Serpenti finti e strani maghi

Eccoci in un batter d’occhio alla quarta avventura della serie Vi presento Hank e a questo punto lo spumeggiante personaggio creato da Henry Winkler e Lin Oliver può dirsi familiare non solo ai lettori della serie maggiore (Hank Zipzer il superdisastro, giunta ormai all’ottavo episodio) ma anche ai loro fratellini più piccoli che hanno da meno tempo imparato a padroneggiare la lettura. Dopo Un segnalibro in cerca di autore, Breve storia un lungo cane e Fermate quella rana!, anche i sette-ottenni appassionati di avventure divertenti potranno ormai dirsi esperti del travolgente mondo di Hank.

Cacciatosi come al solito in un guaio, il ragazzino più creativo di New York si trova questa volta a dover imparare in pochi giorni un complicatissimo numero di magia. Intenerito dal sogno della sorella Emily di avere dei serpenti alla sua festa di compleanno, Hank le promette infatti la partecipazione del famoso Mago di Manhattan che potrà esaudire con i suoi poteri il suo bizzarro desiderio. Peccato che il Mago di Manhattan non esista e che Hank debba  trovare il modo di non farlo scoprire alla sorella.

Meno incentrato dei precedenti episodi sulle difficoltà scolastiche di Hank legate alla sua forte dislessia,  Serpenti finti e strani maghi  non manca di dare spazio e rilievo alla straordinaria inventiva del protagonista, qui insolitamente colto nel suo lato tenero di fratellone. Stampata come sempre ad alta leggibilità – con carattere che aiuta a confondere meno le lettere, spaziatura maggiore, sbandieratura a destra, carta color crema e grandi disegni – quest’ultima avventura è godibile e leggera: un buon incentivo alla lettura anche per chi fatica un po’ di più a far suo un testo.

Il nido

Steve ha 12 anni, una famiglia abbastanza normale, una babysitter esperta di insetti e una certa difficoltà a vivere con serenità le piccole difficoltà quotidiane. È un bambino “molto sensibile!”, Steve – così lo definiscono i genitori – un bambino con piccole ossessioni e il bisogno di contenere le ansie ripetendo delle liste e affidandosi a personalissimi rituali. Data la situazione di partenza, l’arrivo di un fratellino – Theo – con una patologia non definita che lo rende fragile e diverso, non contribuisce a rasserenare il protagonista. Dopo essere stato punto da uno strano tipo di vespa cui peraltro è allergico, questi inizia infatti a fare strani sogni in cui dialoga con la regina e in cui progetta una soluzione per i problemi di Theo. L’idea di ritrovarsi con un fratellino normale, e anzi perfetto, dapprima lo affascina e tranquillizza ma quando capisce in cosa consiste l’inquietante piano della vespa i suoi pensieri accelerano e il suo diventa un percorso di accettazione della diversità tormentato in cui spendersi e rischiare in prima persona.

Il libro di Kenneth Oppel è tutt’altro che usuale e rassicurante. L’intreccio tra reale o onirico in cui lascia sospeso il lettore, stimola, interroga e spiazza  quest’ultimo. Forte di questo doppio piano narrativo, mai nettamente definito, Il nido affronta il tema della diversità da un’angolatura insolita e proprio per questo illuminante. Senza che il protagonista sia in prima persona toccato dall’imperfezione causata da una malattia o da una disabilità, questa trova un posto preminente nella narrazione attraverso il tormentato percorso del bambino. Non ci sono moralismi spicci o lunghi discorsi sul tema, tra queste pagine,  e questo fa sì che la messa in discussione di  un’idea di perfezione auspicabile a tutti i costi, non puzzi di retorico o artificioso. Sono i sogni, le decisioni riviste, le azioni e le relazioni di Steve a portarci a riflettere, supportati in maniera puntualissima dalle illustrazioni in bianco e nero di Jon Klassen che fanno del loro caratteristico gioco di ombre, spessori e inquadrature distorte la lente perfetta per mettere a fuoco un racconto così suggestivo.

One

Grace e Tippi portano i nomi di due muse del cinema hitchcockiano, il che – come loro stesse notano – ha un che di ironico se si considera il lato innegabilmente inquietante del loro aspetto. Gemelle siamesi, le due ragazze condividono il corpo dall’intestino in giù, sfidando ogni santo giorno la curiosità morbosa e la maleducazione malcelata della gente,  che si scatenano di fronte a una diversità tanto marcata. Abituate  a una quotidianità  che richiede sincronia e sostegno reciproco, Grace e Tippi si trovano dall’oggi al domani a dover rinunciare alle lezioni private e frequentare una scuola vera e propria. Servirà loro una dosa massiccia di pazienza e di coraggio per far fronte agli sguardi stupiti, alle domande sfacciate e ai gesti scortesi che frotte di coetanei riverseranno loro addosso. Ma Grace e Tippi sono ben allenate a far fronte a tutto questo, al punto che quando dalla massa di studenti emergono Jon e Yasmeen, due amici disposti ad accogliere le due ragazze per come sono, senza troppe domande o condizioni, queste non possono credere ai loro occhi. Sarà invece un’amicizia stramba e schietta quella che legherà i quattro ragazzi, anche e soprattutto quando le cose si metteranno male, quanto a quattrini e salute.

È in particolare la voce di Grace, la più timida e fragile delle due gemelle, a portare il lettore dentro questo momento di svolta, mettendolo a parte del contemporaneo incontro con Jon e Yasmeen, dell’affetto smisurato per la sorellina Drago, del rapporto con un padre caduto nella trappola dell’alcolismo e con una madre travolta dal lavoro, dell’improvvisa necessità di valutare l’ipotesi di un’operazione separante e di un contratto televisivo per racimolare denaro. Attraverso la sua voce si delinea il versante emotivo di una vita a due gambe e quattro braccia, nella quale l’intimità e la dipendenza dall’altro diventano parte integrante di sé, nonostante i limiti che impone. Il racconto di due che sono uno e di uno che è due, in una dualità dinamica e sfuggente, procede come una poesia: forma che ne accentua il carattere intenso e coinvolgente.

Malgrado la vicenda scorra veloce e il tratteggio dei personaggi non risulti molto approfondito, One appare come un libro forte e di stacco, un libro che smuove qualcosa dentro il lettore costringendolo a chiedersi quanto potrebbe somigliare alle persone che circondano le protagoniste, con il loro carico di pregiudizi e crudeltà più o meno consapevoli, e a interrogarsi sulla sua reale capacità di comprendere e accettare una concezione della vita e dell’ identità probabilmente distante dalla propria.

La piccola aliena del pianeta 1p36

La storia della piccola aliena del pianeta 1p36 è, come dichiara la copertina del libro edito da Homeless Book, “una favola per siblings, genitori, educatori”: una narrazione intima in forma fiabesca che offre rispecchiamento e conforto a chi quotidianamente si confronta con le difficoltà implicate da un’anomalia cromosomica come quella della sindrome da delezione 1p36.

Nel racconto di Roberta Zoli, mamma coraggiosa e affettuosa di Francesca che è la protagonista del libri, molti dei sintomi che contraddistinguono la sindrome da cui è affetta la figlia vengono presentati come mostriciattoli dispettosi che rendono difficoltose anche le operazioni e le attività quotidiane più comuni. Dopo aver invaso il pianeta dove serenamente vivevano tutti i bimbi come Francesca, i mostriciattoli hanno seguito le malcapitate vittime anche nel loro trasloco sul pianeta Terra, complicando le loro funzioni cardiache, le loro abilità motorie di base, le loro percezioni sensoriali e le loro capacità cognitive. L’affetto dei familiari e l’operato dei dottori, che su questo nuovo pianeta abitano, però, offre a Francesca (e con lei a chi racconta e legge la storia) la fiducia di poter un giorno sconfiggere quelle bestiacce.

Senza pretese letterarie ma con una forte valenza umana e personale, La piccola aliena del pianeta 1p36 dà voce a un dolore e a una speranza che accomuna tanti bambini e soprattutto con disabilità, qualunque sia il pianeta da cui provengono.

Betta suona qui!

Elisabetta detta Betta ha sei anni e ha rispettivamente: una finta amica del cuore imposta dai genitori, che si chiama Celeste e che lei detesta, e una vera amica del cuore, conosciuta alla nuova scuola elementare, che si chiama Elisabetta detta Betti. Betta ha anche un fratellino più piccolo, che ha quattro anni e si chiama Marcello detto Momo. Momo ha delle abitudini e dei comportamenti bizzarri – odia quando i cibi di colori diversi si toccano, per esempio, o corre facendo l’aeroplano per calmarsi – e forse anche per questo Betta è molto premurosa nei suoi confronti e detesta le prese in giro che invece Celeste gli rivolge. Così, quando arriva il momento della prima lezione di musica a cui Betta contava di prendere parte insieme a Betti ma che per colpa delle mamme vede partecipare anche Celeste, tutto sembra votato al peggio. E invece succede qualcosa di inatteso: con il suo modo insolito di fare le cose e di distaccarsi da tutto quando la situazione si fa troppo caotica, Momo finisce per mostrare un suo sopito talento che con leggerezza trasforma la tensione in condivisione.

La scrittura di Gigliola Alvisi è pulita e leggera, sa di buono e non di buonista. È una scrittura che sa dire che l’amicizia può avere tante sfumature, che i sentimenti dei bambini possono essere tutt’altro che a tinte pastello e che la diversità può rivelare sorprese inaspettate. L’avevamo scoperto in Piccolissimo me, grazie soprattutto al personaggio di Michelangelo e lo ritroviamo qui, grazie soprattutto al tenero personaggio di Momo. Che Momo possa mostrare dei tratti autistici lo intuiamo noi e lo  possono cogliere forse anche i giovani lettori che abbiano un ‘esperienza diretta in tal senso, ma non è ciò che davvero conta e ciò che probabilmente sta a cuore all’autrice. Quel che, in effetti, ha davvero peso in Betta suona qui! sono i sentimenti positivi e negativi che la diversità accende e la straordinarietà dei piccoli eventi che possono tramutare i secondi nei primi. Su questo aspetto in particolare tiene alta l’attenzione questo volumetto smilzo ma vivo, che si presta bene sia ad una lettura autonoma sia a una lettura ad alta voce.

Un’ultima notazione: le storie che raccontano in maniera concreta e abbordabile la disabilità sono spesso racchiuse in albi illustrati e romanzi. Molto meno frequenti invece i racconti brevi e a misura di lettori alle prime armi. Anche per questa ragione Betta suona qui! – che presenta un numero contenuto di pagine, un  testo in stampatello maiuscolo  schietto e familiare e illustrazioni colorate e frequenti – va a collocarsi in uno spazio perlopiù lacunoso e merita quindi un’attenzione supplementare.

La lega degli Autodafè – Mia sorella è una guerriera artistica

Veste nuova, stessa tensione narrativa: il secondo capitolo della saga de La Lega degli autodafé scritta da Marine Carteron e pubblicata in Italia da Uovonero esce con una copertina dallo stile molto più accattivante e aderente allo spirito del romanzo che conferma dal canto suo  la capacità dell’autrice di  catturare il lettore e renderlo profondamente partecipe delle avventure dei protagonisti.

Questi – il giovane Gus e sua sorella Césarine in particolare – proseguono la pericolosissima missione iniziata nel primo episodio (Mio fratello è un custode) che li vede intenti a contrastare l’azione della Lega degli Autodafé per preservare la conoscenza e il sapere contenuto nei libri. A complicare il loro compito concorrono non solo i gravi lutti famigliari subiti nelle pagine precedenti ma anche la situazione di coma in cui versa la mamma, il braccialetto elettronico che Gus è obbligato a portare e che ne limita la libertà di azione e la spietatezza degli avversari, guidati dalla famiglia Montagues. È proprio presso la dimora di quest’ultima che i ragazzi scoprono, con l’aiuto del piccolo Bart ribellatosi al piano diabolico dei suoi congiunti, uno scanner speciale che fa tutt’altro che copiare le pagine dei libri. A quel punto diventa fondamentale per loro carpirne i segreti e impedirne l’utilizzo, prima che la Lega possa impiegarlo per portare a termine il suo folle disegno distruttivo. Al contempo però c’è una fuga da imbastire, una mamma da liberare, delle arti marziali da imparare e un tesoro da mettere in salvo. Facile immaginare come in una tale situazione l’impulsività ribelle e coraggiosa di un adolescente come Gus possa costituire un’arma a doppio taglio che per un soffio può passare dal rivelarsi risolutiva al causare grossi guai. E se è vero che l’impegno appassionato e talvolta dissennato di Bart, Gus e Néné, unito alla lucida metodicità di Césarine e all’esperienza di Marc de Virgy, permette un temporaneo ripiegamento della Confraternita ai Caraibi, è altrettanto vero che si tratta di un passaggio intermedio e che per arrivare a una vera conclusione della lotta con gli Autodafé occorrerà attendere il volume Siamo tutti dei propagatori.

In attesa di questo terzo e ultimo episodio della saga, Mia sorella è una guerriera artistica prosegue il dipanamento dell’intricata matassa narrativa che vede da secoli invischiati la Lega e la Confraternita e aiuta a mettere a fuoco relazioni e caratteri, arrotondando e restituendo maggiore pienezza psicologia ai protagonisti. Ne emergono dettagli inattesi sul passato di personaggi solo apparentemente marginali come la nonna materna di Gus e Césarine, battaglie emotive in cui è facile per un adolescente rispecchiarsi, come quelle che travolgono il giovane Gus e percorsi di crescita e consapevolezza, anche dei propri sentimenti, come quelli che riguardano Césarine. Sempre dipinta in quel suo modo particolare di guardare il mondo, di essere estremamente pragmatica e logica ma al contempo di provare emozioni a cui forse è soprattutto difficile dare un nome, la piccola di casa non smette di far sorridere il lettore e di offrirgli spunti interessanti di riflessione, quando dà irresistibilmente voce al racconto della storia.

Supersorda

Supersorda è un racconto a fumetti, dallo stile buffo e dal tono estremamente ironico, in cui l’autrice statunitense si rifà alla sua personale esperienza di bambina divenuta improvvisamente sorda a causa di una malattia e al percorso di integrazione cui questo episodio l’ha portata. Lo fa costruendo un mondo in cui la protagonista – che non a caso si chiama proprio Cece – e chi la circonda assumono le sembianze di simpatici conigli, collocati in un mondo perfettamente umanizzato.

Lungo le oltre 240 pagine di questo romanzo a fumetti, colorate e divertenti, si legge di una bambina come tante che si ritrova a dover fare i conti con una forma di diversità invisibile e insieme ingombrante. L’enorme orecchio fonico che Cece è costretta a portare con sé con non poco imbarazzo diventerà nelle sue fantasie di bambina il simbolo di un superpotere che sì la distingue, ma in positivo. Grazie all’apparecchio, Cece riesce infatti a sentire cose che gli altri non sentono (come la maestra quando è in pausa o persino alla toilette) e a conquistare così l’ammirazione dei compagni. Ma quello verso l’accettazione di sé, base imprescindibile anche per l’accettazione degli altri, è per la bambina un vero percorso a ostacoli, in cui le difficoltà non sono celate. Sono difficoltà piccole e grandi, dettate dal sentirsi inadeguate, dall’avvertire costantemente il curioso sguardo altrui sopra di sé, dal non riuscire, banalmente, a vivere a pieno un pigiama party in cui ci si scambi confidenze a luce spenta.

Grazie a una narrazione che parte da un vissuto e che fa leva su un’autoironia straordinaria, Supersorda riesce a far conoscere al lettore un personaggio fuori dal comune ma vicinissimo nei sentimenti, ad appassionarlo e a farlo ridere con una storia in cui la positività è la chiave del successo e a rendere la sordità una differenza più facile da comprendere e forse approcciare.

L’alfabeto di Zoe

Zoe non vede mai il lato ovvio delle cose. È proprio così che si presenta la protagonista del romanzo di Fabio Stassi, mettendo in evidenza quel suo modo tutto particolare di guardare le cose: un modo tanto insolito quanto prezioso, a dirla tutta, se è vero che proprio grazie ad esso la ragazzina riesce a rovesciare il piano del Re degli Specchi, a liberare i suoi concittadini da uno spietato furto di ricordi e a sovvertire il processo di sostituzione dei genitori con dei robot. Lo farà quasi totalmente da sola, sfidando con coraggio i suoi limiti, soprattutto legati ai numeri e alle lettere.

L’alfabeto di Zoe è quello che scandisce i singoli capitoli, individuando per ciascuno una parola chiave ma anche quello che la bambina vorrebbe inventare: un alfabeto “con il quale non si possa barare. Che ti faccia toccare quello che si scrive”. Perché in fondo, la vera protagonista e il vero motore di questa storia è proprio la difficoltà che Zoe sperimenta di fronte alle parole, il senso di malessere che queste le innescano e le strategia di fuga che il suo cervello mette in atto. E se la trama del romanzo è forse un po’ debole, questo riesce però ad offrire un ritratto lucidissimo e illuminante di ciò che accade nella testa, e di riflesso nell’intero corpo, di un ragazzo colpito da gravi disturbi specifici dell’apprendimento.

L’attenzione che l’autore vi dedica permette infatti al lettore di sentirsi come fisicamente calato nel cervello della protagonista, cogliendone i forti turbamenti ma anche le enormi potenzialità. E qui egli uscirà in qualche modo arricchito, oltre che convinto che se le tabelline fossero alla maniera di Zoe, per cui “otto per otto fa due bassotti, più quattro divani letto e una rotella di liquirizia”, il mondo sarebbe forse meno preciso ma senz’altro più leggero.

Le parole che non riesco a dire

Agli adulti, lettori di Se ti abbraccio non avere paura, Andrea Antonello è noto. Protagonista del romanzo scritto da Fulvio Ervas in cui si narra del suo viaggio in motocicletta in compagnia del padre, Andrea è invece sconosciuto ai lettori più piccoli. E quindi si presenta. Le parole che non riesco a dire è infatti un albo in cui il ragazzo, ormai ventiquattrenne, racconta gli aspetti essenziali della sua vita: sé stesso, le sue emozioni e il suo rapporto con gli altri. Lo fa alla sua maniera, con pochissime parole messe insieme in una forma talvolta bizzarra ma capacissima di rendere la complessità di sentimenti e pensieri che vi sta dietro.

Il volume presenta per ogni micro-argomento un paragrafo scritto dall’autore e un commento ad esso ispirato che offre consigli pratici su come rapportarsi positivamente con una persona affetta da sindrome autistica. Il risultato è da un lato un’immersione nella testa di Andrea, che aiuta a spazzare via una serie di pregiudizi sulla vuotezza emotiva e psichica dei ragazzi con autismo, e dall’altro un piccolo compendio divulgativo, a misura di bambino, su come costruire ponti che ci uniscano a chi “pensa strano”, appare “speciale, difficile” ma anche “divertente”. E se è vero che un libro come questo nasce forse a tavolino, in virtù e del successo editoriale riscosso dal volume che ha visto Andrea protagonista, non si può negare che abbia un significato, un’ originalità e una spendibilità che vale la pena esplorare e condividere con i piccoli lettori, spesso incuriositi ma anche intimoriti da compagni con cui non sappiano bene come rapportarsi.

Molto non è poco

Gulliver è un elefantino che sembra grande ma è piccolo, per questo tutto ciò che fa appare goffo. Se ride, ride molto forte; se corre, corre molto sghembo; se si arrabbia, si arrabbia in modo molto spaventoso. Da qui il soprannome Molto e l’insofferenza del branco nei confronti dei suoi modi molto poco consueti. Per il branco, infatti, molto è spesso sinonimo di troppo. Così quando Molto si allontana dal branco in balia del fiume e incontra la piccola Poco, una bambina goffa come lui, finisce per trovarsi molto più a suo agio che a casa. I due diventano grandi amici: le loro diversità, in qualche modo sono simili ma soprattutto ciascuno di loro riesce a riconoscere il valore dell’altro dietro l’apparente imperfezione. E quando il branco, resosi conto della mancanza di Molto, infine lo raggiunge, i due si salutano con la tristezza di chi sa di lasciare un amico vero ma con la consapevolezza di serbarne doni preziosi.

La storia, scritta da Sabina Colloredo e illustrata da Marco Brancato, nasce con l’intento di dare voce e rappresentazione a una sindrome poco nota, quella di Sotos: una forma di gigantismo che implica una crescita eccessiva durante l’infanzia accompagnata da ritardo nell’apprendimento. L’abilità e la sensibilità degli autori è però tale che ciò che arriva al lettore è una storia dal respiro molto più ampio: il racconto di una diversità prima allontanata e poi accolta, di una differenza che in definitiva arricchisce, di una mancanza esteriore (comune peraltro a molte forme di disabilità) che non corrisponde però affatto a una mancanza interiore.

Mallko e papà

Attendevamo la pubblicazione in italiano di Mallko e papà con grandissima trepidazione. Vincitore del Bologna Ragazzi Award for disabilities 2016, il libro di Gusti prometteva una possibilità straordinaria di incontro sorprendente con la disabilità. E la promessa è stata mantenuta: il libro, in cui l’autore argentino racconta la sua esperienza di papà di Mallko, bimbo con la sindrome di Down, è sconvolgente, nel senso più stretto del termine, perché crea scompiglio e smuove profondamente i sentimenti. Lo fa con la potenza di un racconto che non si prefigge quello scopo ma che nasce dal desiderio di esprimere e condividere un vissuto. Così, le dense pagine volume sembrano aprire le porte di una casa, accogliere dentro una quotidianità palpitante, mettere a parte di una storia fatta di gesti minimi e indispensabili. Costruito per frammenti, ricordi, riflessioni e appunti Mallko e papà è insolito e originale fin dalla forma: come un puzzle multiforme, il libro mette insieme schizzi, scritti, foto, vignette che offrono un ritratto insieme immediato e ponderato di una paternità diversa da quella che l’autore si era immaginato. Apparentemente scomposti, i pezzi che Gusti assembla delineano in realtà un filo narrativo ben preciso che porta dalla nascita di Mallko, con tutto il carico di domande e tormenti che questa reca con sé, alla sua serena e completa accettazione come un regalo speciale. “Accettare – conclude infatti l’autore – è ricevere volontariamente e con piacere quello che la vita ci offre”.

Lo attendevamo come un dono, Mallko e papà, e come un dono lo abbiamo pesato, sfogliato, letto, riletto e fatto sedimentare. Ci siamo lasciati tirare dentro fino al collo, commossi o sinceramente divertiti. Ma ci siamo anche soffermati sulla soglia di certe pagine, tanto intimo e personale era il loro contenuto. Ne siamo infine usciti colmi di pensieri e di gioia. Per questo sarebbe bello che la storia di Mallko e del suo papà potesse entrare in tante librerie e che potesse raggiungere tante mani, tanti occhi e tante orecchie: difficile dire in che modo, a quale età, con quali tempi, quel che è certo è che difficilmente un lettore ne resterebbe indifferente.

Le lettere danzanti

Enrico è un bambino come tanti: grande sognatore, appassionato lettore di albi, giocatore socievole e abile disegnatore. Una cosa soltanto lo distingue in negativo dai compagni: un brutto rapporto con le parole che, quando sono stampate su carta, lo confondono e intimoriscono. L’abitudine delle lettere a danzare, con effetti nefasti sulla lettura, si chiama dislessia ma questa parola nel libro di Henk Linskens non compare che nel titolo: il protagonista non è forse al corrente del suo disturbo (i genitori stessi si limitano dal canto loro a dirgli di prestare maggiore attenzione a scuola) o preferisce dare rilievo ai sentimenti più che alle etichette. Nel breve racconto della sua esperienza Enrico dà spazio, infatti, al disagio che i testi complessi gli portano, alla soddisfazione che ambiti alternativi alla lettura gli offrono e alla serenità che la condivisione del suo difetto con personaggi come Picasso gli dona.

E in questo dare voce a un’interiorità tormentata assumono un’importante ruolo proprio le immagini tanto amate dal protagonista. Sono queste infatti a valorizzare la sua fervida immaginazione, a strizzare l’occhio al lettore con richiami a diversi personaggi dislessici del mondo sportivo, storico e artistico e a garantire il giusto spazio, anche grafico, a quella insidiosa domanda: “Perché non riesco a leggere e scrivere come gli altri?”. Per questo, anche se l’intento di Hank Linskens è piuttosto didattico e volto a trasmettere l’esplicito messaggio che chi è dislessico ha sempre altre qualità da scoprire e far scoprire, il suo albo costituisce una lettura piacevole ed empatica, oltre che accessibile in virtù del ricorso alla font OpenDyslexic.

Super Tommy cresce

Supertommy è un bambino con dei superpoteri: dorme, mangia, parla e corre da solo. Mica roba da ridere! Per riuscire ad affinare queste abilità il bambino ha dovuto superare prove impegnative e affrontare fasi della vita tutt’altro che banali. Così, per esempio, “prima di nascere dormiva nella pancia”, “Appena nato dormiva nella culla”, “Poi nel letto di mamma e papà”. Ma un supereroe dorme da solo… e sogna in grande!, e questo è solo il primo dei suoi tanti segreti.

Contraddistinto da una grafica accattivante, pulita e moderna, Supertommy cresce è scandito da un ritmo ricorrente basato sul prima di nascereappena natopoi, che aiuta il piccolo lettore a individuare e riconoscere le diverse tappe di crescita che anche lui ha affrontato o sta affrontando.

L’aspetto particolarmente interessante di questo libro è la maniera in cui inserisce la disabilità all’interno di una discorso più ampio e generale, riuscendo a darvi un rilievo che non sfocia in un focus esclusivo. Solo dopo aver esplorato i diversi aspetti e le diverse tappe della crescita del protagonista, il libro sottolinea che ogni bambino ha la sua storia e i suoi superpoteri: non tutti quindi sono tenuti ad affrontare le stesse tappe o raggiungere gli stessi traguardi, ma soprattutto ciascuno affina il proprio superpotere nella sua persona maniera. Muoversi su Super-ruote, citato come esempio, diventa così una conquista dalla dignità equivalente al tenersi in equilibrio da soli e correre più veloce della luce.

