qualcosa che non va. Che possa avere la Sindrome di Down, più nello specifico: una forma di diversità che fin dall’infanzia lo turba e gli reca un senso di respingimento. Perciò quando dopo il parto è proprio questa diagnosi ad arrivare, non è una tegola che gli cade sulla testa ma un tetto intero. Trascorrono settimane di tormento, in cui Fabien si sente lacerato da sentimenti contrastanti: c’è la delusione per una figlia che non somiglia affatto a quella che si era immaginata e per una vita che prenderà una strada diversa da quella che aveva programmato; c’è la rabbia verso quei dottori che non hanno saputo prevedere il problema; c’è l’invidia verso i genitori più fortunati; c’è  il senso di colpa verso una moglie che sa accettare la figlia con una naturalezza sbalorditiva e c’è lo spaesamento più totale rispetto a una forma di paternità che non sente affatto propria. Tutto si riflette in una quotidianità che si trascina pesante, in cui anche i momenti di più intima relazione con la piccola Julie diventano fardelli, in cui tocca trovare il modo di dire, a conoscenti e sconosciuti, la diversità della propria figlia e infine quella diversità guardarla in faccia. E forse è proprio quando Fabien trova quel coraggio lì, quello cioè di guardarla negli occhi la diversità di Julie, che qualcosa davvero cambia e che l’autore finalmente dice: “Mi sentii felice, felice di essermi evoluto, di non vedere più l’handicap ma il bambino”.

Ecco, qui forse sta il punto più delicato della faccenda: siamo umani e la diversità ci spaventa, anche quando riguarda persone a noi carissime e a cui siamo strettamente legati. L’handicap può distorcere la nostra percezione degli individui e dei rapporti, richiedendo un preciso sforzo di rimessa a fuoco dello sguardo. È dunque un vero e proprio percorso quello che porta a mettere da parte l’irrazionale per cogliere l’umanità di ciascuno e scongelare le emozioni: un percorso non semplice ma possibile, e che come tale va promosso. Il percorso di Fabien, tanto più duro e tormentato perché vissuto in veste di papà, è dunque il percorso che riguarda noi tutti e che sta alla base della costruzione di una società inclusiva. Ecco perché un libro come Non è te che aspettavo merita, fortissimamente merita, una lettura attenta e appassionata, non solo da parte di chi una disabilità la sperimenta o l’ha sperimentata in qualità di genitore e che in queste pagine può ritrovarsi e ritrovare un sentiero.

E poi, aspetto tutt’altro che secondario, non solo il libro racconta così tanto della disabilità, della genitorialità, della fratellanza, della relazione e del rapporto tra mente ed emotività ma lo fa con la provvida leggerezza che solo un maturo e ponderato lavoro di elaborazione personale, oltre che di talento innato, può generare. Le tavole che compongono Non è te che aspettavo, pulite e giocate sul monocromatismo (un colore per ogni capitolo), colgono nel segno grazie a un’ironia che aiuta a dire ciò che non è facile dire e che restituisce, in maniera ancor più autentica e irresistibile, il lato profondamente umano del protagonista. Anche e soprattutto per questo Non è te che aspettavo è un libro raro. Un libro che sa portare alla luce un carico pesante di sofferenza, con una delicatezza saporitamente umoristica.

Sogni d’oro

La frequentazione dei terreni del racconto senza parole non è cosa nuova per Paola Formica. Suoi, i bellissimi silent book Orizzonti e Cuore di Tigre editi negli anni passati da Carthusia. Sicché, l’ultimo lavoro tutto per immagini realizzato dall’autrice e intitolato Sogni d’oro, pur rivolgendosi a bambini più piccoli e adottando un tema ben più leggero dei precedenti, nasce a partire da un’esperienza ben consolidata e matura. E si vede. Questo albo senza parole pubblicato da San Paolo e dedicato al gioioso momento serale in cui la fantasia spalanca le porte al sogno, sposa infatti con perizia un’apprezzabile chiarezza narrativa e una capacità di giocare con ciò che le immagini velano e svelano. L’albo non solo, dunque, procede senza parole ma è progettato per valorizzare il potenziale  narrativo che è caratteristico del codice iconico.