Mattia ha un nuovo amico

Nella classe di Mattia è arrivato un nuovo bambino. Si chiama Marco e usa una sedia a rotelle perché le sue gambe non funzionano bene. Mattia e Marco si incontrano, si conoscono e condividono piccoli momenti tipici della scuola dell’infanzia – fare merenda, giocare, andare in  bagno, disegnare, sistemare i giocattoli – ed è proprio attraverso quei momenti che i due finiscono la giornata con un amico in più per ciascuno.

Con una semplicità e un’ingenuità che sanno proprio di infanzia – quella per cui si può essere grandi amici dopo un solo giorno, si può salvare un disegno strappato con degli adesivi colorati o si può fare la pipì fianco a fianco –  Liesbet Slegers racconta una storia piccola piccola ma tutto sommato importante.  Perché in essa è facile riconoscersi quando si è piccini; perché si concentra sulle cose di ogni giorno senza strafare o idealizzare e perché asseconda il pensiero-bambino tanto nella positiva socievolezza quanto nella schietta curiosità. La domanda diretta di Mattia con cui si apre il libro – “Perché stai seduto lì?” – potrebbe infatti inaugurare un incontro reale con un nuovo compagno con disabilità e lascia intendere l’intento non buonista ma benevolo dell’autrice di assecondare gli interrogativi che la diversità naturalmente suscita nei bambini.

Solo la risposta data da Marco (“Le mie gambe non funzionano bene. Questa sedia mi permette di spostarmi quando sono stanco”) ha una suono un po’ adulto che un poco stona, dietro il quale si intravede però  il complesso  tentativo di condensare in pochissime e chiare parole una spiegazione necessaria e preziosa. Tant’è che non troppo vi si bada, alla fine, coinvolti dai quadri comunicativi messi a punto dall’autrice, dai testi misurati che scandiscono le pagine e dalle illustrazioni  vivaci che animano la lettura. Tenendo conto, inoltre, che Mattia è il protagonista di una serie piuttosto diffusa per la prima infanzia, con oltre 10 titoli dedicati a diverse situazioni familiari al pubblico di riferimento, Mattia ha un nuovo amico ha anche il merito di inserire la disabilità in un racconto quotidiano più ampio in cui compaiono il viaggio in treno, la biblioteca, l’aiuto al papà e via dicendo, restituendole una dimensione più comprensibile e accettabile.

Jean il sordo

Jean il sordo è un fumetto dedicato alla figura di un giovane orfano francese del ‘700 attraverso la cui vita si delinea una sintetica storia dell’educazione delle persone sorde. Il protagonista è infatti colpito da disabilità uditiva e vive questa sua condizione con grande sofferenza: nel suo lavoro di falegname, per esempio, viene discriminato nonostante l’evidente talento e le sue relazioni interpersonali vengono ostacolate dalle difficoltà comunicative che la disabilità gli impone. Sono alcuni incontri particolarmente felici – come quello con Pierre Desloges – a offrigli le occasioni e gli strumenti necessari per prendere coscienza delle sue capacità e farle valere all’interno di una società in cui i sordi erano tendenzialmente destinati alla mendicanza. In questo modo, attraverso le vicende di un personaggio inventato, presentate con un genere accattivante come il fumetto, gli autori mettono in luce alcuni momenti storici particolarmente importanti per il progresso della cultura dell’inclusione. Emergono con particolare forza le figure della abate De l’Èpée, che dà vita alla prima forma di francese segnato e cura l’alfabetizzazione di molti giovani sordi, o di Pierre Desloges, che difende con forza il ruolo della lingua dei segni per la comunicazione e la socializzazione delle persone sorde.

Quello dedicato a Jean il sordo è un fumetto messo a punto dalla cooperativa romana Il treno, specializzata nella produzione di materiali e strumenti dedicati al mondo della disabilità uditiva. Molto curato nei riferimenti storici e nell’attenzione alla resa, all’interno dei fumetti, dei segni  con cui si esprimono i personaggi, il libro risulta particolarmente (ma tutt’altro che esclusivamente) fruibile ed apprezzabile da chi già padroneggi almeno un’infarinatura degli episodi storici cui si fa riferimento. Tutti gli altri possono senz’altro beneficiare dell’appendice che racconta in maniera dettagliata la biografia e il  dei personaggi coinvolti e che si sofferma su alcuni elementi di contestualizzazione storica, di particolare interesse per un pubblico adulto o per un utilizzo scolastico. Il fumetto, di cui è possibile visualizzare un’anteprima qui, trova infine un seguito in un lavoro, a cura dei medesimi autori, intitolato La figlia di Jean.

Il pezzettino in più

È un fatto che negli ultimi anni i siblings, ossia i fratelli di persone con disabilità, siano riusciti a ricavarsi piccoli spazi di rappresentazione anche nella letteratura per ragazzi. Lo dimostrano ad esempio lavori significativi come Mio fratello Simple, Niente giochi nell’acquario o, pensando ai più piccoli, Mia sorella è un quadrifoglio. Sono spazi importanti perché danno voce a una complessità emotiva che agita tanti bambini e ragazzi e che sa restituire una visione della disabilità da una prospettiva privilegiata. Con il libro di Cristina Sànchez-Andrade questo collage di esperienze narrative si arricchisce – è il caso di dirlo – di un pezzettino in più.

Protagonista della storia è Manuelita, il cui pezzettino in più cui allude il titolo è il 47° cromosoma che ne determina la sindrome di Down.  Manuelita ha una sorella, Lucia, che è più piccola ma sembra e viene da tutti trattata come la più grande e che vive il rapporto fraterno con tutte le contraddizioni del caso. È lei a chiedere alla mamma – ancora e ancora – di raccontarle di quella volta in cui Manuelita è scappata di casa e in cui lei l’ha salvata dai “bambini-corvo”. Così, mentre la torta al cioccolato e alle noci prende forma, la mamma ripercorre la storia delle due sorelle, mettendone a parte il lettore. È una storia fatta di episodi piccoli piccoli e di momenti salienti: come quando Lucia viene portata a casa la prima volta o quando Manuelita mette la sua bambola nel forno, come quando Manuelita viene derisa dai bambini al parco o quando le due sorelle condividono lo speciale momento prima di dormire fatto di peti, tette e risate soffocate. Ben visibili, in questo susseguirsi di episodi felici e infelici, sono i sentimenti contrastanti che animano la famiglia. Tra le marachelle delle due bambine, trovano posto, infatti, la forza e le debolezze dei genitori, avvolti talvolta di nuvole di pensieri ma capaci di dare risposte importanti e di sdrammatizzare (“No, quel pezzettino non si può togliere. – dice un giorno il papà a Lucia – E’ per quello che Manuelita ha un altro modo di imparare e vedere il mondo. Ma ti dirò cosa farò. Darò un bacio a Manuelita e nessuno si azzarderà a prendersela con una bambina che è stata baciata da un papà calvo come me”), la stramberia del nonno che beve caffè ogni venti minuti e stringe un rapporto speciale con quella nipotina tanto strana quanto lui; le prese in giro dei bambini che sanno essere malvagi; le difficoltà di Manuelita ad apprendere le cose e la sua passione per cambiare d’abito; la paura di Lucia di diventare a sua volta diversa in quanto “sorella di…”. E proprio quest’ultima finisce per apparire al lettore come un autentico personaggio in crescita, capace di compiere un percorso accidentato di conoscenza e accettazione di sé, che evidentemente non può prescindere dalla conoscenza e dall’accettazione di chi le sta vicino.

Il libro di Cristina Sànchez-Andrade è profondo e colmo di interrogativi pesanti che non sempre, come è giusto, trovano risposta. In esso una visione rielaborata in chiave fantastica o metaforica della realtà – dove i bulli, per esempio, diventano bambini-corvo – si affianca a un racconto schietto di una quotidianità in cui sono innegabili le difficoltà di chi si trova con “un pezzettino in più” o di chi gli sta accanto. Questo rende particolarmente complesso individuare un pubblico di riferimento preciso: il volume dell’autrice catalana appare talvolta difficile per rivolgersi ai ragazzi, ma al contempo indispensabile se si intende scandagliare la diversità con coraggio, offrendo anche alle giovani orecchie l’occasione di confrontarsi con un suo ritratto tanto vero quanto complesso.

Fermate quella rana!

Le avventure di Hank Zipzer, funambolico personaggio creato da Henry Winkler e Lin Oliver, hanno ormai preso il largo, contando più di sette episodi già pubblicati in italiano. Accanto alla serie classica che vede protagonista il bambino dislessico più creativo di New York alla fine della scuola primaria, inizia a decollare anche la serie che, come una sorta di prequel destinato ai lettori più giovani, lo vede alle prese con i primi anni alla SP87. Dopo Un segnalibro in cerca di autore e Breve storia di un lungo cane, esce infatti ora, sempre per i tipi di Uovonero, il terzo capitolo (come sempre predisposto per una lettura autonoma ma ancor più gustoso se letto a seguito dei precedenti) intitolato Fermate quella rana e contraddistinto dalla consueta grafica ariosa, dalle illustrazioni a tutta pagina di Giulia Orecchia, dai capitoli brevi e dalla stampa ad alta leggibilità in carattere piuttosto grande.

La rana in questione è Fred: l’animale domestico del preside Love, lasciato in custodia alla classe di Hank, Ashley e Frankie durante un intero weekend. È Hank, in particolare, ad avere la fortuna di occuparsene dato l’inatteso feeling che dimostra di avere fin da subito con l’animale. Da parte sua ci sono le migliori intenzioni di prendersi cura del temporaneo ospite ma quando difficoltà di attenzione e memoria ci mettono lo zampino può diventare difficile fare fronte a fughe anfibie. Quando Hank dimentica di mettere il coperchio all’acquario di Fred tutti gli amici e i famigliari saranno costretti a una caccia al tesoro contro per ritrovare la preziosa bestiola. Un posto d’onore in questa nuova avventura lo guadagna senza dubbio il cane Cheerio, affettuoso quanto inaspettato compagno di giochi di Fred, capace di mostrare a suo modo come gli amici si nascondano spesso dove meno ce lo aspettiamo.

La lega degli Autodafè – Mio fratello è un custode

È un giorno come un altro quando la vita di Auguste detto Gus, quattordicenne parigino, viene improvvisamente stravolta. Succede infatti una mattina che la polizia suoni alla porta di casa per comunicare la notizia della morte del padre in un incidente stradale. Il dolore è fortissimo e il mondo del ragazzo sembra poter crollare da un momento all’altro, ma la parte più sconvolgente della faccenda deve in realtà per lui ancora venire. Quando, dopo il funerale, si trasferisce dai nonni insieme alla mamma e alla sorella, nella casa di campagna detta “la Commanderia”, Gus scopre infatti che la versione raccontata dalla polizia è menzognera e che il padre è di fatto stato assassinato. Dietro l’omicidio c’è una misteriosa storia millenaria che vede una società segreta chiamata la Lega degli Autodafé impegnata a impedire la diffusione della conoscenza attraverso la distruzione dei libri che la contengono. Il padre di Gus faceva invece parte della cosiddetta Confraternita: un gruppo di persone intente a contrastare l’attività degli Autodafè attraverso la ricerca, la custodia e la trasmissione di libri. Ora che il padre non c’è più, tocca a Gus prendere il suo posto e battersi per preservare il destino dell’umanità. Deve trovare prima degli Autodafé la cappella del tesoro e mettere in salvo il suo contenuto ma chi fa parte della Lega non ha davvero scrupoli ed è disposto a tutto pur di ottenere ciò che cerca. Per questo, per il protagonista, si tratta di una missione ad alto rischio, che vede impegnati alcuni amici nuovi e vecchi, un professore della scuola e tutti, ma proprio tutti, i membri della sua famiglia. Tra questi spicca senza dubbio la sorella più piccola Césarine che non solo assume un ruolo  determinante nella vicenda ma si fa anche, a tratti, insolita narratrice. Il suo diario intervalla infatti il racconto di Gus, offrendo al lettore dettagli nuovi e opinioni spiazzanti su quanto accade.

Mio fratello è un custode è il primo volume di una trilogia intitolata La lega degli Autodafè e scritta dall’autrice francese Marine Carteron. La missione che il papà di Gus gli ha lasciato in eredità non si conclude infatti a pagina 302 ma promette di proseguire nei successivi episodi. E non stentiamo a credere che i lettori di questa prima avventura attendano con trepidazione la pubblicazione delle seguenti, affascinati da un mistero che ha attraversato i secoli, da un protagonista molto umano con molti pregi ma anche difetti, e da un personaggio apparentemente secondario ma in realtà travolgente come Césarine. Il libro sa amalgamare un mistero che attraversa i secoli risalendo addirittura ad Alessandro Magno e una contemporaneissima ambientazione in cui pullulano riferimenti al mondo (dagli accessori alla tecnologia, dai programmi tv alle letture) di un adolescente d’oggi. Animato da personaggi interessanti e relazioni avvincenti, il romanzo rimanda senza dilungarsi troppo a episodi storici cruciali (penso ai riferimenti al periodo fascista o alla citazione dell’’Internazionale) ed evoca narrazioni precedenti, prima fra tutte quella di Harry Potter (si pensi alla figura del giovane coraggioso pronto a sfidare la morte per compiere la missione che gli è affidata, alla figura della fenice, al rapporto con il padrino che fa le veci del padre e lo accompagna nella battaglia).

Successo editoriale d’oltralpe, il libro è stato portato in Italia da Uovonero, da sempre attenta a offrire ai giovani lettori storie capaci di raccontare la diversità (e in particolare la neurodiversità) attraverso storie appassionanti. Césarine è infatti autistica – o artistica, come ha capito Gus la prima volta che glielo hanno detto –  e il suo racconto insolito e diretto restituisce un particolare modo di vedere il mondo e di vivere le situazioni, sia quotidiane sia eccezionali. Non le piacciono i numeri fino a 22 e se le capita (spesso!) di contare li salta a piè pari, è messa a disagio dalle situazioni che non rispettano uno schema noto, ricorda dettagli con grande facilità, ama la precisione puntigliosa e interpreta alla lettera qualunque espressione mettendo in difficoltà chi non la conosce per bene. È l’”effetto Césarine”, per dirla con le parole di Gus: un effetto che disorienta e talvolta spaventa ma che fa anche sorridere e intenerire. Attiva e determinata, Césarine non è un personaggio posticcio messo lì solo per dare originalità al racconto ma un personaggio a tutto tondo che entra a capofitto nella vicenda, regalandole brividi e humour. La sua amicizia con Sara, bimba affetta da sindrome di Down, delinea un’avventura nell’avventura e mette bene in luce il lato più normale della diversità.

Un trascurabile dettaglio

Chi, come noi, è rimasto folgorato da Il pentolino di Antonino, troverà di certo più di un’eco familiare tra le pagine di Un trascurabile dettaglio. L’idea che una qualsiasi forma di diversità possa diventare un ostacolo alla socializzazione e che imparare a riconoscerla e affrontarla sia fondamentale per superarla o per viverla con maggiore serenità sta infatti alla base di entrambi gli albi illustrati. Nel lavoro di Anne-Gaëlle Balpe e Csil, in particolare, il protagonista è contraddistinto da una differenza piccolissima – un trascurabile dettaglio, per l’appunto – che assume la forma di un filo giallo ingarbugliato, impossibile da recidere.  Sempre d’impiccio e in mezzo ai piedi, questo rende il bambino ridicolo, irascibile e strano soprattutto alla presenza dei compagni che, come prevedibile, si allontanano diffidenti. Il difetto aumenta così di peso e di ingombro per il piccolo che finisce per identificarvisi annullando agli occhi suoi e di chi gli sta intorno ogni altra qualità posseduta. A nulla varranno i consulti di una moltitudine di dottori iperspecializzati: per ridimensionare il problema sarà necessario l’intervento di un adulto diverso che fa della sua esperienza personale, e dunque dell’empatia con il bambino, la chiave per riavvolgere l’ingarbugliato filo.

Caratterizzato da tratti puliti e naif, da espedienti efficaci come l’uso di carte trasparenti e da tinte pastello che modulano l’andamento emotivo della storia, Un trascurabile dettaglio combina con abilità la semplicità della storia e la complessità della rappresentazione simbolica, la serietà del messaggio e l’ironia del racconto per immagini, l’immediatezza delle figure e la ricercatezza delle inquadrature e delle sequenze.  Il formato, la grafica, i colori e lo stile sono qui infatti scelti con cura dalle autrici e donano al libro edito da Terre di Mezzo un aspetto raffinato e delizioso che facilita una serena identificazione da parte del lettore anche con disabilità. .

Il sole fra le dita

Testa calda, famiglia problematica e una certa propensione a infrangere le regole: questo è il ritratto di Dario. Almeno quello che tanti adulti dipingono concordi, guardando quel ragazzo tanto scontroso e strafottente. Una mela marcia, per dirla con due parole di cui la professoressa Delfrati fa un certo abuso. Mela marcia. Mela marcia. Mela marcia. A furia di sentirselo dire anche lo stesso Dario inizia a pensare di esserlo per davvero, e questo non aiuta certo a migliorare il suo atteggiamento. Così, all’ennesima insinuazione dell’insegnante – “Sei una mela marcia. Anche tuo padre lo sapeva. Per questo se n’è andato” -, il ragazzo sbotta e se ne va dalla classe sbattendo la porta. In questo modo si guadagna suo malgrado un periodo indeterminato di “assistenza volontaria ai portatori di handicap della scuola”, leggi: passare del tempo insieme a Andy, un ragazzo in carrozzina che fatica a parlare, mangiare, gestirsi in autonomia.

Per Dario è proprio quello che mancava per completare una vita rancorosa e insopportabile. Dopo i primi giorni di insofferenza – verso la punizione in sé in giusta e insensata, verso quel compagno forzato con cui non si può nemmeno parlare e soprattutto verso quella sua educatrice tutta moine e compassione – il ragazzo fa una bravata senza pensarci troppo: afferra la carrozzina di Andy e parte per il mare sulle tracce di quel padre che anni prima ha inspiegabilmente abbandonato lui e la madre. Quello che lo aspetta è un viaggio molto diverso da quello immaginato: un viaggio in cui fare i conti con un passato difficile da digerire, in cui scoprirsi amorevole e premuroso di fronte alla fragilità, in cui entrare senza mezze misure nel quotidiano di un coetaneo così diverso da lui  benché ugualmente solo.

L’incontro con Andy finisce quindi per aprire squarci inattesi di crescita, pensiero e scoperta per il giovane Dario, trasformando la punizione in un’autentica occasione di riscatto. Un riscatto bilaterale, a dire la verità: perché se Dario trova in Andy la chiave per guardarsi dentro e ricalibrare la sua vita, è altrettanto vero che Andy trova in Dario chi sa vedere in lui la persona prima del disabile. E se entrambi trovano nel compagno un amico inaspettato non è per buonismo o political correctness ma per effetto diretto della condivisione di attimi, avventure, divertimenti e difficoltà.

Il sole fra le dita è una lettura estiva per data di pubblicazione e atmosfere dipinte (fin dal titolo) ma meritevole di abitare scaffali, comodini, classi e divani per quattro intere stagioni all’anno. Scorrevole e ricco, il romanzo di Gabriele Clima sa parlare di ragazzi e ai ragazzi con la schiettezza e la sensibilità di chi non ha paura di frequentarli e conoscerli davvero.  Con lo stesso spirito l’autore offre inoltre una lettura rara della disabilità in cui la difficoltà non cancella necessariamente la possibilità e in cui la vita necessita di reali sfide a migliorarsi e obiettivi da raggiungere per potersi dire tale. In cosa consistano tali sfide e obiettivi in un caso come quello di Andy, spetta spesso capirlo agli assistenti e ai genitori, il cui ruolo di  educatori, per il quale competenze e qualità umane non possono che abbracciarsi, è qui reso in tutta la sua importante delicatezza.

Hank Zipzer. Tiratemi fuori dalla quarta

Mayday mayday, allarme rosso! Si avvicinano i famigerati colloqui insegnanti-genitori: incontri ad alto rischio che possono segnare il futuro degli allievi della Scuola Primaria 87, decretandone o meno il passaggio alla classe successiva. Ecco allora che Hank, il cui profitto scolastico non è dei più brillanti, deve necessariamente ingegnarsi per evitare che la signorina Adolf e i coniugi Zipzer riescano a incrociarsi. Non basta, tuttavia, fingere di dimenticare l’avviso o tentare di distruggerlo o occultarlo: qui serve un piano degno di una mente geniale, tipo vincere due biglietti per un concerto rock a Philidalphia a cui spedire  i genitori proprio il giorno del colloquio. Detto fatto! Hank si mette all’opera con una dedizione e un impegno invidiabili ma come al solito ad aspettarlo c’è una montagna russa di panico ed euforia capace di suscitare una divertita empatia  in chi legge.

Settima avventura della serie creata da Henry Winkler e Lin Oliver, Tiratemi fuori dalla quarta sfrutta un impianto e una squadra di personaggi ben consolidata e ormai familiare al lettore. Insieme ad Hank, spumeggiante protagonista bambino con difficoltà di apprendimento, trovano spazio gli amici di sempre (Ashley e Frankie) che cercano di aiutarlo a boicottare il colloquio con gli insegnanti, la solida e insolita famiglia Zipzer che rivela qui tratti inaspettati (dall’indole benevola della sorella allo spirito rockeggiante dei genitori) e il corpo docente (in particolare la ferrea signorina Adolf e la comprensiva dottoressa Berger) che offrono un’immagine in definitiva sorprendente dell’istituzione scolastica.

Tiratemi fuori dalla quarta ha inoltre il merito di mostrare come la scuola non sia per i bambini solo un anonimo luogo in cui si apprende ma il luogo principe in cui ci si confronta, in cui ci si diverte, intorno a cui ruotano la vita sociale, l’autostima, molte relazioni e il giudizio dei pari. La scuola, insomma, come piccolo microcosmo in cui si affollano ansie, emozioni e tormenti impegnativi da gestire, che possono però trovare un contenitore e una forma positiva se ben gestite dagli adulti e ben affrontate dai piccoli. “Vogliamo darti tutte le possibilità di riuscire, Hank”, è la frase significativa che pronuncia la dottoressa Berger durante il colloquio, condensando in una riga il valore di un punto di riferimento educativo che sappia accogliere le difficoltà, valorizzando le risorse di ognuno.

Martino ha le ruote

Martino ed Emma sono due compagni di scuola. Lei è una coltivatrice di storie e fa uso della parola come di un dono straordinario da non sprecare. Lui è invece un “bambino zitto” – così lo definisce esattamente Emma – un bambino che si muove con le ruote, che non si esprime parlando e che talvolta manifesta delle reazioni difficili da comprendere. Tra i due non ci sono molti contatti fino a quando Emma non trova in Martino l’ascoltatore ideale dei suoi racconti: un ascoltatore paziente, attento, rispettoso. La narrazione alimenta così un’intimità fatta di piccoli e delicati gesti. Emma, e con lei il lettore, scopre infatti che non parlare non significa necessariamente non ascoltare o non comunicare e inizia a fare delle sue storie di draghi, gatti, principesse e lupi il motore di un’amicizia tutta particolare, capace anche di sciogliere le remore dei compagni e di rivelarsi straordinariamente contagiosa.

Nato in versione bilingue (italiano e inglese) dalla collaborazione tra Corsiero Editore e Reggio Children (già sperimentata, peraltro, in occasione dell’uscita de Il pinguino senza Frac), Martino ha le ruote è un racconto delicato e poetico che dà voce a una storia vera e palpitante conosciuta da vicino dall’autrice. La vicenda di Martino che ascolta in paziente e appassionato silenzio le storie che Emma ama raccontargli prende infatti le mosse dalla quotidianità dei suoi due figli e dalla stretta e toccante relazione che tra essi si instaura. E proprio un fitto e paziente gioco di legami, sguardi e modi unici di comunicare è il fulcro di questo albo illustrato che celebra il valore della diversità e soprattutto del tempo investito per riconoscerla, accoglierla, e comprenderla. Le ruote su cui Martino si muove sono il simbolo di una circolarità che abbraccia tutti e restituisce a ciascuno un posto di pari dignità: nel cerchio tutti i punti sono diversi ma, distando egualmente dal centro, acquistano infatti il medesimo valore. Ma servono parole sedimentate e immagini magistrali per rendere a fondo tutto ciò, ragion per cui il lavoro di Annalisa Rabitti e Sonia Maria Luce Possentini costituisce davvero un piccolo dono aggraziato messo nelle mani del lettore.

 

Piccolissimo me

Con un attacco fulminante che senza mezzi termini introduce al nocciolo della questione (che disastro, esser piccolissimi di statura!) e scalda la lettura (che sia individuale o ad alta voce!), Piccolissimo me si presenta ai lettori come un romanzo delizioso e fragrante. Protagonista è un bambino il cui nome è inversamente proporzionale all’altezza: Michelangelo è infatti bassissimo e per questo viene sovente preso in giro dai compagni e preferisce alle giornate in compagnia dei pari la solitudine della campagna. Qui trascorre le vacanze estive insieme ai nonni e conosce una bizzarra signora americana che crea cappelli mirabolanti. Ma qui ha anche modo di riflettere e mettere il lettore a parte dei suoi crucci su una crescita che sembra averlo dimenticato e su due genitori altissimi che sottovalutano piè pari le sue difficoltà. Sarà un intervento del tutto inaspettato a dare speranza ai suoi pensieri, capaci così finalmente di coprirsi di colori e fantasia in luogo di nubi minacciose.

Vincitore del premio Il Battello a Vapore 2015, Piccolissimo me nasce con l’intento di dare visibilità alle difficoltà e alle risorse a disposizione dei bambini colpiti da deficit dell’ormone della crescita (da qui il senso della collaborazione con l’A.Fa.D.O.C per la sua stesura), ma l’autrice Gigliola Alvisi lo confeziona con tanta cura e capacità narrativa che ciò che resta prima di tutto impresso nella mente del lettore sono i suoi personaggi deliziosi e dall’aspetto familiare, l’eccentrica figura della signora dai magnifici cappelli e quell’atmosfera placida estiva che l’autrice restituisce nei paesaggi e nei pensieri di chi li vive e li anima. Complici della penna abile di Gigliola Alvisi, le illustrazioni freschissime di Antongionata Farrari.

Ci si sente quindi prima di tutto rilassati tra queste pagine che profumano di campagna; poi vicini ai sentimenti di inadeguatezza di Michelangelo che, al di là della questione dell’altezza, sono propri di molte infanzie; e infine colpiti da quella folgorante rivelazione di nonno Nini, secondo cui ogni bambino, discostandosi inevitabilmente dall’idea di figlio che un genitore si fa, finisce in fondo per essere la più grande delle rivoluzioni.

Melody

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Trascorrere i primi 11 anni della propria vita senza poter esprimere una sola parola: questa è la dura, durissima, esperienza di Melody, costretta in sedia a rotelle e al silenzio perenne da una tetraplegia spastica. Ma a dispetto delle apparenze, il suo cervello funziona alla grande e le parole animano prepotentemente la sua vita interiore. Non tutti sono in grado di accorgersene, tuttavia – specialisti e insegnanti in primis – ed è solo grazie alla tenacia, alla pazienza e alla fiducia dimostrate dai genitori e da un’affettuosissima vicina di casa che Melody può tenersi al passo con l’apprendimento dei coetanei e maturare come qualunque preadolescente, sviluppando gusti estetici, letterari, musicali quant’altro. Ed è l’arrivo di un facilitatore della comunicazione che rivoluziona davvero la sua vita consentendole da un certo punto del racconto in poi di relazionarsi con chi le sta intorno, di partecipare attivamente alle lezioni scolastiche e di dimostrare di poter far parte della squadra che parteciperà a The Annual Whiz Kids Quiz Competition. Piccole grandi conquiste – come poter esprimere sentimenti, tessere amicizie e dimostrare le proprie capacità – segnano da quel momento la vita di Melody, senza risparmiarle tuttavia le conseguenze di un’ignoranza e di pregiudizi ben radicati che molto, troppo spesso circondano l’handicap.

Dentro Melody si percepisce tutta la sensibilità e l’esperienza personale di Sharon Draper, autrice, insegnante e mamma. La scrittrice americana riesce infatti a far risuonare nell’espressione computerizzata della protagonista la voce di tanti bambini e ragazzi reali che cercano ogni giorno un modo di riscattarsi ed esprimersi. Melody racconta con una lucidità e un’emozione rare la difficoltà di relazionarsi con il mondo quando la parola viene a mancare, la gioia di dare finalmente voce a un ricchissimo pensiero e la frustrazione di vedere la propria disabilità non circoscritta ad alcuni aspetti – nel caso della protagonista il movimento e la parola – ma automaticamente estesa all’intero funzionamento umano. La forza di questo romanzo, toccante, coinvolgente e ben scritto, sta proprio nel mettere il lettore a confronto con interrogativi, emozioni e preconcetti magari sommersi che capito spesso, anche involontariamente di mettere in atto, invitando a coglierne l’irrazionalità e l’insensatezza. Dando voce a un’interiorità autentica in presa diretta, inoltre, Melody sa coinvolgere il lettore al di là del tema della disabilità, perché dà modo di vedere la persona sotto e prima del suo handicap, perché tocca corde profondamente umane e perché fa vivere sentimenti ed esperienze che riguardano chiunque di noi. E questo, forse, fa del lavoro di Sharon Draper un piccolo gioiello che ha il sapore persistente della letteratura con la L maiuscola.

Storie di straordinaria dislessia. 15 dislessici famosi raccontati ai ragazzi

Dalla storia all’arte, dallo spettacolo alla scienza: i campi esplorati da Rossella Grenci e Daniele Zanoni sono davvero molteplici e in ciascuno i due autori hanno saputo individuare figure esemplari che non hanno trasformato la loro dislessia in un sinonimo di sconfitta certa. Tom Cruise, Pablo Picasso, Carlo Magno e Isaac Newton, solo per citarne alcuni, si incontrano e ritrovano tra le pagine di Storie di straordinaria dislessia (già nato in casa Angolo Manzoni e ora riproposto in una veste nuova da Erickson), accomunati da una condivisa tenacia, voglia di riscatto e capacità di trovare risorse nonostante le difficoltà che una forma di dislessia inevitabilmente impone.

Di ogni personaggio gli autori forniscono una biografia di qualche pagina accompagnata da una caricatura che aiuta a riconoscere il personaggio, di certo già visto dal lettore in qualche altra occasione. Alcune più e alcune meno avvincenti, le biografie proposte vogliono mettere in luce il fatto che dietro un disturbo specifico dell’apprendimento non si cela una forma di stupidità (è vero, lo si sente dire in continuazione ma per arrivare a una consapevolezza diffusa forse un po’ di insistenza si rende ancora necessaria) ma piuttosto un modo differente di funzionare del cervello: un modo che si rivela spesso funzionale a esplorare strade insolite, a inventare ciò che ancora non esiste, a indovinare teorie innovative e rivoluzionarie.

La ballata di Jordan e Lucie

Jordan e Lucie: due adolescenti dalle vite complicate, lontane anni luce l’una dall’altra. L’incontro tra di esse avviene grazie a un programma di integrazione scolastica che mette in contatto ragazzi con handicap mentale e ragazzi normodotati in cui i secondi si prestano a fare da padrini o madrine ai primi, agevolandone l’inclusione a scuola e tra i pari.

Così Lucie – con una situazione familiare turbolenta e poco serena per via del licenziamento del padre e dei continui litigi tra i genitori –  entra in relazione con Jordan – colpito da un deficit intellettivo e da un lutto familiare importante. I loro tormenti si avvicinano non senza ostacoli – le prese in giro dei compagni, la diffidenza iniziale, la difficoltà a esporsi, la differenza nei modi e nei pensieri – fino intrecciarsi saldamente, offrendo a ciascuno dei protagonisti una forma di serenità e calore a lungo ricercati.

La scrittura di Chistrophe Léon dipinge molto da vicino il mondo degli adolescenti, restituendo storie credibili e ritratti palpitanti. Come già era accaduto in Reato di fuga (Sinnos, 2015), i personaggi emergono qui in tutta la loro fragilità ma anche ricchi di un universo interiore multisfaccettato, complesso e degno di una rappresentazione tutt’altro che banalizzante. Così anche la disabilità di Jordan – elemento chiave della narrazione e della portata emotiva del libro – trova qui uno spazio adeguato e schietto, che non nega né limiti né possibilità.

Il libro di Christopher

I lettori che hanno amato Wonder non faticheranno a ricordare il personaggio di Christopher: l’amico d’infanzia di Auggie che cresce fianco e fianco a lui fino a quando un trasferimento non prova ad allentare le maglie della loro amicizia. In questo nuovo volume scritto da R.J. Palacio Christopher diventa voce e protagonista del racconto. Messo a dura prova dalla separazione dei genitori, il ragazzo affronta al contempo il primo anno di scuola media, con i suoi alti e bassi, i suoi fallimenti e i suoi successi. Il testo riporta episodi già narrati nel romanzo capostipite della serie, qui ripresi da un’altra prospettiva, ma presenta anche e soprattutto una nuova esperienza di vita (quella di Christopher, appunto) in cui Auggie non manca di comparire con una certa regolarità e con un ruolo infine decisivo.

Il libro è insomma abbastanza autonomo quanto alla trama rispetto a Wonder, anche se senza quest’ultimo perde senz’altro di senso e compiutezza. Il libro di Christopher, così come quello già uscito di Julian e quello in uscita di Charlotte, nasce infatti per rendere conto di un punto di vista diverso rispetto a una medesima situazione di diversità, incarnata da Auggie. Il punto di vista di Christopher, in particolare, è quello dell’amico di sempre che cresce accanto a Auggie, imparando con naturalezza a convivere con la sua difformità e scontrandosi, una volta cresciuto, con l’incapacità altrui di guardare oltre le apparenza. Oltre a essere un libro che sottolinea il valore della vera amicizia, anche a distanza, Il libro di Christopher offre quindi ottimi spunti per riflettere con i ragazzi sull’importanza di un’educazione consapevole allo sguardo.

Garrincha. L’angelo dalle gambe storte

La storia di Garrincha – mitica ala destra del Brasile e stella del Botafogo – ha fatto impazzire migliaia di appassionati di calcio degli anni cinquanta e sessanta. Con tutta probabilità, gli adolescenti del nuovo secolo il nome di Manoeal Franciscos Dos Santos non dice assolutamente nulla ma la sua parabola esistenziale è talmente avvincente che tempo e periodo storico finiscono per contare proprio poco quando ci si addentra tra le pagine che Uovonero dedica a questa figura dalle tinte chiaroscure, instancabilmente altalentante tra povertà e ricchezza, dedizione e sregolatezza, talento e disabilità. Quella dell’uccellino Garrincha, che con le sue gambe storte ha saputo conquistare un’intera generazione di tifosi, diventa così facilmente una figura emblematica di contraddittoria umanità fornendo inoltre una rappresentazione piuttosto inedita dell’handicap e dei suoi inattesi risvolti.

La composizione di questa graphic novel, firmata nei testi e nelle illustrazioni da Antonio Ferrara, è affascinante. I baloons veri e propri, ridotti nel numero in verità, portano alle orecchie del lettore voci autentiche e un parlato stringato che sa di vero. Il racconto che invece sta fuori dalle nuvole riporta puntualmente il punto di vista del protagonista, seguendo un ritmo tormentato che calza a pennello sulla sua vicenda personale. La scelta di immagini dal tratto serigrafico sottolinea il sapore leggendario di quanto narrato, mentre l’uso sapiente di riquadri di diversi dimensioni, di vuoti e pieni, di figure abbozzate che rinunciano ai dettagli per privilegiare l’espressività, regala a questo volume un aspetto originale e intrigante.

Il deserto fiorito

Squadra che vince non si cambia. Così, dopo la pubblicazione de Il puzzle di Matteo – albo dedicato alla Sindrome di Prader Willi – Luigi Dal Cin e Chiara Carrer tornano a raccontare una sindrome rara, attraverso parole ben scelte e immagini toccanti.

Il deserto fiorito mette in luce, in particolare, le caratteristiche della sindrome di Angelman e lo fa attraverso la figura di Davide, un bambino affettuoso che non può parlare ma ha imparato come esprimersi e farsi capire con altri mezzi: primo fra tutti il contatto fisico. A incontrare per caso questo bambino dai modi insoliti e farsi illuminare dalla sua spontaneità è Madame Sahara, una donna inaridita e abituata ormai a etichettare ogni persona seconda precisi canoni. La differenza di Davide la costringerà tuttavia a riscoprire il valore della differenza e a riconoscere l’insensatezza di qualsivoglia tentativo di classificazione umana univoca.

Il libro, pubblicato da Kite editore su iniziativa dell’Associazione Uniti per Crescere onlus fa parte di una collana che porta il nome dell’associazione stessa e che mira a far conoscere alcune sindromi rare e a ridurre così il senso di smarrimento e diffidenza che, nella realtà quotidiana, esse tendono a generare. Tra queste pagine la divulgazione va dunque a braccetto e spesso prende il sopravvento sulla fantasia, privilegiando la chiarezza della spiegazione rispetto all’acrobazia dell’invenzione.

Un pesce sull’albero

Non è facile per Ally: scuola nuova, compagni nuovi, professori nuovi e, come se non bastasse, quell’insopportabile sensazione di essere diversa dagli altri, stupida forse. Gli sforzi che la dodicenne fa per eguagliare i compagni in fatto di lettura e scrittura non trovano infatti un’adeguata soddisfazione (“Se cercare di leggere servisse a qualcosa – dice a un certo punto – sarei un genio”), tanto che Ally arriva più di una volta a un passo dal gettare la spugna. A remarle contro, almeno inizialmente, ci sono un’insegnante e una preside incapaci di leggere realmente il suo disagio e dei compagni di classe che, poco guidati ad accogliere la diversità, scivolano facilmente nella presa in giro. A casa, d’altro canto, il morale non si solleva granché: il fratello di Ally le manifesta un affetto enorme ma manca concretamente degli strumenti per aiutarla, la mamma riconosce i sui pregi e cerca di contenere i suoi insuccessi ma non ha molto tempo da dedicarle e il padre, pur amorevole e gran punto di riferimento, è fisicamente lontano per via di una missione militare. Tutti i venti paiono insomma soffiarle contro, almeno fino a quando la signora Hall non viene sostituita da un nuovo insegnante – il signor Daniel – strenuamente deciso ad aiutare i talenti di ciascun allievo a emergere. Inizia così per Ally un anno scolastico rivoluzionario in cui sperimentare nuove attività, in cui costruire amicizie autentiche e in cui scoprirsi e rivalorizzarsi. Intorno a lei ruotano moltissimi personaggi – compagni e familiari soprattutto – di cui Lynda Mullaly Hunt offre fin dalle prime pagine una rappresentazione eloquente (capiamo fin dall’inizio, insomma, da chi guardarci le spalle e in chi riporre invece fiducia). Quello dell’autrice è un tocco suggestivo che dipinge dapprima pochi tratti essenziali e dettaglia poi col tempo, offrendo un quadro chiaro fin da subito ma invogliando anche a riconoscere che dietro ogni persona – piacevole e antipatica che sia – si nasconde una storia che val la pena scoprire prima di emettere giudizi definitivi.

Dalla sua penna esce un ritratto illuminante non solo dei personaggi che entrano in campo ma anche e soprattutto del problema che affigge fin dalle prime pagine Ally e che segna in qualche modo lo sviluppo del racconto. Mirabile è la maniera chirurgica in cui Lynda Mullaly Hunt disseziona e restituisce i sentimenti della protagonista di fronte alla squilibrata bilancia sforzi-successi della sua vita e al profondo senso di inadeguatezza (parola chiave che forse ben condensa il preciso focus del libro) che la dislessia le provoca, arrivando a minare la stessa capacità di desiderare. Con spunti interessanti sulla vergogna provata (che può portare a preferire l’apparire cattivi piuttosto che stupidi), sul sentirsi soli (cosa che ben si distingue dall’essere solitari) o sull’enorme potere riconosciuto alle parole (che come le uova vanno trattate con prudenza, “perché nessuna delle due cose può essere riparata”) , Un pesce sull’albero appare un prezioso concentrato di riflessioni sui disturbi specifici dell’apprendimento e sui vissuti che ad essi si associano: un piccolo saggio, insomma, nascosto in un bellissimo romanzo, che molti insegnanti e operatori troverebbero utile per la loro professione.

L’autrice riesce a costruire questo effetto, ricorrendo tra le altre cose a un uso efficace e ricorrente di immagini e metafore, come quella della moneta con un’imperfezione che vale più di una perfetta o delle farfalle che non volano in modo lineare cime gli uccelli ma va un po’ di qua e un po’ di là. Questa precisa scelta stilistica, mantenuta per l’intero corso del racconto, contribuisce a rendere incisiva la narrazione, rinvigorendo l’effetto coinvolgente già dovuto ad alcuni personaggi memorabili e ad una rara lucidità esplorativa di argomenti complessi. Si capisce chiaramente, prima ancora che l’autrice lo espliciti in terza di copertina, che le pagine trasudano un vissuto personale, che c’è consapevolezza e competenza tra le righe. Non solo, il libro guadagna credibilità anche dall’inserimento della dislessia in un contesto scolastico variegato, in cui le difficoltà e le diversità sono tante e differenti. La classe di Ally è in qualche modo una classe reale, dove c’è chi mangia in mensa grazie al contributo della scuola, chi fatica a mantenere la concentrazione, chi ha origini straniere, chi ha a che fare con i bulli e chi, appunto, ha difficoltà con la lettura.

In questo contesto, ciò che rende esemplare e straordinario un professore come il signor Daniels – vera figura chiave del romanzo, che tanto felicemente esprime il bisogno di maestri pazienti, caparbi e lungimiranti – è la capacità di riservare un occhio di riguardo a ogni allievo e alle sue specificità, di dedicare la giusta attenzione a ogni situazione e di cercare la strategia più adeguata per supportarla. Così, il professor Daniel insiste perché Ally si cimenti in un corso di scacchi che le renda chiaro il suo modo di pensare fuori dagli schemi, concorda con Oliver un segnale segreto per ricordargli di non farsi travolgere da parole e pensieri, e più in generale riserva una parola di incoraggiamento per ognuno dei “suoi fantastici”. Ecco, forse della parola “fantastico” il signor Daniels fa un uso un tantino eccessivo ma val la pena di perdonarlo. Irresistibile e travolgente è infatti il suo modo di fare, tanto che a stento si può resistere al desiderio di averlo (o averlo avuto) come insegnante. In lui ritroviamo prima di tutto la figura di un educatore – colui che ex-duce, che tira cioè fuori dai suoi alunni la loro personalità, la fiducia in loro stessi, la consapevolezza delle proprie capacità, dei propri limiti e del proprio “funzionamento”, piuttosto che limitarsi a ficcare nozioni dentro le loro zucche.

Ciliegina sulla torta, come gli altri volumi della collana in cui è inserito, Un pesce sull’albero è pubblicato ad alta leggibilità così da risultare più fruibile anche in caso di dislessia. Così come la serie di Hank Zipzer (peraltro ormai divenuta un classico in America e citata dall’autrice nel libro, creando un simpatico e involontario gioco di rimando interni per la casa editrice Uovonero) anche questo volume impiega un Verdana modificato (leggermente più piccolo rispetto ai libri di Lin Oliver e Henry Winkler, come si conviene ai lettori delle medie cui il libri principalmente si rivolge), una carta avoriata, una spaziatura maggiore e un’assenza di giustificazione testuale. Tutto questo contribuisce a fissare la lettura e a renderla meno ballerina agli occhi di chi come Ally si chiede “come faranno gli altri a leggere lettere che si muovono?”. Mai collana fu in qualche modo più azzeccata di questa delle Abbecedanze (il cui sottotitolo è per l’appunto: Quando le lettere non vogliono saperne di restare ferme, possiamo imparare a danzare con loro), per un libro che sulle lettere che “sembrano scarabocchi danzanti”, ha costruito un racconto davvero significativo.

Anch’io so leggere…piano!

Teo è uno scoiattolino di prima elementare che muove i primi passi nel mondo della scrittura e della lettura. Curioso, vivace e abilissimo nel disegno, Teo si sente diverso dai suoi compagni, molto più abili di lui con lettere e numeri. Sarà la pazienza  dei genitori, unita alla pacata professionalità della dottoressa Talpin (l’oculista), del dottor Lucertolis (l’otorino), della dottoressa Luli (la psicologo) e del dottor Turi (il logopedista) e alla  lungimiranza della maestra Tea, a portare il protagonista del libro a conoscere e accettare serenamente il suo disturbo dell’apprendimento.

In linea con lo stile caratteristico della casa editrice Erickson Anch’io so leggere…piano. Tutti i cuccioli possono imparare è una storia costruita per spiegare la dislessia con un linguaggio e delle immagini adatte a un bambino. Il libro segue infatti il piccolo Teo proprio durante la fase di scoperta di un problema che colpisce, come lui, molti altri cuccioli.

Se si considera quindi il volume in questa sua particolare veste e con questo suo esplicito scopo se ne possono cogliere e a apprezzare la delicatezza dei toni e la semplicità di espressione che lo rendono particolarmente adatto a una lettura in classe dal valore più esplicativo che puramente narrativo. Il racconto sottolinea con chiarezza il ruolo decisivo che il comportamento di adulti – genitori e insegnanti in primis – può giocare in un positivo percorso di accettazione di sé.

Susan ride

Ci sono libri che vengono pubblicati, lasciano un segno e poi malauguratamente finiscono fuori catalogo. Si tratta spesso di libri curati e preziosi, il cui valore non viene risparmiato tuttavia dal continuo rinnovamento dell’offerta editoriale. Susan ride, scritto da Jeanne Willis, illustrato da Tony Ross ed edito prima da Mondadori ora da Piemme, è uno di quelli. Irreperibile, se non in biblioteca, per alcuni anni, il volume torna ora in libreria in una forma differente che assomiglia più al racconto illustrato che non all’albo benché il rapporto efficace e ben giocato tra testo e immagini costituisca la sua più caratteristica chiave di lettura.

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Costruito per quadri semplici e significativi che ritraggono la piccola protagonista intenta a fare le cose quotidiane tipiche di una bambina della sua età – ridere, cantare, dipingere, andare in giostra, sbagliare, provare emozioni – Susan ride non racconta una vera e propria storia ma dipinge piuttosto un personaggio significativo. Il testo impiegato dall’autrice è minimo – soggetto ripetuto e verbo – e trova grande ampliamento ed eco nelle illustrazioni non solo perché proprio queste chiariscono le numerose espressioni figurate impiegate (Susan vola, per esempio, quando il papà la fa piroettare in aria o Susan vince la sua battaglia  quando fa di un compito ostico una barchetta di carta) ma anche perché è proprio nelle immagini che il mondo di Susan prende vita popolandosi di parenti e compagni in carne e ossa, di oggetti e situazioni riconoscibili, di emozioni ed espressioni rassicuranti. Ed è proprio sulla familiarità di queste immagini e sul senso di empatia che esse felicemente generano che il volume fa leva per rendere l’immagine finale in cui compare la carrozzina e la frase di chiusura (questa è Susan / ecco com’è / proprio come me / proprio come te) di più facile assimilazione.

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L’approccio al tema della disabilità, basato sull’esplicita considerazione che una bambinain situazione di handicap come Susan è prima di tutto una bambina e come tale è uguale a tutte le altre, lascia trapelare  gli anni (non pochi) della pubblicazione (edita per la prima volta nel 1999 sia in Inghilterra sia in Italia). Ciononostante Susan ride  continua a ben prestarsi a letture di classe e semplici lavori sulla diversità. Sia il testo essenziale sia le illustrazioni delicatissime ma straordinariamente espressive rendono infatti il testo molto fruibile oltre che piacevole, invitando a una riflessione sulla diversità che muova dalle piccole cose che i bambini possano realmente e direttamente conoscere.

 

Mia sorella è un mostro

I libri per bambini e ragazzi che danno spazio, senza edulcorazione, alle ombre che accompagnano la disabilità si contano poco più che sulle dita di una mano. Di questi, quelli che fanno delle salite, delle difficoltà, degli aspetti inspiegabili e il loro focus principale sono ancora meno. Mia sorella è un mostro rientra tra questi ultimi e si presenta come uno dei libri più più scomodi e meno abituali sul tema reperibili in Italia.

Protagonista è Stella, sorella maggiore di Nelly, una bambina di 5 anni con problemi cognitivi, relazionali e comportamentali. Il libro ripercorre alcuni momenti quotidiani o straordinari della vita delle due bambine – il rapporto con i nonni, episodi di mutismo a seguito di litigi, l’arrivo poi non arrivato a termine di un nuovo fratellino, la scoperta di un nido di merli nel giardino – mettendo in luce il carico di lavoro, di pressione, di frustrazione e talvolta di vergogna che la presenza di una sorella così diversa molto spesso reca con sé. Voce narrante e punto di vista sono proprio quelli di Stella che, come sovente accade in questi casi, mostra un senso di maturità e una capacità di gestione delle situazioni decisamente più sviluppati rispetto ai coetanei. In ogni occasioni la sua pazienza, la sua dolcezza e la sua empatia con la sorella stupiscono e lasciano ammirato il lettore che difficilmente potrà aver sperimentato un’esperienza simile. La figura di Stella è dipinta in tutta la sua forza, ma lascia vedere chiaramente quelle crepe che la stanchezza incide poco a poco. Emblematici, benché lasciati più sullo sfondo, i personaggi di Hanna e Jos, due genitori segnati da un amore profondo e da una grande frustrazione.

Coraggioso e controcorrente, il romanzo di Martha Heesen non è facile né da proporre né da digerire. E’ uno di quei libri che rimestano da dentro e che lasciano un senso di amaro durante ma soprattutto al termine della lettura. L’ultima pagina, in particolare, dove la protagonista si chiude in camera con il proposito di non uscirne fino a quando la famiglia non si libererà della sorella, si conclude con un caustico Peccato, Hanna e Jos, peccato davvero, ma non vi rimane che una sola figlia. Indovinate quale. Che disdetta, eh?” che rende bene l’idea di una sorellanza dal peso specifico elevatissimo. Ma forse proprio per questo, per la prepotenza con cui si fa strada tra decine di volumi dall’approccio opposto, Mia sorella è un mostro si presta a suscitare confronti, riflessioni e racconti che muovano dal profondo.

Il pompiere di Lilliputia

Raro esempio di volume adatto all’infanzia che raffigura personaggi affetti da nanismo, Il pompiere di Lilliputia è un albo illustrato ispirato a una storia vera ma dal sapore eccezionale. Protagonista è Henry MacQueen, figlio di un noto e impegnato politico newyorkese, che a partire dai sei anni cessa di crescere incontrando lo scherno della gente e  faticando a conquistare il favore del padre. Le cose peggiorano dopo che Henry causa accidentamente un incendio in casa, suscitando così il progressivo distacco e timore di familiari e vicini. Quell’episodio, però, segna anche una svolta nella vita del giovane Henry, iniziandolo a un rapporto particolare e privilegiato con il fuoco: da lì a poco Henry si trasferisce infatti a Lilliputia – un’intera cittadina a misura di nani – ed entra nel corpo dei vigili del fuoco di Coney Island. Attivo in spettacoli con il fuoco nel parco di Dreamland, Henry si trova un giorno, inaspettatamente, a domare un incendio vero. Sarà propriuo la sua piccola stazza e il coraggio enorme che questa non  limita, a farlo uscire vittorioso da un’impresa ad alto rischio e a trasformarlo in un autentico eroe agli occhi del padre e della cittadinanza intera.