Protagonista del libro è una bambina che si accinge ad andare a dormire. Copertina alla mano e pigiama vermiglio indosso, saluta con la manina e si avvia. Ma sul percorso trova una coda che ha tutta l’aria di essere leonina, seguita da una zampa che a sua volta pare essere leonina, seguita da una belva intera che indubbiamente è leonina. Sì, quello che la bambina incontra è proprio un leone, però buono. Con lui è tutto un solletico, così come con l’elefante che compare da lì a poco sarà tutta una capriola e con il coccodrillo tutto un bel salto. E poi ci sono l’orso, il dinosauro, il gufo, la balena e il canguro, ciascuno esperto di un gioco diverso. E  infine c’è un’ultima creatura dagli occhi grandi e il manto scuro. Si nasconde tra le foglie con fare misterioso. Di cosa si tratta? E dove porterà la piccola con quelle sue zampone nere? Lo svela con un piccolo colpo di scena la pagina finale, che dona al lettore la chiave per rileggere la storia.

Lineare e ben scandita, questa procede secondo uno schema iterato in base al quale il lettore intravede dapprima un solo dettaglio – la coda, la proboscide, una zampa e così via – dell’animale che sta per comparire in scena e di cui può indovinare le fattezze, prima di scoprirlo nella sua interezza e verificare se l’intuizione sia stata azzeccata. Ogni pagina è quindi un implicito invito a prevedere gli incontri della protagonista e i giochi che ne nasceranno: invito supportato da un’accorta distribuzione delle figure, un’attenta selezione dei particolari da sottoporre al lettore e una scelta di personaggi ben identificabili e familiari ai bambini. Questi aspetti agevolano la partecipazione attiva alla lettura anche da parte di bambini che presentano qualche difficoltà a operare inferenze complesse. L’assenza di parole, dal canto suo, rende il libro accessibile anche in caso di dislessia e sordità, benché si tratti di un volume che perlopiù i bambini leggeranno insieme a qualcuno.

Il tono della narrazione è sempre voltato alla positività e al piacevole divertimento, il che fa di Sogni d’oro una bella proposta anche per la lettura serale, in cui il bambino possa riconoscere la propria esperienza di invenzione fantastica, di procrastinazione del sonno, di sovrapposizione tra reale e immaginario e possa trovare un sostegno contro piccoli grandi timori notturni. In questo, determinante è senz’altro la capacità di Paola Formica di rendere al meglio e di giocare con le espressioni e con gli sguardi – come già efficacemente dimostrato soprattutto in Cuore di tigre – affidando ad essi il compito di sussurrare al giovanissimo lettore che tra queste pagine, così come nel buio, può avanzare sereno senza avere paura.

Il coniglio di Alja

Se è vero che la disabilità, da qualche tempo, si è ricavata spazi di rilievo all’interno della letteratura per l’infanzia, è altresì un fatto che non tutte le disabilità trovano eguale rappresentazione in quella letteratura. Soprattutto quando è rivolta ai più piccoli. Gli albi proposti ai bambini in età prescolare tendono infatti  a concentrarsi sulle disabilità più note e diffuse, più facili da avvicinare e conoscere e, in generale, meno gravi e forse più normalizzabili. Più difficile, invece, trovare parole e figure che raccontino agli orecchi acerbi la disabilità grave o la pluridisabilità, quella stessa che più difficilmente gli stessi bambini incontrano sul loro cammino. Eppure questo incontro accade e avere tra le mani uno strumento che aiuti a trasformarlo in un’occasione di crescita è auspicabile e positivo.

Alla luce di tutto questo Il coniglio di Alja pare un libro insolitamente coraggioso, per la scelta schietta e controcorrente di dare spazio a una disabilità rara e complessa. La protagonista dell’albo edito da Asterios, infatti, non cammina, non parla, non vede e non sente bene: Alja è affetta dalla rara sindrome di Leigh, ci dice la nota per adulti a fondo libro, il che la rende gravemente non autosufficiente. Quale che sia la sua sindrome precisa, tuttavia, al lettore e agli autori non importa granché, poiché parole e immagini si concentrano su ciò di cui i bambini concretamente si accorgono e sulle domande reali che popolano le loro menti. Perché è nel passeggino? Perché è in questo modo? E come farà a giocare con noi?, per dirne qualcuna. Tutte domande che qualunque maestra si sentirebbe porre di fronte a una diversità così marcata e alle quali non è così semplice rispondere. Le parole di Brane Mozetič  sono tuttavia misurate e mirate, capaci di nominare con correttezza e senza sbavature una realtà delicatissima e di sposarsi con pacata armonia alle illustrazioni morbide ma decise di Maja Kastelic. In entrambi i suoi aspetti comunicativi il libro mantiene uno sguardo positivo che non sfocia nell’irrealistica edulcorazione della realtà e presta un’attenzione di riguardo alla gestualità, agli sguardi, alle distanze e alle posizioni assunte dai protagonisti: un modo rispettoso e sincero di dire il rapporto che lega disabilità e infanzia, non castrando la naturale curiosità dei bambini ma offrendo loro risposte e azioni soddisfacenti. 