Il pompiere di Lilliputia nasce dall’incontro suggestivo tra la penna di Fred Bernard e dal pennello di François Roca, già strette in un promettente sodalizio marchato Logos nell’abo Jesus Betz. Quel che colpisce nell’unione tra questi due tratti è la capacità di ricreare atmosfere d’altri tempi che guardano alla realtà con un gusto tutto particolare per l’insolito. L’attenzione riservata dai due autori a ciò che esula dalla norma e la fermezza di un racconto – verbale e iconico – che sa cogliere il lato positivo della diversità senza occultarne le ombre attribuiscono ad albi come questo un fascino originale e una rara capacità di trattare il tema con una dignità che non soffoca èperò la meraviglia.

Blu come me

Blu come me è la storia di un coniglio che blu non è se non per la felpa che indossa (che caratterizza con efficacia la sua giovane età) e l’umore che manifesta (se consideriamo il blu nella sua accezione anglosassone). Il suo folto pelo è in realtà giallo brillante e questo lo rende differente rispetto a tutti i suoi familiari e conoscenti il cui pelo appare invece di un anonimo bianco. Proprio per questo motivo il protagonista si sente diverso e come tale viene da tutti trattato. “Speciale” lo definisce qualcuno, senza rendersi conto che le parole non bastano a dare un volto nuovo alla realtà e prima o poi rivelano la loro natura illusoria (per non dire truffaldina). Ciò che blu è davvero è invece la fogliolina che il coniglio trova un giorno per caso sul suo cammino e che segna la vera svolta nella sua esistenza. Deciso a scoprire da dove provenga, si spinge infatti lungo colline, boschi, rocce e fiumi fino a trovare il sorprendente albero dalle foglie celesti. E’ una sorta di viaggio iniziatico il suo, che si conclude (a dirla tutta forse si apre), quando proprio alle pendici di quell’albero straordinario fa un incontro ancora più incredibile: un coniglio dal pelo giallo brillante tale e quale al suo con il quale condividere giochi, corse e spazi di immaginazione che sappiano per una volta di normalità e che consentano di riacquistare un posto sereno anche in un mondo a prevalenza di conigli bianchi.

Attraverso personaggi dai tratti umani molto convincenti, Blu come me racconta una storia di diversità al contempo schietta e delicata. Il libro non parla certo esplicitamente di disabilità ma le riflessioni che emergono dicono molto bene il disagio di chi vive quotidianamente una situazione di scarto dalla norma e soprattutto subisce l’impaccio di un contesto sociale poco avvezzo a confrontarsi con ciò che esce dai margini. Le parole di Ivan Canu sono ben scelte, posate, profumate. L’erba alta e l’autunno in arrivo, la collina di aceri rossi e e i ciuffi di muschio: tutto prende forma con garbo agli occhi del lettore, grazie a un testo che non sbrodola e che coglie e registra solo ciò che conta. Le immagini di Francesco Pirini, dal canto loro, colgono emozioni e movimenti, alternando il ritmo della scoperta e quello della riflessione. Attraverso dettagli significativi ma lasciati all’occhio attento del lettore – le foto di famiglia in cui spicca un solo coniglietto giallo, un richiamo di tonalità cromatiche che unisce il protagonista in cammino a tutto ciò che nel paesaggio si muove come lui – l’illustratore propone un gioco di contrasti che arricchisce con delicatezza e forza il respiro della storia.

 

Dragon Boy

Un apparecchio ai denti piuttosto vistoso; un problema osseo che implica l’uso sistematico di una stampella, uno scarso equilibrio e una spina dorsale a forma di cresta.; un impianto per compensare un disturbo uditivo: voilà quel che a prima vista è Max Stanghelli, protagonista e narratore di Dragon Boy. Se a questo quadro già di per sè poco invidiabile (uno schifo, più precisamente, direbbe lui) si aggiunge anche che Max è iscritto in prima media (con tutti i rischi, i compagni nuovi e le difficoltà di sopravvivenza che questo comporta), si capisce bene perché il superpotere che più di tutti il ragazzo vorrebbe possedere è quello dell’invisibilità. Invisibilità per sfuggire alle interrogazioni della prof Nicolini, alle prepotenze di Serracchiani e Ronchese e soprattutto alle insistenze della Ferri che lo vuole a tutti i costi nel musical scolastico de Il mago di Oz. Decisa ad attribuirgli la parte del boscaiolo di latta, perché come quest’ultimo Max sembra “fatto di ferro ma in realtà ha un cuore grande”, la professoressa gli sta alle calcagna nel tentativo di convincerlo a prender parte alla recita. Ma per nulla al mondo Max vorrebbe calcare quel palco, finendo osservato e probabilmente deriso dall’intero pubblico.

Il fatto è che si sente perlopiù inadeguato il ragazzo  – quando all’ora di ginnastica viene esonerato dalla lezione per le sue difficoltà fisiche o scelto per ultimo nelle squadre, quando al gioco della bottiglia le ragazze si rifiutano di baciarlo o quando casca negli scherzi cinici dei bulli di classe – tutto il contrario di come appare e di come si deve sentire Dragon Boy, il supereroe di un fumetto che Max trova per caso (prima in un cestino in sala professori e poi nella fessura di un muro vicino a casa) e a cui si appassiona follemente. Dragon Boy è infatti un supereroe coraggioso, forte e ammirato da tutti. Quel che è strano, però, è che le sue avventure richiamano misteriosamente episodi davvero accaduti nella scuola di Max. Per il protagonista, travolto dalla curiosità, questo enigma richiede delle indagini che porteranno ad esiti seriamente inaspettati. Non solo Max sarà stupito nello scoprire chi è il fantomatico autore dei fumetti di Dragon Boy, ma finirà per imbattersi in inattese dichiarazioni d’amicizia e nello scoprirsi più speciale di quanto non si aspettasse. Un ruolo importante, in questa svolta – seppure il testo lo sottolinei scherzando – viene giocato dalla letteratura in generale e da singoli personaggi immaginari: proprio quelli che difficilmente immagineremmo venire in nostro aiuto in caso di bisogno.

Sulla fortunata scia di Diario di una schiappa e del meno noto ma altrettanto significativo Diario assolutamente sincero di un indiano part-time, il libro di Guido Sgardoli segue i pensieri e i resoconti di vita scolastica del dodicenne Max, che fedelmente li riporta all’interno del diario che gli ha regalato sua sorellaDomitilla. Questa forma consente all’autore di regalare freschezza e naturalezza al racconto, cui contribuiscono anche gli schizzi, le cancellature, i disegnini a bordo pagina e i caratteri di varie dimensioni e stili. La capacità dell’autore sta poi nel mantenersi fedele allo sguardo di un ragazzino e di fare dell’ironia un’arma narrativa seducente e potentissima. La maniera in cui Max racconta delle sue disavventure scolastiche fa infatti costantemente sorridere e molto spesso ridere di gusto: quando resta incastrato nella macchinetta delle merendine, tanto per dirne una, è davvero difficile contenersi. Questo contribuisce (più di quanto non faccia, a dire il vero, l’esplicitazione della morale) a togliere alla sua diversità il peso di una condizione verso cui provare una distaccata tristezza e a favorire con leggerezza, invece,  l’empatia e la simpatia da parte del lettore. I fumetti di Enrico Macchiavello,che di tanto in tanto inframmezzano la narrazione, sono dal canto loro gustosi e animano ulteriormente la lettura, strizzando l’occhio anche ai lettori che normalmente non amerebbero un volume come questo, più spesso di un dito

Di che colore è il vento

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Di libri che raccontano la cecità attraverso l’espediente dei colori e della loro rappresentazione nella mente di chi non vede ce ne sono diversi (tra questi, per esempio, Il libro nero dei colori o Marcolino, Ciccciopalla e la voce dei colori) ma quello di Anne Herbauts, recentemente pubblicato da Gallucci,  è senz’altro uno dei più suggestivi e riusciti perché fa dell’interrogativo il pretesto per un’esplorazione sensoriale ricca e poetica della natura. Protagonista di Di che colore è il vento? è un piccolo gigante che si pone proprio la domanda riportata dal titolo e che si avventura per il mondo per trovare una risposta. Il suo è un lungo cammino durante il quale, con naturale spirito animistico, interpella animali e cose traendo da ciascuno una personale interpretazione: tutte stimolanti e ben accolte, nessuna giusta o sbagliata. La sua ricerca diventa così un catalogo variegato di esperienze in cui il vento assume l’odore brusco del bosco (a detta del lupo), l’aspetto di tende, panni stesi e insegne (per bocca del villaggio), il colore della linfa e della granatina (stando alle radici) o quello del tempo (opinione della finestra). C’è anche chi non sa rispondere, come la pioggia, o chi trova la risposta nel frusciare delle pagine, come l’enorme gigante che incontra il protagonista in chiusura e lo invita a sperimentare la carezza del vento. Così, con il “vento del libro” che lo stesso lettore può saggiare, si conclude questo lavoro delicatissimo e potente.

Anne Herbauts è un’autrice e illustratrice straordinaria. La poesia scivola con naturalezza dalla sua penna e dal suo pennello, come dimostrato anche da titoli precedenti come Lunedì e Cosa fa la luna di notte?.  La sua capacità fuori dal comune sta nel cogliere le parole come fossero piccoli frutti delicati, nel comporre immagini che rimandano a una dimensione altra e di costruire libri che oggetti interessanti oltre che contenitori di storie. Di che colore il vento concretizza bene questa capacità, offrendo al lettore un’esperienza di scoperta e riflessione che chiama in gioco sensi e sentimenti diversi. Le pagine ampie, piene o vuote a seconda delle necessità espressive, parlano non solo attraverso i brevi testi e le figure composti dall’autrice ma anche attraverso i materiali di fondo di cui si compongono; le texture sottili (troppo per una lettura solo tattile ma abbastanza per una lettura multisensoriale) che fanno emergere figure e cornici;  le sagome ritagliate che danno fisicità ad alcuni elementi e i rilievi che riecheggiano, indicano dettagli, suggeriscono stati d’animo. Sono pagine che raccontano, a chi si prenda il tempo di prestar loro attenzione, il senso della scoperta e dell’indugio; pagine che danno rilievo alla pratica dell’ascolto e alla complessità del mondo che ci accoglie.

Il libro porta lo stesso titolo di una bellissima manifestazione promossa qualche anno fa dalla Federazione Nazionale delle Istituzioni pro Ciechi che ha portato in diverse città italiane un’esposizione internazionale di libri tattili e momenti di approfondimento di altissimo livello sulle tematiche dell’illustrazione per le dita. L’iniziativa ha coinvolto in diverse forme anche la casa editrice francese Les Doigts Qui Rêvent di cui più volte su Di.To abbiamo parlato, che molto strettamente collabora con la Federazione e che un ruolo importante ha giocato anche nella nascita del libro stesso di Anne Herbauts. L’interrogativo da cui il volume prende le mosse rappresenta infatti una curiosità realmente espressa da un bambino cieco durante una passeggiata con il papà e raccolta con attenzione dalla casa editrice di Dijon che l’ha condivisa con l’autrice e che ha supportato quest’ultima nella cura degli aspetti tecnici del volume. Pur non confluendo, in definitiva, in un libro tattile vero e proprio – con tanto di testo in Braille e illustrazioni totalmente fruibili al tatto –  Di che colore è il vento? mostra un occhio di riguardo per le sensazioni non solo visive che la pagina può offrire, divenendo non tanto una reale possibilità di lettura per chi non ci vede quanto un omaggio prezioso a chi sa ascoltare e riconoscere la realtà delle cose anche a occhi chiusi.

 

 

 

I fantastici cinque

I superpoteri che si nascondono nelle persone normali sono tanti, diversi e talvolta inaspettati. C’è per esempio chi vede lontanissimo, chi ha un udito davvero fine e chi solleva pesi straordinari, come i primi quattro protagonisti ideati da Quentin Blake: Angela, Ollie, Simona e Mario. E poi c’è chi, come Eric, pensa di non avere nulla di speciale. Timido e impacciato, Eric compare silenziosamente nelle prime pagine del volume  accompagnato da un incerto bofonchiare (“ehm…ehm”) mentre tutti i suoi compagni mostrano capacità straordinarie, persino durante una semplice gita in montagna. Sarà proprio in questa occasione, e in particolare al momento del bisogno  (quando l’autista Big Eddy, forse per colpa dei panini del pranzo, diventa verdastro e tomba a terra svenuto) che Eric scoprirà e farà scoprire ai compagni la sua peculiarità tutt’altro che superflua: quella che lo includerà a tutti gli effetti nel gruppo dei Fantastici cinque e che dice forte al lettore che anche saper trovare le parole giuste al momento giusto, senza sprecarle o distribuirle a vanvera, è un vero talento troppo spesso sottovalutato.

I fantastici cinque è scritto e illustrato dallo strepitoso Quentin Blake noto, tra le altre cose, per aver dato un’insostituibile forma ai personaggi creati da Roald Dahl. Il suo stile è diretto ed essenziale, sia nel tratto che nel discorso, e proprio la combinazione di parole – non una più del necessario – e illustrazioni  – dinamiche e sorridenti –  suggerisce una lettura positiva della diversità, tema trasversale del racconto. Non solo ogni personaggio vanta abilità eccezionali (sottolineate soprattutto a livello testuale, con una prevalenza di verbi come potere e riuscire) ma non nasconde nemmeno le sue eventuali disabilità (dipinte soprattutto a livello iconico,attraverso dettagli significativi ma discreti). Così, per esempio, senza che il testo dica nulla in merito, Mario si sposta sulla sedia a rotelle e Ollie, munito di occhiali scuri, cammina sempre per mano a uno degli amici. Abilità e disabilità vanno insomma serenamente a braccetto impastando un racconto genuino ed efficace. L’idea forte che ne emerge è che talenti e straordinarietà possano celarsi in ognuno di noi: un messaggio chiaro e incisivo che la versione originale del libro condensa bene nel titolo Five of us.

 

Smart

Colin è un uomo di Nottingham senza troppi amici e senza fissa dimora. Un giorno viene trovato morto in mezzo al fiume che lambisce la città, nella zona in cui vive Kieran, un ragazzino singolare che la maggior parte dei compagni deride chiamandolo “down”, “ritardato”, “spostato” o “bavoso” a seconda delle circostanze. Che cosa abbia esattamente il protagonista l’autrice non ce lo dice mai ma dalla presenza costante dell’insegnante di sostegno, dai comportamenti insoliti, dalle ristrette doti relazionali compensate da una grande attenzione ai dettagli, capiamo che possa facilmente trattarsi di un disturbo autistico. Ma Kieran è soprattutto un ragazzino curioso, appassionato di indagini (da Sherlock Holmes a CSI), desideroso di diventare un giornalista di Sky News e dannatamente bravo a riprodurre cose e persone attraverso il disegno, il che lo aiuterà non poco quando deciderà di fare luce sulla morte di Colin per supplire alla negligenza della polizia locale. Lo farà di nascosto dalla mamma, che gli mostra grande affetto nonostante il poco tempo e le poche energie che riesce a dedicargli, e di nascosto dal compagno di quest’ultima che invece, violento e losco, lo maltratta facendogli chiaramente capire che non lo vorrebbe tra i piedi. Lo farà correndo pericoli tutt’altro che trascurabili e trascorrendo molto tempo fuori casa, nella cornice di una periferia piuttosto degradata che tanta parte assume nelle brutte vicende che invischiano il protagonista e chi gli sta intorno. E lo farà con tenacia e ironia, appuntando ogni particolare sul suo prezioso taccuino e contando sull’aiuto di amici più o meno datati (come Jean, divenuta senzatetto dopo la morte del figlio o come il compagno Karaamat, giunto da poco dall’Uganda) ma in ogni caso insoliti e accomunati dalla sperimentazione diretta della discriminazione: il loro supporto – morale e pratico – si rivelerà fondamentale per dare non solo un esito positivo alle indagini ma anche una nuova forma all’esistenza quotidiana del giovane protagonista.

Il personaggio di Kieran è tenero e simpatico allo stesso tempo, ispira coraggio e ottimismo, in una parola: piace! Con quel suo modo di fare un po’ buffo e un po’ ostinato e con quel suo modo di narrare che non trascura i dettagli ma non annoia, sa tenere il lettore appeso alla storia e fargli riconoscere emozioni e temi dalle tinte anche scure che non compaiono così frequentemente nella letteratura per ragazzi. La somiglianza con Christoper de Lo strano caso del cane ucciso a mezzanotte e con Ted de Il mistero del London Eye – entrambi capaci di risolvere casi intricati grazie a un modo di pensare fuori dagli schemi tipico della sindrome di Asperger  – è lampante (e tra l’altro sottolineata dalla stessa casa editrice fin dalla fascetta che correda il volume). E questo, forse, è l’aspetto che apre maggiori interrogativi  in un romanzo ben costruito e davvero piacevole come quello dell’esordiente Kim Slater: ci si chiede infatti se l’insistente ricorso  alla figura del ragazzino con disturbo autistico – qui dipinto forse con minore accuratezza e verosimiglianza rispetto ai due volumi sopracitati – che si riscatta ricomponendo casi irrisolti non finisca per compromettere l’originalità narrativa e soprattutto per costruire, a lungo andare, uno stereotipo che riduce e fissa la sindrome di Asperger in una capacità straordinaria di risolvere situazioni complesse. La questione sta tutta lì, nel sottile confine che separa la valorizzazione delle diversabilità dal loro congelamento in una visione reiterata.

Kieran, dal canto suo, ha e suggerisce il suo personalissimo sistema per collocarsi fuori dagli schemi e non restare imbrigliati nella maglie di un pensiero stereotipato: immaginarsi come Albert Einstein a cavalcioni di un raggio di luce   – baffi grigi e capelli indisciplinati compresi – per favorire l’emergere di idee divergenti. Lettori e scrittori sono avvisati: chissà che una rappresentazione davvero libera della disabilità non possa passare proprio da lì…

Breve storia di un lungo cane

Formato più grande, testo più grande, illustrazioni più grandi: così – all’insegna di dimensioni più consistenti – si presenta la nuova serie ad alta leggibilità di Uovonero (Vi presento Hank) rivolta a lettori alle prime armi. L’effetto è senz’altro rassicurante per i sette-ottenni che si avvicinano alla lettura e che possono trovare nelle avventure del giovanissimo Hank Zipzer uno stimolo spassoso a leggere in maniera sempre più sciolta. Le storie scritte da Lin Oliver e Henry Winkler e qui condensate in pagine più contenute rispetto alla serie base con lo stesso protagonista, hanno infatti il pregio di scorrere veloci e parlare dritto alle orecchie dei ragazzi.

In Breve storia di un lungo cane (intrigante fin dal titolo, bisogna proprio dirlo!) il giovanissimo Hank deve a tutti i costi migliorare la sua pagella scolastica: in ballo c’è la possibilità di far visita al canile e portarsi a casa un cagnolino da accudire e coccolare. Stufo di avere tra i piedi la squamosissima iguana della sorella Emily e desideroso di avere una bestiola tutta per sé, Hank ce la mette tutta per trasformare le insufficienze in voti degni di un eroe scolastico. La motivazione è forte (cosa da non sottovalutare!) ma sarà sufficiente a compensare le difficoltà di lettura che affliggono il protagonista e che sono il motore delle sue più note avventure e disavventure? In questo caso sì! Complice anche una maestra comprensiva e lungimirante che sa valorizzare l’ingegno e la creatività di Hank (diversamente dalla signorina Adolf che qualche anno più tardi casserà in pieno il suo tema vivente sulle Cascate del Niagara), il ragazzo riesce a raggiungere i suoi obiettivi e a portare a casa un adorabile salsicciotto di pelo di nome Cheerio. Da lì in poi la vera sfida sarà mostrarsi davvero responsabile agli occhi dei genitori insegnando al cucciolo come comportarsi fuori e dentro casa, dove guai e imprevisti sono sempre dietro l’angolo

Anche questo libro, come gli altri dedicati ad Hank Zipzer, è stampato ad alta leggibilità ricorrendo a un Verdana modificato, a una carta avoriata e a una spaziatura e sbandieratura particolari. Questo agevola senz’altro la lettura anche in caso di dislessia ma la rende altresì più agevole laddove non ci sia alcun tipo di disturbo. Il testo concorre a questo scopo con frasi perlopiù brevi e non troppo ostiche da seguire mentre le grandi illustrazioni firmate da Giulia Orecchia e sistemate qua e là lungo il testo e in apertura di capitolo contribuiscono dal canto loro a fare del volume un oggetto davvero appetibile e amichevole.

S.O.S. Supplente in arrivo

Luca – protagonista e narratore di S.O.S. Supplente in arrivo – è un bambino di 9 anni ciarliero, fantasioso e pieno di iniziativa. Basti pensare che per ingraziarsi la famigerata supplente Celli detta Lametta, poco ben disposta a causa delle sue pessime performance in italiano, raccoglie per strada fiori e spighe di grano da regalarle (e chi poteva sapere che Lamette fosse proprio allergica alle graminacee) o che per dissuaderla dal continuare a interrogarlo, le recapita una lettera minatoria zeppa di errori ortografici. In un susseguirsi di simpatici quadri scolastici, conditi da qualche gustosa invenzione linguistica (irresistibile l’ “Oh, santa play-station” di pagina 22), Luca fa emergere con il sorriso gli ostacoli e i timori che moltissimi bambini con DSA condividono con lui.

Isabella Paglia racconta una storia di normale dislessia regalandole però un tono leggero e sorridente. Centrale, sia ai fini della narrazione sia ai fini del rimando alla realtà, la figura della supplente che, pur mostrandosi inflessibile (cosa che dà un divertente sprint alla storia) si rivela infine capace di cogliere le difficoltà del protagonista e di aiutarlo a superarle. A quelle stesse difficoltà, peraltro, il libro dedica un’attenzione supplementare grazie a un font specifico e a una spaziatura maggiore tra lettere, parole e righe. S.O.S. Supplente in arrivo è infatti il primo volume (si spera di una lunga serie) pubblicato dalla casa editrice Coccole Books con caratteri di alta leggibilità.

Mamma, anche le rondini sognano?

Un libro che ha il ritmo e e l’andamento fluido di un sogno, che procede per immagini e passa in scioltezza da un’evocazione all’altra, che sfida gli ostacoli della razionalità per esplorare le terre dell’immaginario. Ecco, Mamma, anche le rondini sognano? ha un po’ questa veste e si propone come un viaggio sospeso tra  cielo e terra, sulla scia dei pensieri, dei desideri e delle curiosità di una bambina di nome Uori. Appesa al filo di un grande e leggero cuore rosso, la protagonista si solleva sopra la città e sulle distese d’erba, tra le nuvole e in mezzo alle onde, fino a quando non fa ritorno nella sua “conchiglia con le ruote”, metafora di una disabilità motoria che il lettore nota soltanto alla fine del racconto. A quella conchiglia, che protegge e al contempo imprigiona,  le parole di Sandra Dema e le illustrazioni di Anna Curti non fanno infatti cenno fino a quando il sogno di Uori non è finito e la lettura non volge al termine, come a sottolineare che i sogni appartengono a tutti e possono donare slancio e vitalità preziosi anche a chi si scontra con barriere fisiche di vario tipo.

Quella di Mamma, anche le rondini sognano? è una lettura non semplice e immediata ma capace di avvolgere e generare sintonie tra pari ma soprattutto tra grandi e piccoli. Raffinato e rarefatto, il libro di Sandra Dema e Anna Curti chiede pazienza e silenzio, gli stessi che esige un sogno ben fatto. A muoversi tra “cuori in corsa nelle scatole di latta” e “sbuffi di panna montata” serve dimestichezza poetica e disponibilità all’ascolto, poiché sono terreni ricchissimi ma poco battuti. Le parole ben scelte e le immagini impalpabili dell’albo invitano insomma all’indugio, a “far prendere aria” ai sogni come all’immaginazione, nel cui segno ci sentiamo accomunati e determinati a dissolvere costrizioni e limiti.

 

 

 

Hank Zipzer e il peperoncino killer

San, ni ichi…via: la due giorni nel segno del Giappone sta per iniziare nella scuola SP 87 e Hank Zipzer, come tutti i suoi compagni, ne è elettrizzato. Figuratevi quando il suo nome viene estratto dal cappello a brillantini di Ashley assegnandogli ufficialmente il compito di ospitare a casa sua Yoshi,  il figlio del signor Morimoto, preside della scuola gemellata. Hank non sta più nella pelle e si dà un gran daffare per organizzare un soggiorno indimenticabile con l’aiuto dell’intera famiglia Zipzer e dello schieramento al completo di amici storici. Per di più Yoshi si rivela essere estremamente socievole e simpatico perciò le premesse per la sua visita newyorkese non potrebbero essere migliori.

Ma i guai non tardano a farsi avvistare quando Yoshi, Hank e la sua cricca si cimentano con la preparazione di speciali enchiladas messicane per il pranzo multiculturale della scuola. Tra un’iguana su di giri, una ricetta difficile da decifrare e il desiderio di fare colpo su un nuovo amico,  la dose di peperoncino scappa di mano e le enchiladas si trasformano in potenziali finger food incendiari. Ne scaturisce un pranzo tutto pepe(roncino) davvero esilarante in cui tuttavia l’onestà e l’amor proprio di Hank vengono messi a dura prova.