Ne Il coniglio di Alja,  in fondo, non c’è che il racconto di un’esperienza, di una quotidianità per certi versi insolita: l’arrivo all’asilo di una bimba dai bisogni più che speciali, il confronto con una diversità che spiazza e pone interrogativi importanti, le esperienze che, grazie a maestre accorte, la bambina e i suoi compagni riescono a condividere, l’incontro al di fuori della scuola per un compleanno e  la scoperta di un amico comune – un coniglietto nella fattispecie – che incentiva e sostiene la relazione nonostante le gravi difficoltà. Il libro pone cioè un focus molto esplicito sulla disabilità e ciononostante mantiene – cosa tutt’altro che scontata – una freschezza e una profondità apprezzabili che trasformano una narrazione apparentemente ordinaria in un seme di attenzione e apertura.  

Imparo a fare la pipì

Imparo a fare la pipì è un volume in simboli edito dalla casa editrice Homeless Book e dedicato a uno dei passaggi più particolari e delicati della crescita di un bambino. Non si tratta di una storia fantastica o avventurosa, bensì di una storia sociale ossia di un racconto che intende aiutare i bambini ad acquisire dimestichezza con una situazione quotidiana che può generare sorpresa, difficoltà di comprensione o reticenza. Sono reazioni, queste, che toccano trasversalmente qualunque bambino e che possono farsi a maggior ragione più marcate nel caso sopraggiungano particolari disturbi o nel caso in cui i cambiamenti vengano percepiti come ostici.

Ecco dunque che la scelta della casa editrice di rendere il contenuto del libro fruibile anche in caso di autismo e disturbi della comunicazione, grazie all’utilizzo dei simboli WLS e di illustrazioni molto piane e limpide, appare particolarmente calzante per un volume di questo genere. Imparo a fare la pipì presenta infatti un testo molto semplice, composto di poche e brevi frasi e caratterizzato da scelte lessicali ispirate alla quotidianità e da scansioni temporali molto chiare. I simboli impiegati sono riquadrati e presentano la componente alfabetica, in stampatello minuscolo, all’interno del riquadro stesso perciò strettamente connessa alla parte grafica.

Il libro, inoltre, tiene conto dell’importanza- soprattutto in caso di difficoltà legate allo spettro autistico – di personalizzare il racconto in modo che rispecchi il più possibile l’esperienza del bambino-lettore. Per questo il volume è costruito in modo tale da consentire l’adeguamento della contestualizzazione alle singole esigenze (per esempio, con la possibilità di scelta tra il simbolo del vasino e quello del wc), il completamento attivo delle illustrazioni con le proprie foto o con le figure – contraddistinte da espressioni variegate – predisposte in fondo al volume e con l’offerta dei simboli più utili per costruire una tabella comunicativa a tema. Si tratta di piccoli accorgimenti dai risvolti pratici molto significativi che rendono la collana Completalotu – di cui Imparo a fare la pipì fa parte e a cui si è recentemente aggiunto anche il titolo Divento grade, vado a scuola – particolare e ben concepita.

Mira Kurz capelli rosso cuoco

Essere disortografici come Mira, la protagonista di Mira Kurz capelli rosso cuoco, può essere davvero molto faticoso e provante. Soprattutto se le persone – genitori, insegnanti e compagni – che ti circondano non danno troppo credito alle difficoltà che lamenti e anzi ci mettono del loro per complicarti la vita. Così, di fronte a una maestra poco attenta e un po’ superficiale, stanca dell’indisciplina degli alunni ma incapace o priva delle forze necessarie a porvi freno, una classe fuori controllo e guidata da alcuni bulli si accanisce contro Mira, deridendola per le sue difficoltà scolastiche. Dapprima sono prese in giro verbali, poi, esclusioni fisiche, atti di vandalismo ai danni dei suoi oggetti, menzogne riportate alla direttrice e vere e proprie trappole per metterla nei guai. Mira dal canto suo si guarda bene dal fare la spia e cerca di arginare la situazione elaborando piccole vendette, che peggiorano ulteriormente la situazione, e cercando il supporto di pochi amici rimasti. Sarà un adulto della scuola dalla spiccata sensibilità a cogliere per primo e per davvero il malessere della bambina, consentendo alla verità di saltare fuori e all’intera classe di rimediare a  quanto accaduto e a Mira di trovare il proprio posto e valorizzare le proprie capacità.

Contraddistinto da un tono leggero e scherzoso, forte anche del bel caratterino della protagonista, il libro di Anja Janotta affronta con brio il tema delicato delle difficoltà scolastiche e delle dinamiche di bullismo che spesso intorno ad esse si vengono a creare. Efficace e centrato è soprattutto il focus sull’escalation di gravità delle angherie, sull’impatto significativo che queste hanno sull’autostima dei bambini e sulla loro difficoltà a chiedere aiuto quando gli adulti si mostrano disattenti (più che sulla disortografia in sé, piuttosto calcata e in parte deformata per alimentare i giochi di parole che rendono particolare il racconto). Interessante e meritevole la capacità dell’autrice di rendere tutto questo con un racconto votato all’ironia, disseminato di piccole avventure e piacevolmente scorrevole nonostante le oltre 200 pagine che compongono il volume.

Alex e Axel

Se è vero che nomen omen, allora il legame speciale che unisce Alex e il cane Axel che abita vicino a lei pare predestinato dalla somiglianza tra i loro nomi. È tuttavia un legame tanto forte quanto osteggiato, il loro: il padrone di Axel è infatti un uomo scorbutico e scostante, tutt’altro che favorevole alle attenzioni che ogni giorno la ragazzina rivolge al suo cane. Alex non cede, però, alle proteste del signor Alberto, soprattutto quando si accorge che questi non offre al povero Axel la libertà di movimento che meriterebbe e che anche il cane – ringhioso e aggressivo verso chiunque tranne lei –  manifesta nei suoi confronti un attaccamento fuori dal comune. Da lì in poi, Alex farà di tutto per stare vicino al suo amico peloso e per fargli avere il dovuto svago: compreso scavalcare la recinzione del signor Alberto e portare Axel a spasso di nascosto. Quando però l’effrazione viene scoperta Alex passerà un brutto guaio e solo la sua straordinaria affinità con Axel riuscirà a ribaltare la situazione critica in cui la ragazzina viene a trovarsi, ricucendo rapporti compromessi e liberando da fantasmi del passato.

Alex e Axel è un libro che fa parte della serie azzurra del Battello a Vapore: è destinato ai bambini dai sette anni in su ma richiede una certa pratica di lettura. Il testo ha già infatti un certo spessore e non trascura parti riflessive e sottesi che richiedono una certa dimestichezza nel lettore. La scelta editoriale di pubblicare il libro ad alta leggibilità – con font specifico, paragrafi distanziati e non giustificati, spaziature maggiori e assenza di sillabazione – viene dal canto suo incontro alle esigenze di bambini con disturbi specifici dell’apprendimento che non vogliono rinunciare al gusto di storie appassionanti.

L’uomo che lucidava le stelle

L’uomo che lucidava le stelle è un uomo munito di secchi, stracci e  spazzolone con i quali si dedica – così  dice – a far brillare gli astri della notte. Non che Nicola, protagonista e narratore della storia, lo abbia mai visto all’opera ma quella figura adulta così strana e suggestiva segna profondamente i suoi ricordi di bambino e acquisisce una credibilità che stenta a trovare consensi nel mondo adulto. Non a caso quest’ultimo trova spazio nelle giornate e nei racconti di Nicola solo quando, per una ragione o per l’altra, dimostra di conservare uno spirito genuino e sognatore che è tipico dell’infanzia. Così, nei pomeriggio di gioco intorno al laghetto, insieme a Nicola e agli altri ragazzi, ci sono solo adulti sui generis – gli strambi del paese – quelli che avrebbero tante cose da dire ma faticano tra i grandi a trovare ascolto. Così le loro storie di matrimoni pluririmandati a cui i maialini, ahimé, non sono invitati, di incomprensibili reclusioni e di pietre da collezione capaci di parlare trovano ascolto solo negli orecchi acerbi dei piccoli come Nicola a cui appare molto chiara l’importanza di non fermarsi all’apparenza per guardare nel profondo degli individui.

L’uomo che lucidava le stelle è un libro dai toni spiccatamente onirici e metaforici, fuori dagli schemi abituali. Anche per questo, nonostante l’impaginazione ad alta leggibilità che lo rende più fruibile e amichevole alla vista anche in caso di DSA, non risulta immediatissimo e facilissimo da seguire. Si tratta però di un libro molto suggestivo e denso, che si presta a stimolare riflessioni, interpretazioni e confronti nei bambini e nei ragazzi.