Più dei precedenti episodi della serie, Hank Zipzer e il peperoncino killer mette a fuoco in effetti il disagio che un disturbo specifico dell’apprendimento può portare con sè. Messo alle strette e forzato a render conto delle proprie difficoltà davanti a tutti, Hank rivela chiaro e tondo al lettore: “ Non penso che nemmeno i miei amici sappiano  veramente come ci si sente nei miei panni. Odio la sensazione di non essere intelligente come gli altri. Odio provare continuamente vergogna di me stesso. E odio non poter contare sul mio cervello per poter far bene le cose”. Nelle sue parole, pur inserite in un contesto spiritoso e leggero in pieno stile Winkler-Oliver, si leggono tutto il malessere emotivo e tutta la sfiducia in sé stessi che la dislessia può generare, soprattutto quando ci sono di mezzo amicizie, affetti o più in generale rapporti sociali. Per fortuna esistono insegnanti lungimiranti ed empatici capaci di cogliere anche una difficoltà non detta e di trasformare un momento di potenziale imbarazzo in una conversazione piena di sprint!

 

Jésus Betz

C’è un albo dalle tinte chiaroscure, dal testo asciutto e dalle immagini avvolgenti che non ha paura di guardare e dire la disabilità. È un albo pubblicato per la prima volta in Francia ormai quasi 15 anni fa e proposto al pubblico italiano di lettori dalle età diverse dalla Logos edizioni. Jesus Betz, il protagonista che dà il titolo al libro, è tra i personaggi disabili più emblematici e forti che la letteratura possa offrire. La diversità di Jesus, nato senza braccia e senza gambe, si manifesta d’impatto e con insistenza costringendo chiunque a fare i conti con pregiudizi e sentimenti contrastanti.

Il racconto procede per date significative – 33 in tutto, come a rivelare che il nome del protagonista non è poi tanto casuale: 33 pietre miliari che scandiscono una vita segnata dall’avventura e dal coraggio di rialzarsi. Sempre. Così Jesus, dopo un’infanzia sofferta allietata soltanto dalle cure premurose della madre, ricorda i suoi anni come vedetta a bordo delle navi, il calore generoso della compagna Mamamita, il lavoro come fenomeno da baraccone per il meschino Max Roberto, la fuga con l’amico Pollux, gli spettacoli con il Grand Cirque e l’amore felice con la splendida Suma Katra: una vita intensissima in cui gioie e dolori forse non si equilibrano ma in cui le prime prevalgono infine sui secondi, restituendo un’immagine della disabilità in cui il limite dipende in gran parte dalla maniera in cui ciascuno lo vive e dallo sguardo che gli altri vi dedicano.

L’albo, intenso e complesso, è un inno alla perseveranza e alla capacità di guardare avanti anche se paradossalmente il libro è costruito proprio come una lettera che ripercorre all’indietro dei ricordi.  Le parole scelte da Fred Bernard sono trasparenti e senza filtri: taglienti dove occorre, delicate dove serve. Ad esse si accompagnano le illustrazioni tutte giocate su toni caldi intorno all’ocra e votate a trasformare i sentimento turbolento di personaggi e lettori in un’atmosfera permanente di grande effetto.

G.E.K.A. Il mondo dietro gli occhi chiusi

Faticare ad addormentarsi alla vigilia di un importante compito in classe e ritrovarsi all’improvviso in un mondo fantastico: con tutta la stranezza del caso, questo è proprio ciò che succede a Giulio, una notte come tante. Sperso e frastornato, il protagonista di G.E.K.A non si ritrova tuttavia solo ad affrontare uno insolito viaggio in un mondo popolato da bizzarre creature e animato da misteriosi enigmi. A dividere con lui lo stupore e il desiderio di decifrare tante stranezze ci sono altri bambini incontrati via via da Giulio lungo il suo percorso e ad uno ad uno divenuti parte di una solidissima banda di amici.

La loro è una corsa avventurosa e avvincente in cui occorre districarsi tra mappe incomplete, messaggi cifrati, filastrocche apparentemente campate per aria e luoghi pericolosi. La forza della squadra sta tutta nelle peculiarità dei singoli che diventano ricchezza (e persino salvezza) per l’intero gruppo: così, per esempio, l’abitudine di Alice, cieca, a orientarsi senza l’uso della vista guida i ragazzi fuori da una caverna buia; Kevin, sordo, decodifica il messaggio trasmesso con i gesti da alcune statue del giardino; o ancora la memoria prodigiosa di Edoardo, autistico, consente a tutti di risolvere il mistero racchiuso in un quadro. Certo, le caratteristiche di ciascuno richiedono spesso accortezze supplementari (come prestare attenzione a non strepitare per non turbare chi come Edoardo patisce i rumori forti o come leggere ad alta voce per Alice ciò che gli altri possono tranquillamente leggere sulla carta) ma non accade forse lo stesso – sembra suggerire il libro – con le caratteristiche di ciascuno di noi?

G.E.K.A. Il mondo dietro gli occhi chiusi racconta così, attraverso prove straordinarie ma al contempo facilmente riconducibili al quotidiano di un bambino che abbia accanto un compagno con disabilità (penso per esempio al muoversi in classe, al giocare insieme, al trovare forme di comunicazione condivise) l’importanza di scoprire e dare senso al valore aggiunto che ciascuno può dare a una relazione di amicizia, ribaltando l’idea che chi sperimenta la disabilità possa solo ricevere e non anche dare. La storia è ben congeniata e minuziosa nel rendere un’idea tanto delicata. Peccato solo, forse, per quella scivolata in extremis sulla buccia di banana pedagogica che porta a sottolineare, con l’intervento della mamma al risveglio del figlio, il senso di quanto da questi appreso durante il sogno. Il messaggio era davvero molto forte e chiaro senza che occorressero parole supplementari. Il più delle volte, infatti, le storie vanno ben oltre quello che esplicitamente dicono.

Contro i cattivi funziona

Avere 13 anni è già di per sé piuttosto impegnativo: scuola, amicizie, cambiamenti, prime cotte e contrasti con i genitori (magari separati) danno un bel da fare a chiunque. Se poi ad aggiungersi c’è anche un fratello gravemente disabile mantenersi in piedi può diventare un’impresa per via delle prese in giro, degli atti di bullismo, degli sguardi compassionevoli o dei giudizi sprezzanti che affollano il quotidiano. Tutte cose molto familiari a Matteo Galbiati, la cui identità fatica a sganciarsi da quella del fratello Guido: 14 anni anagrafici e uno e mezzo celebrale, con gravi difficoltà comunicative e motorie.

Per questo la possibilità di cambiare scuola e ripartire da zero – quanto a conoscenze e reputazione – costituisce per il protagonista di Contro i cattivi funziona un’occasione imperdibile. Matteo decide di presentarsi ai nuovi compagni nascondendo a tutti l’esistenza del fratello. La cosa sembra funzionare, dal momento che il ragazzo riesce a entrare nelle grazie di Francesco, il più temuto e rispettato della scuola, e della sua banda di scagnozzi. Ma tenere in piedi una bugia tanto grossa si fa via via più difficile, soprattutto quando Guido inizia a frequentare la stessa scuola di Matteo, quando l’affettuosa vicina di casa Selene scopre la vita reale della famiglia Galbiati e prova piano piano a entrarvi e quando la banda di Francesco comincia a manifestare, con parole ma anche con i fatti, la propria avversione verso i più deboli e verso chi, avario titolo, li difende. Sarà dura per Matteo fare i conti con una situazione che rapidamente precipita e scoprirsi di colpo migliore di quanto non si mostrasse e più attaccato al fratello di quanto non credesse.

Attraverso una trama coinvolgente e dei dialoghi serrati, che guardano all’adolescenza con occhi disincantanti, Massimo Canuti offre un bel ritratto di un legame fraterno quanto mai complesso e travagliato. Dando voce ai siblings, ossia ai fratelli di persone con disabilità, l’autore sceglie di non abbandonarsi alla neutralità politically correct che spesso invade i libri sul tema per far emergere piuttosto il magma emotivo che spesso travolge chi vive una situazione di questo tipo, in bilico tra un affetto smisurato e un’insofferenza che porta a rimorchio il senso di colpa. La schiettezza, al servizio della complessità, è dunque la vera forza di un volume coraggioso come questo.

 

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Hank Zipzer. Una gita ingarbugliata

Tempo di gita scolastica alla SP87, la scuola frequentata da Hank Zipzer e dalla sua cricca di amici. Non pensate al solito polveroso museo: ad attendere gli allievi dell’inflessibile signorina Adolf c’è una notte a bordo del veliero ormeggiato nel porto di New York. L’eccitazione in classe è alle stelle e i preparativi sono tutt’altro che rilassati: prima ancora di partire Hank deve fare i conti con l’autorizzazione firmata dai genitori e dimenticata chissà dove. Per fortuna i suoi storici amici Ashley e Frankie così come l’energico Papà Pete non perdono occasione di aiutarlo a togliersi dai pasticci. Ma la corsa contro il tempo per riuscire ad andare in gita con cui si apre il nuovo episodio della serie scritta da Henry Winkler e Lin Oliver non è che un assaggio degli imprevisti che seguiranno da lì a qualche pagina. È solo quando i bambini mettono piede del Pilgrim Spirit, infatti, che l’avventura prende letteralmente il largo!

Alle prese con nodi impossibili da replicare, capitani farlocchi di vascello che soffrono il mal di mare, piccole vendette al gusto di Twix e nuove amicizie che rischiano di far naufragare le vecchie, Hank non risparmia il consueto ingegno che oltre a salvare situazioni complicate fa di lui un validissimo testimonial contro i pregiudizi sulla dislessia. Al disturbo dell’apprendimento il libro guarda inoltre, come di consueto, anche nell’aspetto tipografico grazie alla scelta di un font più leggibile e di una spaziatura più agevole. Questi accorgimenti, uniti a uno stile sempre frizzante, a illustrazioni spiritose (firmate come sempre da Giulia Orecchia) e ad avventure che non lasciano il tempo di annoiarsi concorrono seriamente a rendere l’invito alla lettura intrigante anche per chi con il testo scritto ha un rapporto burrascoso. L’abilità degli autori sta inoltre nell’accendere un sincero attaccamento nei confronti dei protagonisti che di volta in volta il lettore ritrova tra le pagine della serie, senza scordare però di far via via aumentare la complessità della storia e la varietà dei personaggi coinvolti, di pari passo con il crescere di Hank&co e con l’acquisire dimestichezza di lettura da parte di chi ne segue le vicende.

Il libro di Julian

Il libro di Julian, che segue e strettamente si lega al bellissimo Wonder, è un racconto gustoso che lascia tuttavia nella bocca del lettore un sapore strano, forse amaro. Nato come una sorta di appendice del primo romanzo di R. J. Palacio, il libro riprende i fatti qui narrati dal punto di vista del personaggio che vi prende parte col ruolo più negativo. Julian è infatti il bulletto che rende difficile la vita scolastica di Auggi e dei suoi amici e di cui mai, tuttavia, in Wonder vengono resi il pensiero e la prospettiva. L’autrice dà corpo quindi a questo nuovo lavoro proprio per dar voce al cattivo di turno.

L’idea è bella e coraggiosa. Come si può sentire il lettore, infatti, di fronte a un personaggio di cui già ha un’idea sfavorevole e i cui comportamenti sono così lontani dal comune e giusto sentire? La Palacio si cala in questo terreno minato portando alla luce la situazione familiare che alimenta l’arroganza e l’incapacità del protagonista a confrontarsi con le difficoltà e le responsabilità. Emergono così, in maniera molto accentuata, una madre miopemente iperprotettiva e un padre per cui soldi e buona immagine costituiscono una priorità assoluta. La loro abitudine a giustificare ogni atto del figlio, a ribaltare ogni situazione in modo che questi ne esca pulito e illeso e a scaricare qualunque colpa sulle spalle altrui si delinea agli occhi del lettore come la causa principale del modo di fare meschino e irriverente di Julian. Ciò che accade quindi è che di pagina in pagina Julian finisce per riabilitarsi agli occhi del lettore facendo ricadere le ombre che fino ad allora ne avevano oscurato la figura sui suoi genitori.

E se questo da un lato ha il merito di invitare ad andare sempre al di là delle apparenze, anche per capire il perché di comportamenti indegni e deprecabili, e di portare all’attenzione il caldissimo tema dell’emergenza educativa che coinvolge genitori e insegnanti su di un fronte troppo spesso separato, dall’altro inciampa nel rischio di giustificare a tutti i costi un atteggiamento da bullo per favorire la trasformazione di Julian da cattivo tout court a “cattivo soprattutto non per colpa sua e comunque in definitiva pentito”. Il libro di Julian resta comunque una lettura godibile (senz’altro molto di più se si è letto Wonder, su cui si regge in buona parte la sua ragion d’essere), scorrevole e non privo di qualche colpo di scena narrativo del tutto in linea con il gusto dell’autrice per le trame appassionanti e a tratti commuoventi.

I cinque malfatti

“Erano cinque. Cinque cosi malfatti.” Bastano cinque parole (guarda un po’, tante quanti i malfatti stessi!), per spalancare le porte all’invenzione. In cinque parole e una doppia pagina Beatrice Alemagna ci catapulta in un mondo in cui la stramberia impazza. Qui i protagonisti sono talmente insoliti che meglio di “cosi” non si possono definire: uno è bucato, uno è molle, uno è a pieghe, uno è capovolto e uno è così malfatto che assomma su di sé un grande mucchio di stranezze. E le illustrazioni dell’autrice, forti di quel mix così esplosivo e caratteristico di disegno e collage, regalano a questi cinque personaggi forme memorabili e surreali.

Quello dei cinque malfatti è un mondo brioso e sorridente in cui ci si sollazza ciondolando per casa (una casa sbilenca, casomai ci fosse bisogno di dirlo!) e sfidandosi in una gara all’ultima imperfezione. La vita qui è un inno all’ozio, alla diversità e all’autoironia: perché quando si sanno riconoscere i propri difetti e si impara come scherzarvi su, le rispettive diversità diventano occasione di confronto e diletto. Chi entra nella casa dei cinque malfatti conosce la differenza tra ridere di qualcuno e ridere con qualcuno: quella differenza, neanche tanto sottile, che separa il divertimento dallo scherno. Perché il primo funziona solo se tutti si mettono in gioco.

Ma il gioco, il difetto, il divertimento fine a se stesso sono del tutto estranei al tipo straordinario che, con la sua bella capigliatura e tutte la parti del corpo al loro posto, piomba un giorno nella dimora dei malfatti pretendendo di dare loro lezioni di vita. Per lui ci va assolutamente un progetto, ma quei corpi così mal assortiti gli paiono poco idonei a sviluppare idee. Totalmente inutili, in definitiva. A dispetto dei suoi perfettissimi principi, i cinque malfatti rivendicano però la loro straordinaria utilità: nel far passare la rabbia attraverso i buchi, nel conservare i ricordi tra le pieghe, nel vedere le cose da prospettive insolite e nel gioire di insoliti successi (o nel sapere fare pisolini in condizioni estreme. Per me, il migliore in assoluto!). E forti di un personale e condiviso orgoglio riprendono con sollievo la loro vita di sempre.

Il libro, vincitore non a caso di numerosissimi premi tra cui quello attribuito dalla giuria di esperti di Liber, porta nella testa del lettore una ventata di squisita e onesta leggerezza. L’attenzione appassionata dell’autrice per i dettagli nelle illustrazioni (anche l’imperfezione richiede cura!) e per il ritmo del racconto suscitano sana curiosità e autentico divertimento. A sbagliare le storie, ce lo ha insegnato Rodari, non sempre si ha da perdere. E a sbagliare i personaggi, state pur certi, il risultato è identico!

Album per i giorni di pioggia

Può l’ultimo giorno di vacanza suscitare gioia e diventare, tra tutti, il giorno più bello dell’anno? Verrebbe da dire di no ma il protagonista di Album per i giorni di pioggia è pronto a smentire noi tutti. L’ultimo giorno di vacanza coincide infatti con il suo compleanno e fa rima quindi con corona di carta, candeline, torta e famiglia. Quest’anno ancor di più, perché lo zia Ramon ha portato un dono davvero speciale, capace di rendere indelebile un momento tanto felice. Uno, due tre, click: armato della sua nuova macchina fotografica rosso fiammante, il festeggiato non perde tempo e trasforma una giornata potenzialmente malinconica in una collezione di attimi felici da ricordare.

Seguendo il sempreverde insegnamento di Federico, il topo di Lionni che metteva da parte raggi di sole per l’inverno, il protagonista del libro di Torrent raccoglie e immortala momenti preziosi – una corsa con gli aquiloni, una moltitudine di bolle di sapone, un tuffo tra le onde o un salto sul molo – attività spensierate che diventeranno ossigeno e sorrisi quando le attività frenetiche della brutta stagione prenderanno il sopravvento. Ciò che le rende così speciali è il fatto che siano condivise con le persone più care con la leggerezza che solo una vacanza ormai agli sgoccioli può riservare. Il libro omaggia cioè il piacere delle piccole cose, rese straordinarie da coloro con cui vengono vissute.

C’è insomma una nota malinconica tra le pagine di quest’albo, una sorta di presentimento di ciò che verrà da lì a poco, sottolineato da toni ambrati, crepuscolari, prediletti dall’autore nelle illustrazioni. D’altra parte, però, l’ottimismo finisce per avere la meglio, forte della consapevolezza che in qualche modo siamo quello che ricordiamo.

Che c’entra però la disabilità con questo quadro? C’entra nella maniera migliore possibile! Senza che il testo dica nulla, le immagini ci mostrano un protagonista in sedia a rotelle: la disabilità trova posto cioè senza esasperazioni, strepiti, messaggi a effetto o lezioni pedagogiche. Essa figura come un dettaglio tra tanti che influenza certi aspetti della vita (come il modo di correre nel vento, l’altezza da cui si scattano le foto o la maniera di godersi un bagno in mare) senza comprometterne l’essenza (come il piacere di vivere e registrare quei momenti, l’affetto dei cari, il sorriso di fronte al bello di una giornata di sole). Un albo come questo, che sfrutta al meglio le peculiarità del genere facendo dire a testo e immagini cose complementari, lascia delle piccole e discrete tracce di riflessione rispetto alla disabilità, che solo l’occhio attento registra, portando con naturalezza e quasi senza accorgersene la mente a realizzare che l’emozione di un abbraccio tra fratelli, il divertimento di un gioco in spiaggia, la gioia di uno spruzzo marittimo sono  piaceri condivisibili che ci avvicinano straordinariamente.

Visioni nuove della disabilità e dell’inclusione vengono proprio dalle lenti precise e dagli obiettivi potenti che libri come Album per i giorni di pioggia montano sui nostri occhi, come fossero macchine fotografiche. Parole ben scelte e illustrazioni portentose, ricche di inquadrature particolari e prospettive insolite, come quelle di Dani Torrent sono ciò di cui necessitiamo per guardare alla realtà con lo sguardo illuminato di un buon fotografo, che è ben altra cosa da quello piatto di chi, semplicemente, scatta fotografie.

Downtown

Downtown è un fumetto per ragazzi curato da due pubblicitari spagnoli – Noel Lang e Rodrigo Garcia. Ispirato alla figura dello zio di uno degli autori, affetto da Sindrome di Down, il racconto segue un bambino di nome Edo affrontare insieme ai suoi amici diverse situazioni quotidiane, più o meno complesse, in oltre un centinaio di sketch grafici ironici e leggeri.

Il titolo del volume – Downtown – e la frase di apertura – “Il brutto dell’avere la Sindrome di Down è che il giorno in cui nasci i tuoi genitori diventano un po’ tristi. Il bello è che, dopo quel giorno, non lo saranno mai più” – lasciano intendere che la Sindrome costituisca il fulcro del racconto e che a farla da padrone, a riguardo, sia un certo atteggiamento tutto rose e fiori. In realtà, addentrandosi nella lettura, la sindrome non viene pressoché più citata, intenti moralistici non trovano spazio e tutta l’attenzione è concentrata sulla maniera buffa e originale in cui Edo affronta la vita. Il suo essere Down emerge cioè, sottilmente, da un certo modo di parlare e dare senso alle situazioni, nel suo modo di relazionarsi con le cose e con le persone, nella sua fatica e concentrarsi e nel sistema originale che adotta per isolarsi all’occorrenza dal mondo. Ma è bene o male il suo essere bambino – un bambino fantasioso, affettuoso, a tratti petulante come d’altronde sono tutti i bambini –  ciò che emerge in primo piano. Il che costituisce forse la maniera più efficace per lanciare un messaggio positivo a proposito della Sindrome di Down (o più in generale di una qualunque disabilità) poiché invita a considerare la persona prima dell’etichetta.

Attraverso un tratto asciutto e spiritoso, in linea con testi essenziali e arguti, il fumetto di Noel Lang e Rodrigo Garcia offre un ritratto scanzonato e sorridente del mondo infantile. Insieme a Edo, a popolare le vignette di Downtown, altri amici tutt’altro che comuni: da Michelone, buono come il pane e imponente come una montagna a Bea, la fidanzata preferita nonché unica del protagonista; da Ben, timido e gentile, a Noemi, effervescente e frivolamente sognatrice. La loro è una quotidianità ingenua e briosa, proprio come il disco di Petula Clark che dà il titolo al volume e che, non a caso, Edo porta sempre con sè.

Arturo colleziona mostri

C’è chi colleziona cartoline, francobolli, orologi. E poi c’è chi, come Arturo, colleziona mostri: mostri che servono a sconfiggere le paure perché una volta disegnati le fanno dissolvere. Come il Papestrega, per esempio, che una volta messo su carta fa volatilizzare la paura degli animali col becco. E come lui tanti altri, riportati fedelmente dal protagonista che apre ai lettori la sua personalissima raccolta. Fino a un’ultima pagina, lasciata vuota affinché paure ancora in agguato possano trovare un adeguato mostro che le sconfigga a suon di matite colorate.

Arturo colleziona mostri è un libro insolito per molti aspetti. Perché parte dall’esperienza reale di un ragazzo con autismo e diventa una storia fantastica che parla all’immaginazione ma che allo stesso tempo non smette di parlare di cose vere. Perché trova nei disegni di quello stesso ragazzo le illustrazioni per dare forma al racconto. Perché mette insieme generale e particolare, personale e universale, in un modo stranamente semplice ed efficace. Perché è prima di tutto un libro sulle paure ma è poi anche un libro sull’autismo e assume questa sfumatura soprattutto una volta letta la storia di Antongiulio Preziosa sul risvolto di copertina.

Versatile e d’impatto, il libro si presta non solo a una lettura piacevole ma anche un lavoro di condivisione e riflessione che prosegua oltre l’ultima pagina. In esso si trovano molti atteggiamenti tipici dei bambini autistici e sovente difficili da raccontare ai compagni, si trovano timori singolari e timori comuni, si trovano ingegnose soluzioni per superarli. Al centro, l’idea che per poter sconfiggere una paura occorra poterla visualizzare, riconoscere e nominare altrimenti resta troppo astratta e inafferrabile.

Tutto giocato sul rovesciamento, il libro trasforma i mostri in strumenti di serenità e restituisce al protagonista, così come a chi, in modo analogo, appare strano e diverso per via di atteggiamenti insoliti, un’umanità e un’abilità spesso negate. Le paure del tutto condivisibili e le illustrazioni molto espressive contribuiscono infatti ad avvicinare, dare valore e rendere meno enigmatico qualsiasi Antongiulio entri in qualche modo a far parte della nostra vita. Lo fanno in maniera molto semplice, senza velleità artistiche mirabolanti. Sta proprio nella naiveté, infatti, la forza originale di questo libro.

Siate gentili con le mucche

La figura di Temple Grandin è tra le più affascinanti e straordinarie che la storia, non solo della scienza, abbia conosciuto. Enigmatica e tenace, originale e visionaria, è a lei che si deve un fondamentale contributo alla comprensione dell’autismo, grazie alla testimonianza sulla sua personale condizione, e al miglioramento del trattamento degli animali da allevamento, grazie ai suoi studi di psicologia e scienze animali. Ecco perché la sua biografia entra a buona ragione tra quelle dedicate alle grandi scienziate dalla collana “Donne nella scienza”.

Siate gentili con le mucche ripercorre le tappe fondamentali della vita di Temple, dall’infanzia all’età adulta, mettendo in luce le sue difficoltà e le sue soddisfazioni, intrecciando i fili degli studi con quelli delle relazioni. Ne emerge il ritratto di un successo personale segnato da moltissimi ostacoli. Tra questi, la parte del leone la fa l’autismo da cui Temple è affetta e che all’epoca – siamo all’inizio della seconda metà del ‘900 – costituiva un mistero pressoché assoluto. Nonostante tale condizione ma soprattutto grazie alla diversità che questa impone, Temple raggiunge importanti traguardi accademici ed esistenziali, facendo tesoro in modo straordinario del suo modo di essere sui generis.

Il libro sottolinea questo aspetto con garbo, grazie alle parole attente di Beatrice Masini, che guardano ai fatti ma anche alle emozioni, e alle illustrazioni appassionate e profonde di Vittoria Facchini che completano con grande intensità il quadro di una personalità complessa come quella di Temple Grandin. Il tentativo è anche quello di dare dell’autismo una spiegazione comprensibile a misura di ragazzino, senza rinunciare alla correttezza scientifica. Per questo il racconto è chiuso da diverse pagine di approfondimento, in facili parole ma di alto livello, curato da persone che di autismo si occupano quotidianamente. Più di qualunque altro libro per ragazzi che affronti in qualche maniera la sindrome autistica, Siate gentili con le mucche tiene al rigore e alla schiettezza, pagando eventualmente il prezzo della comprensibilità immediata e superficiale. In accordo con la linea della casa editrice, infatti, il focus è prettamente scientifico e va dritto a soddisfare domande e desideri di comprensione di ragazzi curiosi ed esigenti.

Un segnalibro in cerca d’autore

Se una collana di libri per ragazzi funziona, perché forte di storie buone e ben raccontate, è bello pensare che lettori con età, esperienze e abilità di lettura diverse possano avervi accesso. Ecco perché l’arrivo della nuova serie proposta da Uovonero, intitolata “Vi presento Hank” e inaugurata dal volume Un segnalibro in cerca d’autore costituisce una buona notizia per chi legge e per chi la lettura la promuove. Cronologicamente successiva ma narrativamente antecedente alla fortunata serie di Hank Zipzer destinata ai lettori più esperti della scuola elementare (e perché no, della scuola media), “Vi presento Hank”si  rivolge a un pubblico leggermente più giovane proponendo le avventure del medesimo protagonista in seconda elementare. Le storie sono qui più brevi e meno articolate, oltre che stampate in formato più grande, ma mantengono la freschezza, l’ironia e l’impianto narrativo che costituiscono il vanto della serie originale. Ciò che viene mantenuto, inoltre, è l’attenzione all’alta leggibilità del testo (qui a corpo maggiore) grazie all’uso di un Verdana senza grazie e modificato nella spaziatura e nelle proporzioni e grazie a caratteristiche di impaginazione più amichevoli.

In Un segnalibro in cerca d’autore, Hank e la sua classe sono alle prese con la messa in scena di un testo scritto dall’amabile maestra  Flowers, ed Hank, in difficoltà con la lettura del copione, si vede attribuire una parte apparentemente meno impegnativa: quella del segnalibro tra le tante parti di libri. Il suo estro e la sua creatività gli torneranno utili, come spesso gli accade, per salvare una situazione critica durante lo spettacolo e per mostrare a tutti che dietro una mancanza si nascondono spesso abilità differenti. In questo senso tanto il titolo originale (Bookmarks are people too) tanto quello tradotto con un’eco pirandelliana (Un segnalibro in cerca d’autore) condensano bene l’idea che le etichette appiccicate alle persone possono fortunatamente venire capovolte e stracciate da personalità insospettabilmente talentuose.

La dislessia, qui non ancora citata ma ben riconoscibile nell’ostacolo che il protagonista vede nella lettura, trova come d’abitudine una rappresentazione realistica ma tutt’altro che didattica, offrendo lo spunto per una godibile narrazione. A questa prendono parte alcuni dei personaggi che popolano le avventure precedenti di Hank, tra cui soprattutto l’amico del cuore Frankie, il compagno prepotente Nick McKelty e l’amica Ashley, da poco trasferitasi nel palazzo. Qualcuno ancora manca invece all’appello, come il compagno sapientino Robert, e c’è da aspettarsi di incontrarlo a breve in un prossimo episodio. Le basi perché la serie possa proseguire felicemente ci sono infatti tutte e c’è da scommettere che i fedelissimi di Hank più grandicelli non resisteranno alla tentazione di dare una sbirciata ai volumi dei loro fratelli più piccoli!

Storie di Dulcinea

Storie di Dulcinea è un albo surreale ed evocativo che riflette, attraverso la forza immaginifica delle parole e delle illustrazioni, su una realtà realissima e concreta come quella della disabilità. Lo fa parlando di storie che, proprio come alcune persone, hanno bisogno di cavalli reali o di legno per poter correre.

Nato da alcune tavole di Jacopo Oliveri, vincitrici del Premio Ronzinante 2014 per la promozione della cultura della diversità attraverso l’illustrazione per l’infanzia, il libro ha accolto le parole di Francesco Gallo ed è stato pubblicato dalle Edizioni Secop con una bella introduzione di Dario Fo.

Ricchissimo di rimandi chiari ma non insistenti alla disabilità, come le ruote delle sedie a rotelle e le mani che le fanno avanzare, Storie di Dulcinea suggerisce ma non spiega, evoca ma non sancisce, richiama ma non descrive. La sua forza sta nelle innumerevoli citazioni, non solo letterarie, che popolano le immagini – dal Don Chisciotte cui si ispirava il concorso a Cenerentola, da Alice a Guernica di Oicasso. Il risultato è un albo tutt’altro che semplice (e per questo forse anche indicato per una lettura matura), ma straordinariamente suggestivo e risonante. È perciò facile che lo si apra, lo si legga e lo si richiuda con la sensazione di non aver afferrato esattamente il filo logico degli autori ma di portarsi a casa un tramestio di stimoli ed echi dentro.

Insieme più speciali

I colori di Annalisa Beghelli con cui Insieme più speciali accoglie il lettore sono una vera festa per gli occhi e un invito stuzzicante ad andare oltre la copertina. Invito sincero e affidabile: la promessa di incanto non viene infatti delusa, quando si inizia a voltare le pagine dell’albo. Popolate da vivacissimi animali più o meno selvaggi, queste offrono una cornice dal sapore batik che accende la curiosità e trasporta in un altrove esotico avvolgente.

Qui il lettore si confronta con la variegata cricca del giaguaro. Il felino e i suoi amici, di ritorno da una festa in maschera, si confidano tra loro raccontando debolezze e desideri di ciascuno. Sono solo parole malinconiche, le loro, fino a quando il saggio gufo non aiuta tutti quanti a mettere a fuoco che dietro o a fronte di una debolezza si può scoprire una ricchezza e che la collaborazione può aiutare ciascuno a migliorare e sentirsi bene con sé stesso. Sarà così, grazie al lavoro di squadra, che il giaguaro e la lucertola potranno per esempio tornare ad avere delle macchie brillanti ouna coda lunga: magari più fragili e meno perfetti di come immaginati ma comunque utili e importanti.

A raccontare tutto questo, con la misura e la raffinatezza consuete, sono le parole di Beatrice Masini: scelte e combinate con cura, queste cantano il coraggio di essere se stessi, di provare ad aggiustare ciò che fa soffrire chi ci sta accanto, di unire le forze per fare della solidarietà un’arma potente contro la rassegnazione e l’indifferenza. Il libro, che richiama alla memoria volumi bellissimi più e meno recenti – da La cosa più importante di Antonella Abbatiello a Chi vorresti essere? di Arianna Papini -, si spinge oltre la valorizzazione della differenza e dell’unicità di ciascuno, per sollecitare un atteggiamento attivo e collaborativo che migliori le condizioni di un singolo e di una collettività. Insieme più speciali nasce infatti per dare voce alla realtà di bambini colpiti da malattie rare e per sottolineare la necessità, pratica ed etica, di raccontarle, studiarle e curarle anche se i numeri e i ritorni economici direbbero il contrario.

Quello che gli altri non vedono

La differenza tra guardare e vedere può essere sottile e determinante. Nei panni dei lettori, lo scopriamo seguendo il protagonista novenne di Quello che gli altri non vedono nel suo appassionato tentativo di liberare la nonna dalla casa di riposo in cui è stata sistemata. Perché Milo – questo è il suo nome – non vede molto bene a causa di una retinite pigmentosa ma sa, al contrario, guardare benissimo. La sua visione incompleta gli permette di focalizzarsi su dettagli che ad altri sfuggono e di osservare con maggiore attenzione ciò che attira davvero il suo sguardo. È così che il bambino si accorge che l’ospizio Nontiscordardimè non è così accogliente come l’infermiera Thornhill vorrebbe far credere e che riesce a raccogliere indizi a sufficienza per smascherarla davanti a un pubblico importante.

Accompagnato da un fedele e insolito animale domestico, un maialino di nome Amleto, Milo affronta questa avventura come una questione privatissima e decisiva, per via dell’affetto smodato che prova per la nonna. Troppo maturo per la sua età, era lui a prendersene cura in casa facendo le veci di una mamma troppo occupata a districarsi tra il lavoro in crisi e un matrimonio fallito, e di un papà egoisticamente trasferitosi con l’amante a Dubai. Ma a poco a poco la sua battaglia diventa un vortice che, in misura diversa, tira in ballo i diversi personaggi con cui Milo entra in contatto: dalla cliente numero uno della mamma, al vicino fischiettante, dal nuovo inquilino di casa a (soprattutto) Tripi, il cuoco siriano della casa di riposo con una tormentata vicenda personale a familiare alle spalle.

Quel che è bello è in questo romanzo tutt’altro che smilzo di Virginia MacGRegor è che la malattia di Milo fa la sua parte senza forzare la narrazione, calamitare pietismi o subire edulcorazioni; che temi importanti e storie personali si intrecciano con grande naturalezza e gusto per l’incastro perfetto tra tasselli; e che i personaggi, dai più marginali ai più centrali, trovano occasione di emergere a poco poco, con una personalità sfaccettata, complessa e in definitiva umana.

Storia e soggetti sono molto godibili, insomma, e sanno suscitare emozioni variegate. Avrete modo di affezionarvi e indispettirvi, di trepidare e dissociarvi, di sorridere e piangere. Non scordate perciò i fazzoletti, soprattutto per l’intensa e commuovente sequenza finale, in cui un lungo addio molto sentito mette fine una fase importante della vita di Milo e segna l’inizio di un’altra. Tutto si chiude e tutto riparte: l’ultima pagina di Quello che gli altri non vedono riunisce una serie di momenti piuttosto tragici per il protagonista che ci appare però a quel punto così forte e consapevole, nonostante i suoi nove anni, da poter affrontare meglio di chiunque altro il mondo fattosi improvvisamente più buio.

Le parole giuste

Non è che a scuola, Emma, vada proprio forte. La dislessia, a lungo non riconosciuta, le causa un sacco di impicci sicché la pagella è un vero disastro. La popolarità, dal canto suo, segue a ruota soprattutto dopo che la protagonista fa a botte con Anna Clara e che gli insegnanti decidono di inserirla nel gruppi RPS – Recupero, Potenziamento, Sostegno. A completare il quadro manca solo una famiglia molto unita ma in un momento critico dovuto alla necessità di trapianto di reni del padre e della scelta della madre di fare da donatrice.

Voilà. Si capisce bene perché il mondo reale ed emotivo di Emma appaia scosso come un frappé e perché la dodicenne si ostini a cercare segni del destino, appigli e rassicurazioni in tutto ciò che le capita a tiro: le risposte della palla numero 8, il numero di macchine rosse incontrate, la velocità di discesa delle gocce sul vetro. Fino a quando segni, appigli e rassicurazioni non iniziano ad arrivare da persone in carne ed ossa che poco hanno in comune se non la capacità e il merito di trovare le parole giuste al momento giusto. In primis Alessandra, l’insegnante fuori dagli schemi che gestisce con tenacia e passione il gruppo RPS senza tirarsi indietro quando una richiesta di aiuto supplementare, psicologico o di ascolto, viene lanciata, urlata o sussurrata dai ragazzi. Ma anche Mathias, l’amico che insegna a trovare il lato buono delle sorprese e a scoprire l’importanza di condividere dolori e difficoltà ma anche risate e momenti spensierati. E poi, in ordine sparso, il papà, la mamma e la nonna che a scoppio ritardato e forse spinti (meno male!) dalle circostanze trovano la forza di dire quel che da molto tempo c’era da dire.

Ecco, passando attraverso un momento buio fatto di timori familiari, fallimenti scolastici e amicizie che si rompono, il racconto lungo testimonia una piccola rinascita, un puzzle che si ricompone, una frase che prende senso se ascoltata nella maniera più adatta. Con voce chiara e misurata tra tanti romanzi inutilmente roboanti, quello di Silvia Vecchini si candida a diventare uno dei libri-porta citati dalla professoressa Alessandra: quei libri che spalancano sguardi su mondi vicini o distanti, regalando al lettore che li incontra le parole – quelle giuste – per raccontarli e sentirli propri.

Il puzzle di Matteo

Due grandi nomi della letteratura e dell’illustrazione per l’infanzia – Luigi Dal Cin e Chiara Carrer – per raccontare con le parole e i toni giusti una sindrome rara come quella di Prader Willi. Più che una vera e propria storia, con un importante impianto narrativo, Il puzzle di Matteo sceglie di fare dell’incontro tra due bambine l’occasione per dire con garbo quali sintomi manifesta chi è affetto dalla sindrome – dall’assenza di sazietà al ritardo psicomotorio – e quali gesti quotidiani possono aiutare a renderli meno d’impiccio. Un ritratto a misura di bambino, insomma, più che una trama articolata: quel che serve per ricomporre un quadro, o per meglio dire un puzzle identitario, senza lasciare indietro nemmeno un pezzo.

Interessata a conoscerne la storia del compagno Matteo per potervi stringere amicizia, la piccola Maria chiede aiuto alla sorella del bambino, Ilaria. Con parole pacate e profumate di vita vissuta, quest’ultima traccia i contorni di una malattia e delle sue implicazioni attraverso la figura, le abitudini e le peculiarità del fratello. Conoscenza e attenzione sono le parole d’ordine che il libro velatamente suggerisce, invitando a scavare più a fondo della superficie per comprendere ed accogliere comportamenti apparentemente spiazzanti. Le crisi di rabbia, l’insaziabile appetito o le domande ripetute di Matteo iniziano così ad assumere un aspetto diverso, più riconoscibile e comprensibile. A sottolineare questa trasformazione nella percezione, lo stile soppesato dell’autore e il tratto insieme inquieto e sorridente dell’illustratrice.

Il puzzle di Matteo nasce dalla collaborazione di Kite editore, attento da tempo a tematiche delicate come la diversità, con l’Associazione Uniti per Crescere ONLUS, attiva per migliorare la vita dei bambini con problemi neurologici e delle loro famiglie, mediante la sensibilizzazione di insegnanti, genitori, compagni di classe. Il libro è in qualche modo, quindi, il racconto di esperienze reali che vale la pena di portare a galla la risonanza di penne e matite importanti come quelle degli autori  coinvolti è senz’altro un’alleata preziosa.

Sfida al buio

Carlo ed Eric sono da poco compagni di classe. Arrogante e iperprotetto il primo, studioso e diligente il secondo, i due non si sopportano e finiscono, un giorno come tanti, a fare a pungi nel bagno della scuola. La preside potrebbe sospenderli o cacciarli ma sceglie invece di ricorrere a una punizione inusitata: i ragazzi vengono invitati a partecipare agli allenamenti della squadra locale di torball: uno sport in cui, senza vedere, si vince segnando delle reti alla squadra avversaria.

Idea azzeccatissima, se si considera che la competizione non prevede l’uso della vista e che i ragazzi sono entrambi ciechi. Eric lo è dalla nascita e ha da tempo imparato a sfruttare al meglio gli altri sensi e a venire a patti con la sua condizione. Anche i suoi genitori mostrano un’abitudine e un rispetto per il figlio, così come per le sue difficoltà e le sue risorse. Carlo, invece, è diventato cieco a causa di un brutto incidente stradale. Per questo fatica di più a riconoscersi nei suoi nuovi panni, a trovare risorse alternative dentro di sé e a prendere le misure con una realtà che esiste solo al tatto. Lo stesso vale per i suoi genitori che, tra sensi di colpa e preoccupazioni esagerate contribuiscono a nutrire l’atteggiamento scontroso del figlio.

Sarà proprio il torball, sport poco noto ma molto praticato dai non vedenti, a portare i protagonisti a un punto di incontro e di svolta. Si badi bene: non che lo sport faccia miracoli trasformando Eric e Carlo in amici per la pelle, ma il fatto di avere un obiettivo comune e di dover fare squadra per raggiungerlo aiuta i ragazzi cosa ad avvicinarsi, riconoscersi e rispettarsi. Dopo le prime perplessità e i primi goffi allenamenti, i due ci prendono gusto e trovano nella partita amichevole d’esordio contro gli Scorpioni l’occasione ideale per dimostrare a sé stessi e agli altri le risorse inattese che la disabilità non condiziona.

Il libro di Luca Blengino ha proprio il merito di mostrare come si possa essere disabili, ciechi in particolare, e amare ciò che ama un qualunque adolescente: lo sport, le attenzioni, il sostegno familiare, le uscite con un amico o con una ragazza. E anche come si possa essere disabili e al contempo sensibili, attenti, solidali ma pure secchioni, arroganti, litigiosi o prepotenti. Perché il mito dei disabili dalla personalità piatta e perlopiù accondiscendente ha fatto ormai il suo tempo e c’è bisogno di storie come questa che lo raccontino in modo appassionato.

La mia Nina

Tommy e Nina sono fratelli: lui è più piccolo ma è più svelto, più responsabile e sa fare molte cose meglio di lei. Nina ha la sindrome di Down e Tommy, malgrado le voglia molto bene, non riesce a capacitarsi della sua diversità. Così fa domande su domande, mette alla prova la sorella, cerca di inculcarle nozioni complesse e si lamenta del fatto che le si facciano molte più concessioni. Fino a quando non si rende conto che alcune cose non hanno una causa da capire ma soltanto degli effetti da accettare. Sarà quello il momento in cui l’enorme affetto per Nina diventerà davvero incondizionato e sereno, al punto da far fare a Tommy una piccola follia per assecondare la passione della sorella per i treni.

 

Sebbene l’intento pedagogico e, in particolare, l’idea che tutti abbiamo abilità diverse, vengano sbandierati con un’insistenza forse troppo marcata, il libro ha il merito di partire da una fratellanza tutt’altro che scontata e dalle legittime domande infantili che una disabilità in famiglia porta con sé. I molti episodi di vita quotidiana raccontati – dalla scuola alla vacanza, dall’ora di cena alla gita in stazione – diventano così la trama sottesa a un instancabile interrogarsi sul “dove inizia l’uguale e dove finisce il diverso”.

Il delfino bianco

Nella baia in cui Kara è nata e cresciuta, in cui ha costruito con i suoi genitori l’amata barca Moana e in cui vive ora in ristrettezze economiche insieme al padre e agli zii, la barriera corallina e l’intero ecosistema marino sono in pericolo: alcuni uomini senza scrupoli – come il famigerato Dougie Evans – intendono dragare il fondo per sfruttarlo fino all’ultimo centimetro. E Kara, allevata a pane e rispetto per il mare, non può accettarlo. Sarebbe una rinuncia agli insegnamenti più importanti lasciati da sua madre, biologa marina scomparsa misteriosamente durante una missione per la salvaguardia dei delfini. Ecco perché Kara si attiva con forza quando un delfino rimane gravemente ferito a causa delle reti a strascico o quando il divieto di dragare i fondali marini rischia di essere tolto. Ci vorrà tutta la sua testardaggine e il supporto di amici attenti quanto lei alle tematiche ambientali, come il neoarrivato in città Felix, per riaccendere nella baia la speranza di un futuro più sostenibile.

 

La vera svolta nella vita di Kara arriva quando scopre In lingua maori delfino si dice Tepuih. Perché è lì, più o meno a metà del racconto, che la protagonista riesce finalmente ad accedere al contenuto della chiavetta USB lasciatale della madre, recuperando un nuovo preziosissimo ricordo di famiglia ma anche la forza necessaria per battersi per una giusta causa. Da quel momento gli eventi precipitano, avvicinandola a ritmo serrato a una possibilità di vita più serena, in cui godere di un rifugio speciale ed esclusivo per lei e per il padre; in cui rafforzare più che mai l’amicizia con Felix e in cui liberarsi dai fantasmi di un passato sospeso.

 

Le quasi duecento pagine del romanzo di Gill Evans traboccano di passione e conoscenza marina, risentono un po’ di quel mood melodrammatico tipicamente americano che carica il protagonista dell’“ultima possibilità” per salvare il pianeta, ma condensa un pezzo di vita preadolescenziale intenso e godibile. La vita di Kara non è facile ma si muove tra valori e passioni autentiche. L’agitazione dei 12 anni, quando le ragioni della realtà, della crisi e della contingenza valgono meno di zero o comunque meno di un ideale, di un ricordo o di un oggetto che li racchiuda simbolicamente, trova qui largo spazio e prepara un terreno fertile per una viva identificazione da parte del giovane lettore.

 

La disabilità, senza pretendere di essere il tema del romanzo, vi entra più di una volta e da più di una porta: attraverso la dislessia della protagonista e attraverso la difficoltà motoria, conseguenza di una paralisi cerebrale infantile, del suo amico Felix. La prima figura di striscio, senza grosso rilievo narrativo. La seconda, invece, compare più incisivamente, contribuendo a delineare un personaggio complesso come quello di Felix, ad agitare sentimenti forti nei personaggi e nel lettore e a promuovere l’idea che ci siano contesti (come il mare) e attività (come lo spor) che appianano meglio di altri le diversità imposte dall’handicap. L’impatto è onestamente positivo e capace di restituire alla disabilità una dignità piena.

Piccolo uovo – Nessuno è perfetto

Piccolo Uovo non sta mai fermo: il suo è un viaggio instancabile alla scoperta delle piccole grandi diversità che fanno colorato e interessante il mondo. Così, dopo i tipi di famiglie (Piccolo Uovo), i tipi di attività (Piccolo uovo – Maschio o femmina?) e i tipi di ricchezza (Piccolo uovo – Chi è il più ricco del reame?) che ci rendono unici, l’ovetto più curioso degli ultimi tempi non si arresta nemmeno di fronte ai territori delle diverse abilità.

 

Con il garbo e l’interesse consueti, il protagonista si interroga su come si possa trovare la strada senza vedere, riconoscere uno starnuto senza sentire, percorrere lunghe distanze senza camminare e comunicare senza parlare: quesiti elementari e comuni, in linea con il più naturale desiderio di sapere dei piccoli lettori. A rispondere, sono improvvisati compagni di viaggio che vivono e incarnano le rispettive mancanze con una serenità contagiosa: una talpa che scava precise gallerie al buio, una lumachina attenta a cogliere segnali non verbali, una foca instancabile arrivata dal Polo Nord, un pesce abilissimo a disegnare e un gatto ingegnoso animati dalle parole pulite di Francesca Pardi e dai disegni accoglienti di Altan.

 

Quel che c’è di bello e più che mai veritiero, in queste coloratissime pagine, è che il superamento degli stereotipi più elementari che circondano le disabilità si attiva grazie a incontri fortuiti, a conoscenze dirette, ad amicizie inaspettate. Ne scaturisce un invito fortissimo anche se silenzioso a fare di ogni viaggio un’occasione preziosa per rendersi aperti e sinceramente curiosi nei confronti dell’altro, di qualunque tipo questo “altro” sia.

Facciamo che io ero?

Chi non ha mai giocato al Facciamo che io ero? alzi la mano! L’inventare e il vestire i panni di qualcuno o qualcos’altro ha segnato in effetti l’infanzia di generazioni le più disparate, soddisfacendo un naturale desiderio di evasione narrativa. Fa centro dunque, l’autrice, quando decide di partire da questa comunissima esperienza per raccontare una storia verosimile e familiare di bambini, di gioco e di inclusione.

 

In Facciamo che io ero? ci sono i supereroi, i musicisti, i professionisti e le principesse che il protagonista e i suoi compagni amano impersonare. E c’è pure il trenino che tutti insieme, sotto la guida della maestra, compongono muniti di sedie e pronti a partire per destinazioni ogni giorno diverse. È solo a questo punto, quando giochi e riti di classe sono svelati, che fa la sua comparsa Pippetto (certo, un nome meno fittizio non avrebbe guastato…): il nuovo compagno che si muove in sedia a rotelle. Nemmeno il tempo di presentarlo che il protagonista che dà la voce al libro si attiva per far sentire accolto e partecipe il nuovo arrivato, trasformando la sua carrozzina nella più potente delle locomotive.

 

Storia (firmata da Anna Baccellieri) e illustrazioni (curate da Liliana Carone) non stupiscono per originalità o qualità pur avendo il merito di valorizzare esperienza realmente vicine al mondo dei potenziali lettori. La disabilità, che pur è centrale, trova posto in corsa, quasi di sfuggita, attraverso l’atteggiamento positivo e inclusivo del protagonista che porta avanti un implicito invito a riconoscere nella diversità una vera ricchezza.

La chitarra di Django

La chitarra di Jango è un albo illustrato che non parla semplicemente di jazz, lo suona. Con parole e illustrazioni misurate ma colme di ritmo, l’accoppiata Silei e Alfred dà vita a pagine che fanno muovere il capo e tamburellare le dita. Il loro è un racconto al contempo drammatico e incredibile, tutto incentrato sulla storia straordinaria di Jean Reinhardt , per gli amici e il pubblico: Django.

Talento del banjo di origine sinti, nella scintillante Parigi degli anni ruggenti, Django resta ferito a causa di un incendio nella roulotte in cui vive. Una gamba ma soprattutto due dita della mano sinistra compromesse: il peggior destino per chi si guadagna da vivere suonando uno strumento. A meno che questo qualcuno non sia in possesso di una tenacia inconsueta e di un dono fuori dal comune. Guarda un po’, questo è proprio il caso di Django che dopo l’incidente mette a punto una tecnica tutta sua per suonare la chitarra, segnando con forza lo sviluppo della musica jazz. La sua diventa così la storia non solo di un prezioso talento ma anche della capacità di sfruttarlo a dovere, trasformando una situazione di profonda difficoltà in un’occasione per reinventarsi a partire da risorse inattese.

Autore e illustratore raccontano questa rinascita con l’abilità di chi sa cogliere una traccia musicale in un gran trambusto. Di Django, del suo stile inimitabile e della sua vita fenomenale, i due sanno rendere prima di tutto l’irresistibile ritmo manouche, grazie a dialoghi scanditi, suoni e sonorità selezionate, toni e tinte che si accendono all’occorrenza. Offrendo all’albo di Uovonero non solo il titolo ma anche il punto di vista narrativo, La chitarra di Django mostra il protagonista da distanza ravvicinatissima, quasi intima, tanto da far vibrar corde insolite e profonde del lettore. Lo si percepisce soprattutto se ci si concede una lettura ad alta voce che fa davvero prender corpo alla storia. Perché una storia così merita di risuonare non solo nella testa ma anche nelle orecchie.

Occhio a Marta!

Andrea è un ragazzino di 13 anni che si porta appresso tutto il carico di dubbi, interrogativi, scoperte, desideri e timori tipici della sua età. Nel passaggio dalla terza media alla prima liceo viene fotografato minuziosamente dalla penna di Daniela Valente che ne registra i pensieri e le emozioni. Occhio a Marta! è dunque una sorta di diario che racconta la crescita in un momento tanto delicato quale l’adolescenza.

Ma chi è questa Marta che fa capolino fin dal titolo? Marta è un’amica di Andrea, nata il suo stesso giorno due anni prima e figlia di un’mica stretta di sua mamma. Marta ha dunque 15 anni ma ne dimostra solo cinque, a volte tre. Capisce tutto ma non sa parlare bene, va a scuola come gli altri ma non fa i loro stessi esercizi, ama la compagnia dei compagni ma difficilmente viene persa di vista dai genitori. Marta è un’amica “con il silenzio in testa”, un’amica che cresce accanto ad Andrea ma con un ritmo tutto suo e seguendo un binario che porta altrove. L’affetto che Andrea prova nei suoi confronti è disinteressato e sincero e, man mano che gli anni passano, si modifica nelle manifestazioni pur non cambiando nell’essenza. Tra le riflessioni e la giornate di Andrea, Marta fa ogni tanto la sua comparsa stimolando il protagonista a interrogarsi ancora più a fondo su cosa significhi crescere e su cosa ci renda uguali e diversi dagli altri.

Il libro è tutto incentrato sulle piccole esperienze quotidiane che coinvolgono il protagonista: dalla gita scolastica al rapporto con il fratellino, dalle vacanze alla prima cotta, dai compiti ai pomeriggi di svago dopo la scuola. Non c’è dunque una trama articolata ma piuttosto una scelta narrativa pacata e pensosa in cui la disabilità è ben presente pur senza monopolizzare il racconto. La penna adulta si riconosce senz’altro da alcune considerazioni molto mature e da qualche insegnamento disseminato qua e là, avvolto in un continuum di pensieri in cui la bellezza e la criticità dei primi anni di scuola superiore emergono con forza.

Rico, Oscar e la pietra rapita

Avventurarsi tra le pagine di Rico, Oscar e la pietra rapita assicura un buon miscuglio di  trepidazione e di amarezza, che derivano rispettivamente dall’attesa ben ripagata del volume e dalla consapevolezza che con questo la spassosissima serie di Andreas Steinhöfel (comprende Rico, Oscar e il Ladro Ombra e Rico, Oscar e i cuori infranti ) si chiude. Anche in quest’ultimo episodio – come anticipa gustosamente il titolo – un mistero è dietro l’angolo e quando un mistero è dietro l’angolo non sono certo Rico e Oscar a tirarsi indietro.

Al centro della vicenda c’è una preziosa pietra da allevamento posseduta dallo scorbutico vicino di casa Orsi, ereditata alla sua morte da Rico ma rubata da qualche losco individuo poco dopo il funerale del primo proprietario. Per recuperarla i due amici devono fare tesoro dell’esperienza accumulata durante le indagini precedenti e cimentarsi con una lunga sfilza di pedinamenti, sabotaggi, spionaggi e camuffaggi prima di poter mettere insieme tutti gli indizi e stampare un lieto fine anche su questa avventura.

Sarà necessario, per loro, arrivare fino al mar Baltico, per venire a capo della matassa: non solo di quella che svela il furto della pietra ma anche e soprattutto di quella che aggroviglia i fili emotivi delle loro vite. Il travagliato viaggio verso nord, dove peraltro finiscono per trovarsi svariati inquilini del palazzo Dieffe 93, diventa così un percorso per fare pace con due infanzia a loro modo difficili, in cui affetti mancati o mal espressi, diversità, paure e frustrazioni si sono accumulate fino traboccare con un’irruenza inattesa. Più che negli episodi precedenti, l’autore concentra in questo romanzo i silenzi eloquentissimi, i confronti accesi e le reazioni vive dei due ragazzi che segnano in qualche modo la loro crescita, come individue e come amici.

Attorno al nocciolo narrativo, tutto incentrato sulla raccolta di indizi per il recupero della pietra vitellina, si sviluppano tante microstorie e altrettanti tasselli che danno completezza non solo a questo terzo libro ma all’intera trilogia: dall’allargamento della famiglia di Rico, al fidanzamento tra la signora Dolci e il signor De Brocchis nel segno di prelibate tartine; dal riavvicinamento tra Oscar e suo papà Lars alla laurea del giovane Berts in cui Rico trova una sorta di fratello maggiore acquisito. Non da ultimo, il legame di Rico e Oscar con un nuovo amico, già comparso di sfuggita in un episodio precedente e ora a pieno titolo incluso nella strampalata banda di detective. Con la sua rara abilità nel decodificare il labiale, Sven contribuisce infatti attivamente a incastrare i ladri di pietre sulla spiaggia di nudisti di Prerow. La sua sordità – sarà per la sveltezza con cui Oscar apprende la lingua dei segni, sarà per l’empatia che Rico sviluppa nei suoi confronti – trova nei due protagonisti un’accoglienza rispettosa e naturale.

Come a sottolineare – qualora la stramberia di Oscar e la lentezza di Rico non lo facessero abbastanza chiaramente – che una difficoltà non ignorata ma riconosciuta e supportata è una difficoltà rimpicciolita, come se fosse guardata con uno zoom all’indietro. Zoom, non a caso, è proprio una di quelle parole di cui Rico offre una sua personalissima definizione, a questo proposito più che mai illuminante: “Zoom = aggeggio della macchina fotografica che funziona quasi come un palindromo, avanti e indietro. Infatti può avvicinare a allontanare le cose che in realtà rimangono sempre uguali. Per non confondersi tra le due direzioni, si potrebbe dire zoom per avvicinare e moom per allontanare. Invece niente da fare, perché semplificare le cose se possono essere più complicate?”

Io e mio fratello

Nel bel libro di Isabel-Clara Simò, scrittrice catalana pluripremiata, ci sono prima di tutto un fratello adulto con la sindrome di Down e una sorella dodicenne che se ne prende cura. Il resto della famiglia – padre militare e madre mondana – sono fisicamente presenti ma a tutti gli effetti piuttosto assenti dalla vita dei due figli. Per chi ha letto Mio fratello Simple di Marie-Aude Murail, questo quadro risulta a tratti familiare e noto, ma Io e mio fratello rivendica una personalissima originalità adottando il punto di vista di Mercé (la piccola di casa che si improvvisa grande), raccontando in maniera più intima il trauma di un handicap in famiglia e riprendendo, senza sconti linguistici o narrativi, una quotidianità piuttosto travagliata.

Nelle 122 intense pagine del romanzo, la protagonista Mercé rende conto dei suoi pomeriggi al contempo abitudinari e spiazzanti in compagnia del fratello Paul, della sua passione per il teatro, del suo senso di inadeguatezza nei confronti della migliore amica e della sua frustrazione nel farsi carico di una situazione familiare insolita e tutt’altro che banale. Poi, quando meno te lo aspetti, trama e routine subiscono un’inattesa svolta: Paul si innamora di Maria, la figlia della domestica di casa, anch’essa affetta dalla  sindrome di down.  A quel punto i contrasti familiari si inaspriscono, le questioni legali e burocratiche fanno capolino (rallentando, in effetti, un po’ il ritmo narrativo) e la realtà viene a chiedere di pagare il conto. E lo fa nella maniera più brusca possibile, non solo nei confronti dei personaggi ma anche del lettore che, dopo aver sorriso a lungo di fronte all’ingenuità brillante di Paul e alla schiettezza pungente di Mercé, si trova incredulo a scorrere un’ultima e disorientante pagina.

Forte di uno stile incalzante e verace, Io e mio fratello ritrae efficacemente la complessità emotiva e psichica che contraddistingue i giovani con sindrome di Down e che troppo spesso viene trascurata in nome di uno stereotipo di costante e inscalfibile contentezza.  Allo stesso tempo, l’autrice fa emergere prepotentemente i tormenti interiori di chi di giovani come Paul si prende cura, giorno dopo giorno. In quel suo imprecare e ricordare di frequente che ha “soltanto dodici anni”, Mercé sottolinea la sua difficoltà di vivere una maturità che la sua età non richiederebbe e che ciononostante, per necessità, si sforza di mettere in campo. I suoi sentimento contrastanti affiorano vulcanicamente nelle piccole e grandi sfide quotidiane che vanno dal seguire il fratello Paul al posto di fare i compito al gestirne l’emotività durante l’inatteso innamoramento. Dalle sue parole trasudano un affetto smisurato e un fastidio che mai si dissocia dal senso di colpa. Le sue giornate sono costellate di rimuginazioni, sbuffi, atti di dedizione e pazienza e sacrifici. “Un conto è volergli bene – afferma a un certo punto, lucidamente, la ragazzina – un altro sono queste rinunce che, oltretutto, nessuno apprezza perché nessuno nota”. La richiesta di attenzione, supporto e riconoscimento non potrebbe essere più esplicita e contribuisce a fare di Mercé, oltre che di Paul, un personaggio straordinariamente incisivo e difficile da dimenticare.

Hank Zipzer e i calzini portafortuna

E siamo a quattro. Se le avventure di Hank Zipzer alle prese con cascate in miniatura, pagelle tritate e iguane in procinto di figliare non hanno esaurito la vostra fame di storie spassose, ecco che il felice personaggio creato da Henry Winkler e Lin Oliver è pronto a scendere in pista con un nuovo episodio tutto da gustare. Preparatevi a un racconto in cui competizione, spiriti guida e calzini rossi con ricamate scimmie rosa si mescolano in maniera imprevedibile.

Nella scuola di Hank, si avvicinano infatti le famigerate Olimpiadi che ogni anno vedono gli allievi  sfidarsi a suon di partite di baseball, quesiti cervellotici e insolite prove di igiene. Per il protagonista è l’occasione di realizzare un sogno, sbaragliando la concorrenza come battitore di baseball. Ma come fare se il segreto dei suoi lanci sta in un paio di calzini portafortuna che anche sua sorella Emily vuole indossare proprio il giorno della gara? Hank dovrà ricorrere a forze e rinforzi alternativi che tutto hanno a che vedere tranne che con la scaramanzia e la superstizione. Avrà bisogno, cioè, del sostegno e della fiducia di Ashley – prima allenatrice femmina della scuola -, della motivazione e delle piccole accortezze di Frankie – l’amico che conosce le sue piccole debolezze e sa come minimizzarle -, delle soluzioni geniali di papà Pete – il presentissimo nonno che crede in lui fin dall’inizio – e dell’affetto, talvolta dissimulato ma sempre vivo, del resto della famiglia. Senza dimenticare il coraggio di mettersi in gioco e – non ultimi – la conoscenza e il rispetto dei propri limiti che solo Hank può tirare fuori. Non è da tutti, infatti, saper riconoscere quando lanciare la palla decisiva e quando, invece, è meglio lasciare campo a chi sa afferrare un tiro meglio di noi.

Hank Zipzer e i calzini portafortuna, come i precedenti volumi della serie, è stampato secondo criteri di alta leggibilità che agevolano la lettura anche in caso di dislessia, da cui è peraltro è colpito anche lo stesso Hank. Nominata senza timore e raccontata senza monopolizzare l’attenzione del lettore, la dislessia emerge nei fatti narrativi piuttosto che in noiose spiegazioni: e questo fa della serie di Uovonero una meritevole proposta nel panorama editoriale attento a queste tematiche. Non solo: l’esistenza stessa di una serie diventa qui funzionale alla conoscenza e all’approfondimento dei Disturbi Specifici dell’Apprendimento dal momento che di episodio in episodio gli autori si preoccupano di metterne in luce aspetti diversi e progressivi. Così, dal riconoscimento delle difficoltà alla diagnosi, passando attraverso il confronto con gli insegnanti, si accenna qui all’utilizzo di strumenti compensativi, come le registrazioni audio dei testi da studiare, contribuendo indirettamente a facilitarne l’accettazione anche da parte dei lettori dislessici.

Roby che sa volare

Spalancare le braccia, scivolare nell’aria e farsi trasportare lontano. In una parola: volare. Roby lo fa spesso. A casa, a scuola, per strada, al supermercato: il bambino ascolta il richiamo del vento e si stacca dalla realtà con la leggerezza di un uccello. Ma questo suo modo di librarsi lontano dalle cose e dalle persone di tutti i giorni non piace granché a chi gli sta intorno perché finisce per causare disastri, perché lo fa apparire strambo o perché lo fa distrarre più di quanto non sia concesso. Succede perciò che i compagni di scuola lo sbeffeggino, che il preside lo sgridi o che la supplente lo faccia controllare a vista dal bidello per evitare guai.

Tutte energie sprecate. Il vento non si fa imbrigliare da chi pone insensati divieti o da chi, semplicemente, non ne coglie il sussurro. Così Roby continua a prendere il volo, sotto gli occhi preoccupati e pazienti della mamma. Fino a che  una figura sensibile e attenta come quella della maestra Serena – dal nome più che mai eloquente – non offre al bambino le redini con le quali cavalcare il vento senza farsi trasportare via al galoppo, sfrenatamente. Quelle redini non sono altro che delle storie: quelle che il vento suggerisce, quelle che i mondi immaginari offrono e quelle che i viaggiatori con la testa tra le nuvole possono condividere con chi li circonda al ritorno dalle loro avventure.

Nella storia di Roby si legge la diversità di tanti bambini iperattivi o con disturbi dell’attenzione e l’importanza di dare un senso alle loro cavalcate in mondi distanti e distratti. L’autore, Gabriele Clima, racconta come in punta di voce una realtà così delicata e di cui ancora si parla molto poco, accompagnato da sparute e malinconiche illustrazioni di Cristiana Cerretti. Ne nasce un libro che, pur non nascondendo del tutto il suo intento di “parlare di…”, sa sussurrare con garbo e fantasia alle orecchie dei lettori.

Io ti faccio amico

Tre racconti di diversità che spaziano dall’autismo alla dislessia, dal colore della pelle alla distrofia muscolare. Ferdinando Albertazzi si accosta con garbo al tema della differenza, attraverso tre narrazioni brevi e ricche di immagini: non solo quelle delicatissime di Sophie Fatus (purtroppo in bianco e nero) che popolano e variegano le pagine, ma anche quelle linguistiche che l’autore sparge generosamente lungo tutto il testo.

Le storie raccontate sono quelle di Carlotta, che scopre i pregi di quel bambino taciturno, strano e dalla postura ciondolante di nome Luca; di Ludovico, che impara a riconoscere nella sorellina adottata un autentico tesoro di famiglia; e di Betta, che trova nella vicina di casa un’amica capace di superare la diffidenza per la sua malattia. Ecco, a unire tutte queste storie c’è una comune attenzione ai pregiudizi prima e alle emozioni poi, in un percorso condiviso che vede nella positiva curiosità la chiave di volta di relazioni difficili, talvolta insperate.

Malgrado il ricorso a cliché che vogliono a tutti i costi rendere positiva la diversità (vedi l’autismo come condizione che implica un’intelligenza superiore alla Rainman) il libro sottolinea in modo molto efficace l’importanza di puntare sulle risorse presenti nell’handicap per aprire possibilità di interazione preziose. Mettendo inoltre a confronto diversità dal peso e dalla consistenza differenti, esso invita a cogliere l’estrema relatività che caratterizza i problemi di ogni essere umano.

Innamorasi di April

Innamorarsi di April è un romanzo per giovani lettori, o più probabilmente lettrici, solido e rassicurante. Vi si trova tutto ciò che ci si può aspettare e tutto ciò che forse si pretende da questa particolare tipologia di volumi: i primi amori, rapporti conflittuali, dinamiche famigliari controverse, la scoperta della sessualità, qualche guaio e molti segreti. Non a caso il romanzo figura tra i titoli della collezione Gaia junior che tradizionalmente scova nel panorama editoriale per adolescenti, i titoli più accattivanti da proporre a lettori e lettrici appassionati.

Tra queste pagine in particolare, ci si ritrova immersi in un passato non troppo lontano – quando ancora le auto si alternavano alle carrozze e la divisione in classi sociali risultava netta e marcata – e si finisce per affezionarsi ad una protagonista un po’ ribelle un po’ difficile da inquadrare nella sua reale personalità. April è una ragazzina di famiglia umile, cresciuta alla bene e meglio dalla madre e tenuta a distanza dalla comunità del villaggio dopo che, divenuta sorda per un incidente, ha iniziato a mostrarsi stramba e a esprimersi con difficoltà. Ci vorrà l’arrivo di  Tony e di sua madre, abituati ad una vita di agi ma improvvisamente costretti a rinunciarvi, perché a April venga riconosciuta la sua dignità e tutto il villaggio sia costretto a fare i conti con un assetto di pensiero stagnante e bigotto.

Così, tra innamoramenti, fughe, nascondigli e taciute violenze, April trova il suo riscatto personale, come giovane donna ma anche come persona sorda. La disabilità uditiva viene qui dipinta con particolare realismo, senza tacere i commenti e gli interrogativi che abitualmente reca con sé. Quel che risulta particolarmente interessante è che nonostante l’ambientazione in un generico passato, i pregiudizi e le reazioni dipinte a fronte dell’handicap sono più che mai attuali e costringono efficacemente il lettore  a confrontarvisi prima di sottolineare come una conoscenza e una relazione autentica con le persone possa intaccarli con grande forza.

Noi

Noi è uno di quei libri che si fanno notare poco – sarà per la stazza sottile o per la promozione contenuta – ma che meriterebbero invece massima diffusione. Noi è infatti un piccolo gioiello, confezionato con cura minuziosa e sentimenti autentici, capace di raccontare degli incontri, dei timori, e delle emozioni che spesso restano taciuti per imbarazzo o pudore.

Noi è la storia di un bambino come tanti che la vita scolastica porta a imbattersi in un compagno diverso. Un compagno strano nell’aspetto, con un occhio di dimensioni spropositate, che suscita paura, interrogativi e persino disgusto. È quel compagno che resta sempre solo, poiché il gruppo lo tiene a distanza facendosene beffe e fantasticando sulle cause della sua difformità. Perché, com’è normale, la diversità fa porre domande e serve che queste trovino ascolto e risposte per non sfociare nella diffidenza. Quando questa si insinua sono le occasioni fortuite a permettere talvolta di superare le barriere e i pregiudizi. Così accade al protagonista che, trovatosi solo con il compagno, inizia a scoprire i tesori che, dentro e fuori, questi nasconde.

Commovente nella sua schiettezza, percepibile non solo nelle parole ma anche nelle immagini (cosa tanto più insolita), l’albo è reso palpitante dal testo misurato di Elisa Mazzoli e dalle illustrazioni evocative di Sonia MariaLuce Possentini. Retto da una sapiente struttura in cui si bilanciano il prima e il poi e soprattutto  il lui e il noi, il libro racconta di come l’occasione faccia l’uomo, non sempre ladro, ma anche, talvolta, umano.

Chicolo

In Chicolo si trovano un bimbo speciale, un mago, un incantesimo potente e un paese insieme distante e vicino: tutti ingredienti essenziali per dare alla storia un sapore fiabesco e alleggerire il suo intento  di portare un messaggio ben preciso.

Nell’albo di Coccole books, si racconta di un bambino fantastico con le labbra a quadrifoglio ma si legge di bambini reali con un problema complesso come la labiopalatoschisi, più comunemente nota come labbro leporino. Il libro nasce proprio dall’esperienza di una mamma di un bimbo colpito da questa malformazione e vuole essere un contributo appassionato per diffonderne la conoscenza, così da arginare i timori che essa genera e da dare sostegno a chi la sperimenta sulla propria pelle.

A questo concorrono senz’altro le pacate illustrazioni pastello di Sonia Cattaneo che, come una carezza, invitano a scoprire senza paura i molti volti della differenza.

La bambina, il cuore e la casa

Sullo sfondo di un’Argentina sonnacchiosa e malinconica si distende indolente la vita di Tina e della sua famiglia. Ogni domenica la protagonista de La bambina, il cuore  e la casa parte con il papà dalla dimora in cui i due vivono per raggiungere la mamma e il fratellino Pedro, che abitano invece fuori città. La domenica è quindi per lei il giorno degli affetti, del gioco, dei piccoli piaceri condivisi e della completezza familiare. Quando cala la sera, però, seguendo un tragitto contrario, Tina e il papà riprendono la via di casa in attesa che i sette giorni successivi passino più in fretta possibile. La distanza e gli arrivederci infliggono ogni volta piccole ferite che ognuno rielabora alla sua maniera: con profonda e fiacca tristezza, per esempio, la mamma, e con cocciuta e ostinata ribellione, Tina. Sarà proprio quest’ultima, con l’entusiasmo curioso e coraggioso dei suoi cinque anni, a interrogarsi per prima sulla reale necessità della famiglia di vivere separata e a insistere per sperimentare un’alternativa là dove l’arrendevolezza degli adulti rendeva impossibile persino vederla.

In questo racconto di quotidianità rinnovate, trova uno spazio insolito la figura di Pedro. Intorno alla sua malattia che malattia poi non è – la sindrome di Down –  ruotano molte delle decisioni spesso incomprensibili della famiglia di Tina. Ma lo fanno con quella vaghezza diffusa che impedisce alla protagonista così come al lettore di comprendere esattamente quale sia il problema. Per questo, nel fluire coinvolgente della narrazione, rimane della disabilità un piccolo e autentico ritratto: il ritratto di qualcosa che difficilmente trova una definizione emotivamente accettabile, che genera distacchi e avvicinamenti più o meno consapevoli e che non cessa di generare domande, talvolta insolute.

Maria Teresa Andruetto racconta tutto questo con uno stile inconfondibile, profondamente sudamericano e capace di rendere la narrazione melodiosa come una nenia. In quello stile confluiscono tutti i racconti della sua infanzia e tutto il sapore di una storia familiare tormentata e insieme permeata di affetti. La sua cifra – proprio quella che forse le è valsa il prestigiosissimo Hans Christian Andersen Award 2012 – sta proprio nella capacità di dare un ampio respiro alla sua scrittura intercettando tuttavia il succo emotivo più caro all’infanzia.

Lo straordinario signor Qwerty

Il signor Qwerty ha la casa piena zeppa di invenzioni e la testa piena zeppa di idee. Queste ultime le tiene però nascoste sotto il cappello, per paura che gli altri possano vederle e giudicarlo male, ritenendole strambe. Cosa potrebbero pensare, infatti, di fronte ai progetti di marchingegni elaborati, fatti di cucchiai ad elica, lampadine ad artiglio e ingranaggi a pressione? Quello che il signor Qwerty non immagina neppure è che anche sotto i copricapi lucchettati delle altre persone si celino pensieri variegati: pensieri matematici, lungimiranti, giocosi o scientifici, visibili in trasparenza al solo lettore. Quel che è certo è che pensieri così costretti, senza possibilità alcuna di prender aria e librarsi, sono condannati a stagnare in solitudine. A meno che, come capita proprio al signor Qwerty, le idee non finiscano per esplodere e scappare. E quando un’idea scappa, può generarsi un’autentica baraonda: i serratissimi cappelli dei passanti iniziano, infatti, a scricchiolare e a cedere a loro volta, perché il pensiero genera pensiero e le idee che si incontrano non possono che dare frutto. Così, come il La di uno strepitoso concerto, l’incidente del signor Qwerty dà vita ad un’invenzione  che esaudisce desideri, asseconda passioni e stimola progetti nuovi, invitando a schiudere i cappelli e a condividerne il contenuto.

Un’invenzione straordinaria, insomma, come il suo creatore ma anche come l’albo firmato da Karla Strambini che ne racconta la storia. Incredibilmente ricco, stratificato, aperto a molteplici interpretazioni, questi fa di ogni rilettura una possibilità di scoperta. Si riconosce, in particolare, una rara alchimia tra le parole e le immagini, poiché nelle seconde si nasconde un mondo che le prime accennano ma non svelano. Il lettore si trova così a cercare e ricercare i dettagli più nascosti e stuzzicanti per interpretare meccanismi, invenzioni e pensieri del protagonista. Prendendosi il tempo di cogliere tutti gli ingranaggi, si arriva perciò ad apprezzare a pieno l’idea che la diversità possa generare possibilità di condivisione e felicità. Così, attraverso immagini portatrici di senso, personaggi sui generis, e pensieri che prendono forme inusitate, l’autrice sembra voler fare un omaggio tutto personale a Temple Grandin, suggerendoci a suo modo che “il mondo ha – davvero – bisogno di tutti i modi di pensare”.

Le parole di Bianca sono farfalle

Le parole di Bianca sono farfalle è un Albo Illustrato con la A e la I maiuscole. Evocativo, profondo, colmo di suggestioni che riecheggiano dentro il lettore senza gridare forte, il libro edito dalla Giralangolo è grande nel formato e nella portata: “un libro pieno di riverberi”, insomma, volendo rubare le parole  allo scrittore David Almond.

Al suo interno, tra collage a tinte pastello e racconti che paiono avere le ali, le autrici raccontano il mondo di Bianca e la sua maniera tutta particolare di sentire con la pelle, di parlare con le mani, di vedere aspetti impercettibili e di fare cose fantastiche in buona compagnia.  Il libro prova, cioè, a mostrare più che a spiegare che possono esserci tanti modi di vivere, interpretare e comunicare con il mondo, anche quando la natura non concede la possibilità di farlo convenzionalmente. La sordità di Bianca diventa così un’occasione anche per il lettore di dare una veste nuova ai propri e agli altrui sensi.

Bravissima, in questo, Chiara Lorenzoni, ricercatrice minuziosa di parole, che racconta il quotidiano con una musicalità che culla e ristora. E meravigliosa Sophie Fatus, illustratrice della positività, che porta suggestione e trasporto gioioso nelle sue forme spensierate e impalpabili. L’unione dell’opera delle due artiste è un inno alla leggerezza del pensiero e dell’azione, un invito ad ascoltare e narrare il mondo facendo ricorso a tutte le nostre possibilità.

Hank Zipzer e la pagella nel tritacarne

Sfatiamo un mito: i lettori con DSA esistono. Ossia, non è detto che la presenza di un disturbo specifico dell’apprendimento conduca necessariamente chi ne è colpito a ripudiare la lettura.  Posti nelle condizioni giuste e provvisti degli strumenti adeguati, anche i ragazzi dislessici possono scoprirsi lettori appassionati e desiderare, pertanto, letture soddisfacenti. Ecco perché la seconda avventura di Hank Zipzer e la certezza che sarà seguita da molte altre costituisce una buona notizia da cogliere al volo. Il nuovo volume scritto a quattro mani da Henry Winkler alias Fonzie  e da Lin Oliver è infatti agevolmente leggibile a livello tipografico ma anche stimolante a livello narrativo. Esso offre quindi una storia ben articolata, un racconto di qualità e un volume consistente, che appagano le aspettative spesso trascurate di lettori con esigenze speciali ma anche con un certo allenamento alla lettura.

Nelle 206 pagine stampate in carattere ad alta leggibilità (non proprio un font specifico ma un Verdana modificato e pertanto più chiaro), si seguono a perdifiato i nuovi guai di Hank Zipzer e dei suoi amici Ashley, Frankie e Robert, coinvolti nell’occultazione della disastrosa pagella del protagonista. Infilata nel tritacarne della gastronomia Il sottaceto croccante in un disperato tentativo di nasconderla ai genitori di Hank, la scheda scolastica finisce nell’impasto del celebre salame di soia di mamma Zipzer, rischiando di compromettere irrimediabilmente gli affari con il colosso della distribuzione Gristediano. Starà ad Hank, al suo cervello fino e alla sua indole onesta, rimettere le cose a posto grazie all’aiuto degli inseparabili amici, ai consigli del saggio papà Pete e a un briciolo di fortuna che, come si sa, non manca di aiutare gli audaci. Non a caso, non solo la faccenda del salame di soia si sistema ma Hank finisce per fare il test sui disturbi specifici dell’apprendimento e chiudere questa secondo episodio con una consapevolezza e una serenità tutte nuove.

Spiritoso e schietto come il suo protagonista, Hank Zipzer e la pagella nel tritacarne si fa leggere con piacere e con gusto. Lontano dall’apparato di commenti e spiegazioni che spesso appesantisce i libri per ragazzi che affrontano la dislessia, il volume preferisce concentrarsi sulle cose che succedono e sulle cose che si provano. In questo modo, esso sembra davvero rivolgersi ai giovani lettori, strizzando loro l’occhio e raccontando loro con autenticità quanto possa esser frustrante sentirsi incompresi e come invece “ci si senta bene a fare le cose giuste” e ad esser sostenuti nel farle.

Ciao, io mi chiamo Antonio

L’uscita in libreria di Ciao, io mi chiamo Antonio è prima di tutto una buona notizia perché segna un momento di svolta nella proposta di libri ad alta leggibilità. Le Edizioni Sonda hanno infatti stampato il volume in un font particolare, detto Easyreading, messo originariamente a punto da un’altra casa editrice: ciò significa che questo carattere specifico per dislessia ha potuto trovare una moltiplicazione delle occasioni d’uso, evitando di restare vincolato alla sola produzione dei suoi creatori. In questo modo l’importante lavoro di progettazione e sperimentazione che si cela dietro uno strumento importante come un font adattato viene ceduto e condiviso nella più proficua ottica inclusiva.

Come già accaduto con i volumi scritti da Henry Winkler (alias Fonzie) e dedicati al personaggio di Hank Zipzer, anche qui si rileva l’intenzione di coniugare un testo accogliente per lettori con DSA ma che al contempo offra loro un’occasione narrativa in cui ritrovarsi e farsi ritrovare dai compagni. Antonio è infatti un ragazzino di quinta elementare alle prese con una vita scolastica e familiare ricca di imprevisti e piccole emozioni: le gare sportive studentesche, il ritrovamento di un portafoglio smarrito, i pasticci con la polizia per un compito svolto fin troppo bene. A corredo, l’amicizia con Riccardo, i litigi con la sorella Erica, le stramberie di mamma e papà, la prima cotta per Margherita e, sì, anche la difficoltà imposte da un disturbo specifico dell’apprendimento. Vissuto però con discreta serenità, questo non viene posto al centro della vicenda ma giustamente considerato alla stregua di qualunque altro tratto distintivo del personaggio.

A firmare queste avventure quotidiane è la penna del chivassese Angelo Petrosino. La sua mano si distingue, in particolare, nella scelta di personaggi e situazioni in cui i giovani lettori possano agevolmente riconoscersi, in una morale spesso un po’ spiccia e che non manca d’esser rimarcata, in un’architettura ad ampio respiro che predispone lo sviluppo di nuovi episodi e nella successione di piccoli avvenimenti in luogo di una trama complessa e completa. A supportare il tutto, l’alternanza tra capitoli di testo e riassunti a fumetto degli avvenimenti principali: un’idea insolita che, pur non  risultando molto chiara e del tutto accessibile a chi soffre di dislessia, ha il merito di alleggerire e ravvivare la lettura.

Rico, Oscar e i cuori infranti

Rico e Oscar, amici portentosi, escono vincitori dalla loro prima indagine (Rico, Oscar e il Ladro Ombra) e tornano subito in pista con un nuovo caso. Dopo aver conquistato il pubblico e la giuria del premio Andersen con la sua prima avventura, la coppia di amici più bislacca e travolgente degli ultimi anni, si cimenta infatti in una nuova investigazione. Stessa formula, risultato simile: il lettore ritrova infatti i personaggi spassosi e appassionati lasciati al primo episodio e lo spirito fresco con cui l’autore affronta situazioni scottanti e più che mai reali come i diversi disastri familiari che possono toccare un bambino. Il ritmo narrativo, dopo un avvio un po’ ingolfato, ritrova il consueto andamento ben cadenzato che mantiene il lettore sulle spine fino alla risoluzione del mistero.

Apparentemente inspiegabile, infatti, è il perché la mamma di Rico imbrogli alla tombola parrocchiale e venda su Ebay borsette costosissime recuperate chissà dove. Partendo da questo misterioso interrogativo, l’entusiasmo appassionato di Rico e l’acutezza brillante di Oscar porteranno i due sulle tracce di un pericoloso ricettatore e ricattatore. Il tutto, facendo lo slalom tra i guai familiari di Oscar, abbandonato dal padre fino a data da destinarsi, le imboscate amorose delle gemelle Mela e Afra Ballotti, attratte dal valore mediatico dei due ragazzini, e il contributo eroico del vedovo De Brocchis e della signora Dolci del terzo piano, pronti a correre rischi del tutto insoliti per la loro età avanzata.

Andreas Steinhofel non rinuncia, infatti, ad arricchire la risoluzione del losco pasticcio con piccole trame laterali che prendono le mosse da personaggi secondari. Ancora una volta, cioè, il palazzo di via Dieffe 93 diventa fucina di piccole grandi vicende e teatro di quotidianità a volte pensose a volte esilaranti. Qui abitano soggetti dal grande potenziale narrativo che di volta in volta e con passi diversi entrano nelle vicende dei due protagonisti.

Dal canto loro, questi, forti di un’amicizia in cui le stramberie di ciascuno diventano ricchezza, scoprono nei gialli da risolvere l’occasione di un confronto profondo con sé stessi e con la propria storia. Ecco allora che Rico e Oscar si trovano a fare i conti l’uno con un passato e l’altro con un presente duri da digerire, fatti di violenze familiari e fughe, di diversità dai pari e di emozioni difficili da controllare. Il preludio perfetto a un terzo ed ultimo episodio che non si vede l’ora di divorare…

La strana collezione di Mr. Karp

Una famiglia in difficoltà economica, un licenziamento ingiusto, un inquilino misterioso, una passione per le collezioni bizzarre. A partire da questi ingredienti, La strana collezione di Mr. Karp mescola schizzi di realtà mai così attuale e spunti di invenzione lieve senza effetti speciali.

Mr Karp è infatti un insolito signore di mezza età che raccoglie e cataloga con inaudita passione flaconcini di acque speciali: l’acqua in cui Shakespeare bollì una coscia di  montone scrivendo Romeo e Giulietta, l’acqua del Fiume Giallo dopo la traversata a nuoto di Mao-Tse-Tung o l’acqua della vasca da bagno di Sarah Bernhardt. Ecco perché il suo incontro con Randolph, 11 anni, collezionista di tappi di bottiglia, penne e parole non potrebbe essere più azzeccato. Riuniti sotto lo stesso tetto, dopo che la famiglia del ragazzo si trova ad affittare la mansarda per sopraggiunte ristrettezze economiche, i due si scrutano e si avvicinano come bestiole furtive fino ad arrivare a condividere i piaceri e i tormenti che la comune passione riserva loro. Sarà un flaconcino particolarmente unico, appartenuto a Napoleone e giunto fino in Giappone, a invitare lettori e personaggi a una riflessione congiunta sul valore delle cose tangibili e di quelle impalpabili.

La storia incuriosisce e stuzzica, benché la componente avventurosa non decolli in modo roboante. Il libro si fa in generale leggere con facilità, merito anche del carattere ad alta leggibilità che contraddistingue l’intera collana (Maxizoom) di cui fa parte.

Tutt’altro che tipico

Jason è un ragazzino di 12 anni, ama la scrittura e detesta relazionarsi di persona con la maggior parte degli individui. Questi infatti mostrano perlopiù un modo di ragionare ed agire del tutto differenti rispetto al suo: dicono per esempio cose che non pensano realmente, usano espressioni figurate o apprezzano situazioni inattese e sconosciute. Per Jason, invece, mille sono le insidie che si nascondono dietro un’attività mai sperimentata prima o una domanda ambigua: il cervello va come in corto circuito, le mani iniziano a sfarfallare, gli arti si irrigidiscono e il corpo percepisce sensazioni dolorosamente amplificate. Tutte conseguenze della sindrome autistica che colpisce il protagonista e che gli conferisce un funzionamento decisamente anomalo. Tutt’altro che tipico, per dirla con le parole del titolo. Così, quando Jason scopre di poter partecipare al raduno annuale delle persone che, come lui, si dilettano a pubblicare e commentare racconti sul sito Storyboard, ha inizio una piccola avventura che è insieme una prova dolorosa e una conquista personale.

Il racconto è condotto da Jason in persona, cosa che rende il testo un vero e proprio ponte tra le azioni narrate e i pensieri del protagonista: un ponte più che mai prezioso per cogliere la relazione e il contrasto tra la moltitudine di cose che frullano per la testa del ragazzo e la scarsità di parole che gli escono dalla bocca. Il testo scritto in prima persona rende cioè conto in maniera straordinaria del fatto che la mancanza o l’inadeguatezza di manifestazioni verbali non corrisponde per forza all’assenza di sentimenti ed emozioni. Azioni e silenzi apparentemente inspiegabili rivelano così, visti da dentro, una ricchezza psicologica ed emotiva perlopiù inimmaginabile per i cosiddetti neurotipici. Ecco allora che la differenza di Jason e la sua disabilità comunicativa diventano non solo l’occasione narrativa da cui nasce il contenuto del volume ma anche la chiave che ne caratterizza la forma: gli aspetti cui il protagonista-narratore presta attenzione, i suoi ragionamenti dritti come spaghetti o l’analisi chirurgica delle sensazioni, per esempio, rendono Tutt’altro che tipico un romanzo capace di raccontare l’autismo non solo attraverso una storia ma anche attraverso uno stile.

E non è un caso: perché in questo libro la scrittura ha un ruolo davvero importante e i suoi meccanismi e le sue potenzialità sono prese molto seriamente dal protagonista che ne fa una efficacissima metafora dell’esistenza. Con il suo racconto in bilico tra commozione e spasso, Jason ci rende chiaro, per esempio l’abisso che separa le parole che narrano cose, fatti, storie ed emozioni e le sigle come DSA, PEI o ADHD che, pur pretendendo di definire una persona, non raccontano proprio nulla di essa. O sottolinea come le storie siano importanti perché creano mondi alternativi in cui potrebbero succedere cose diverse dal reale, per esempio vivere in autonomia e non sentire la nostalgia dei genitori che escono fuori per cena. O ancora, riflette sul fatto che occorre prestare attenzione alle parole che si usa e che queste, così come le persone, possono avere un significato anche se non tutti lo capiscono.  Alla luce di questo, un finale dolceamaro in cui la diversità non si aggiusta ma si accetta – perché “tutti abbiamo delle cose per cui non possiamo farci niente” – pare davvero colmo di speranza e verità.

Devo Solo Attrezzarmi

Irene e Marco sono due giovani determinati e agguerriti che hanno imparato a trattare con serenità la dislessia da cui sono affetti e che si spendono molto per permettere a ragazzi come loro di sperimentare un percorso analogo. La loro esperienza, che diffondono grazie alle attività dell’associazione Pillole di Parole, è confluita anche in un libro dal titolo eloquente Devo Solo Attrezzarmi.

Lontano anni luce da qualunque pretesa letteraria, il volume ha se non altro il pregio di contenere un racconto che richiama vicende ed emozioni realmente vissute dagli autori. I temi chiave della famiglia, degli amici e della scuola, del ruolo che ciascuno di essi gioca nella vita di un ragazzo dislessico, dell’importanza del confronto con i pari e dell’informazione emergono così a gran voce e arrivano efficacemente al lettore, con evidenti effetti benefici quanto alla sensibilizzazione sul tema dei DSA.

Wonder

Un romanzo che si legge tutto d’un fiato, che appassiona, stimola, diverte e commuove.
Un wonder romanzo, insomma, come se ne vorrebbero leggere di più, sia da piccoli che da grandi. Ecco perché pare particolarmente calzante il titolo di questo volume edito da Giunti, che ha meritatamente spopolato in America dove è stato pubblicato per la prima volta lo scorso anno.

Wonder racconta il primo anno di scuola media di August, ragazzino affetto dalla sindrome di Treachers-Collins: una malattia congenita che comporta significative deformazioni del volto, che richiede molte e dolorose operazioni ma che non implica una vera e propria disabilità. August infatti parla, pensa e si muove come gli altri: non c’è niente che non possa fare se non ciò che la paura, la diffidenza o l’eccessiva protezione – sue o altrui – gli precludono di fare. “L’unica ragione per cui non sono normale – afferma il protagonista in una delle prime pagine del libro – è perché nessuno mi considera normale” e in effetti nulla pare più vero di questa considerazione man mano che la storia avanza.

A raccontarcela non è solo il protagonista ma un coro di voci: a turno August, sua sorella e i suoi amici restituiscono la propria versione degli eventi, contribuendo da un lato ad arricchirne la visione e dall’altro a far avanzare la narrazione. Niente meglio di questo espediente rende l’idea della ricchezza che la diversità assicura a questo mondo e della varietà di opinioni ed emozioni che possono circondare una vicenda. Così, attraverso zoom efficaci sui rapporti di amicizia e rivalità e su momenti clou come la gita, la festa di Halloween o la recita di fine anno, l’autrice narra la storia di un incontro, con se stessi e con gli altri, che sa risultare speciale e universale al contempo.

Lo fa con un’ironia inusuale che non indebolisce il vigore dei sentimenti messi in campo e esplorati. Il lettore ritrova così, pressoché intatti, il dolore, la preoccupazione e la vergogna che una diversità tanto marcata si porta a rimorchio, ma anche l’affetto più spassionato, la tenerezza, la soddisfazione e l’entusiasmo che essa non sa sradicare. Quello che ci viene offerto, insomma, è un autentico catalogo delle emozioni umane che rende la lettura del libro un tempo davvero ben speso.

L’amico immaginario

“Max non ha un fuori, Max è tutto dentro”.
Così Budo, cinque anni di età e fattezze inventate, descrive con una puntualità disarmante il bambino che lo ha creato e scelto come amico immaginario. Max è infatti l’unico essere umano che riesce a vederlo poiché è proprio colui che gli ha dato una forma per non sentirsi solo nei momenti difficili, per non avere paura quando le cose funzionano un po’ diversamente dal solito e per avere qualcuno che lo capisca senza dover necessariamente parlare o esternare ciò che sente. L’avversione di Max per qualsivoglia cambiamento, la sua difficoltà a fare delle scelte, l’insofferenza nei confronti di qualunque contatto fisico lascia pensare che sia un bambino autistico ma a Budo questo non interessa e poiché il romanzo segue la sua voce, viene prediletta una descrizione per fatti, più che per etichette, del protagonista e delle sue avventure.

E che avventure! Un giorno come tanti Max viene caricato di nascosto in macchina dalla Patterson, la sua maestra di sostegno tutt’altro che equilibrata, e da lì sparisce. Rapito. Starà a Budo, il solo ad aver assistito alla scena, trovare il modo di scovare Max e aiutarlo a liberarsi, destreggiandosi tra la complessità del caso, le ossessioni del bambino e il suo personale status di individuo invisibile ai più. Per fortuna, a differenza di molti altri amici immaginare che lo stesso Budo incontrerà sul suo cammino, Max lo ha creato con molta cura, dotandolo di una fisionomia pressoché completa, di uno spirito di sacrificio invidiabile e soprattutto di una capacità di osservazione molto acuta. Così, per il lettore, che già non stenterà a farsi catturare dalla trama, la cronaca in tempo reale firmata da Budo rappresenterà una chicca tutto da gustare. La scelta originale di far raccontare la storia dal punto di vista insolito di un amico immaginario offre infatti l’occasione di guardare al mondo con un’attenzione ai particolari spesso trascurata e di confrontarsi con riflessioni di spessore trattate argutamente con una sensibilità spiccia.

Castelli di fiammiferi

Ci sono esistenze delicate e instabili come una costruzione di fiammiferi, composte da strati infiniti di gesti e dettagli quotidiani, sovrapposti con pazienza l’uno all’altro, che richiedono cure e attenzioni senza posa, che non ammettono distrazioni e cedimenti e che concedono sottili spiragli di soddisfazione solo a chi sappia coglierne il valore con sguardo minuzioso e attento. Così è l’esistenza di Lisa che, chiusa in un silenzio angosciante imposto dall’autismo, influenza inevitabilmente chi la circonda e chi cerca con irriducibile perseveranza di far breccia nella sua roccaforte. Come Jan, che di fronte alla diversità muta e al contempo invadente della sorellina reagisce con impegno, con amore, con dolore, con sensibilità e anche con rabbia.

È suo il punto di vista accolto dalla storia e sono sue tutte le sfumature dell’emozione – dalle più impalpabili alle più intense – che il libro firmato da Bettina Obrecht prova a restituire. Sue sono le parole moltiplicate e amplificate, fino a coinvolgere anche esseri inanimati come gli elettrodomestici o i pupazzi, che fanno da contraltare alle parole assenti di Lisa e che esprimono a gran voce tutto il bisogno di ascolto non solo di chi sperimenta direttamente una disabilità ma anche di chi se ne fa indirettamente a appassionatamente carico. Attraverso gli episodi della vita quotidiana, i desideri palesati e inespressi, le vacanze dai nonni e l’incontro confortante con Carla che vive un’esperienza simile alla sua, Jan si fa portavoce di un mondo contrastante e contrastato quale quello dei fratelli dei bambini con disabilità, che invita a guardare con occhio tutt’altro che superficiale.

Rose non è una tartimolla

Quando gli adulti sono “lampioni”, i gatti “baffi da culo”, i mammut “mambrut” e  gli amici “adesivi “si è ufficialmente entrati nell’insolito mondo linguistico di Rose: un mondo in cui le parole – a volte del tutto inventate, a volte confuse e a volte distorte – si attorcigliano  e si  rotolano  causando non pochi guai alla piccola protagonista del libro. Intelligente ed emotiva, Rose ha difficoltà a parlare come tutti gli altri bambini, generando così la frustrazione dei genitori, l’ilarità dei compagni e un certo disagio degli insegnanti. Difficile capire dove la lingua alla Rose sia la conseguenza incontrollata di un disturbo e dove sia invece la risposta intenzionale a un mondo di pari e di cari poco comprensivo. Quel che è certo è che quando la bambina apre bocca, ne esce qualche espressione buffa e originale.

Ma chi l’ha detto che la  debolezza di lingua e la debolezza di fegato vadano di pari passo?  Contro ogni aspettativa, unica nella sua scuola, Rose dimostra di non aver paura di avvicinarsi al cancello proibito che separa le elementari dalle medie e di sfidare le “teste d’insalata al prosciutto” più grandi di lei pur di incontrare il “mezzo lampione” di cui si è innamorata. Da qui sarà tutta una storia di bande, fan, minacce e sorprese che faranno di Rose tutt’altro che una tartimolla. Lo racconta con brio l’autore francese Colas Gutman, offrendo più di un’occasione per sorridere e guardare con affetto a chi ci appare diverso e magari strano. Peccato non si faccia a tempo a prender gusto per questo modo originale di fare, vedere e nominare le cose che il libro è già bell’e che finito.

Henry Jack

La pubblicazione di Henry Jack vale davvero una festa, per più di una ragione: perché è un libro tattile curato e divertente, realmente a misura di bambino cieco ma autenticamente irresistibile per un bambino (o un adulto!) vedente; perché è la chiara dimostrazione che gli sforzi europei congiunti, come quelli che animano il premio Tactus di cui il libro ha vinto l’ultima edizione, non sono affatto vani; perché arricchisce indiscutibilmente l’offerta di libri tattili illustrati in italiano; e perché presenta da solo il valore di un lavoro appassionato e raro come quello della cooperativa Zajedno, da poco impegnata della realizzazione di magnifici libri in stoffa.

Henry Jack è la storia in rima di due fratelli che si scambiano scherzetti birichini nascondendo bestiole di ogni tipo – vermi, lumache e coccodrilli – nei vestiti e nelle coperte dell’altro. Ogni pagina, gustosa e colorata, è un vero tripudio di dettagli e sorpresa da toccare, accarezzare, esplorare e scoprire: un piccolo tesoro manufatto che si vorrebbe non finisse così in fretta.

Lola e io

Lola e io è un albo illustrato intenso e coinvolgente, un lavoro raffinato e capace di parlare a un pubblico ampio che non esclude i ragazzi più grandi.

Perché qui le immagini sofisticate e di ampio respiro e il testo misurato e aperto ai sensi dialogano davvero, senza posa, intessendo tra loro un rapporto costruttivo e dinamico. Non c’è semplice sovrapposizione o rispecchiamento tra i due linguaggi, ma un continuo rincorrersi e stuzzicarsi a vicenda, svelando di soppiatto ciò che l’altro non vuol dire. Per esempio, che a raccontare la storia, non è, come si potrebbe credere, la giovane Lola, bensì il suo cane Stella.

Non un cane comune ma un cane guida, uno di quelli che trasformano affetto e dedizione in un aiuto imprescindibile per le persone cieche che accompagnano. E al centro del libro c’è proprio questo: il rapporto intimo e simbiotico, profondo e complesso, commuovente e quotidiano tra un essere a due e un essere a quatto zampe. Un rapporto che nasce da un’esigenza pratica, legata alla disabilità visiva di Lola, ma che si nutre di un affetto sincero e che giorno dopo giorno si fa forte di piccole felicità tutte da condividere.

Lola e io è scritto e illustrato da Chiara Valentina Segré e Paolo Domeniconi, che abbiamo visto lavorare insieme in maniera felice anche in L’albero, la nuvola e la bambina, sempre edito da Camelozampa. Entrambi gli albi, per scelta apprezzabilissima dell’editore, vengono proposti al pubblico con caratteristiche di alta leggibilità come il font EasyReading, la spaziatura maggiore e l’allineamento a sinistra: caratteristiche queste che, unite alla forma dell’albo illustrato in cui le immagini assumono un ruolo determinante, offre una possibilità di lettura ricercata e non banale ma allo stesso tempo amichevole e fruibile anche da parte di bambini e ragazzi dislessici.

Una vita da somaro

Quella di Una vita da somaro, è una storia di animali e di umani, di silenzi e di aperture, di sforzi taciturni e di piccole conquiste. È la storia di un bambino curioso e del suo nonno mulattiere, dell’infaticabile mulo Giardino che prima trasportava tronchi e ora porta i libri nelle scuole, di un compagno nuovo e strano, che non dice mai nulla e sembra assente.

Attraverso parole delicate, Daniela Valente racconta di mondi spesso dimenticati, per ragioni diverse: quello del lavoro fisico nei boschi a contatto con la natura e la fatica, quello degli animali che umilmente accompagnano l’attività umana, quello dei paesi di poche anime dove l’accesso alla cultura è un diritto che stimola l’ingegno, e quello dell’autismo che necessita di stimoli e cure ma anche di rispetto ed empatia.

Un libro essenziale e sensibile in cui le cose non accadono con ritmo frenetico, riempiendo la trama di eventi e colpi di scena, ma dove ambiente e personaggi invitano a prendersi il giusto tempo per assaporare anche le piccole cose di ogni giorno.

Peter Nimble e i suoi fantastici occhi

Peter Nimble è il protagonista che ogni lettore spericolato e appassionato vorrebbe incontrare sulla sua strada: un protagonista dalla vita non facile ma dalle abilità straordinarie, in possesso di una scatola di occhi magici – d’oro, di onice e di smeraldo -, in contatto o in conflitto con creature fantastiche e immerso in mondi sorprendenti in cui deserti vastissimi, rocche abbandonate, cunicoli sotterranei e castelli inviolabili si intersecano e si incontrano.

Cieco e orfano, Peter apprende fin da piccolissimo la sottile arte del furto sicché nodi e lucchetti diventano il suo pane quotidiano. Impara l’arte e la mette da parte, Peter: così, una volta sfuggito alle grinfie del perfido Mr Seamus che lo sfrutta e lo maltratta, può utilizzare il suo talento per una missione di alto valore, delicatissima e segreta, i cui tasselli si compongono man mano come in un puzzle da mille pezzi.

La trama avvincente e complessa, che strizza l’occhio ai grandi romanzi di formazione, fa di questo libro un’autentica delizia narrativa, in cui la disabilità, travolta dall’atmosfera fantastica, non manca di incuriosire, stimolare, stupire e appassionare.

Hank Zipzer e le cascate del Niagara

Hank Zipzer ha un nome che pare uno scioglilingua e una vita scolastica che pare un campo minato: l’animo rigido della professoressa Adolf mal si accorda, infatti, con le sue difficoltà di lettura e scrittura e rende critico ogni suo tentativo di cimentarsi con i compiti. Così, quando Hank decide di realizzare un tema vivente, con tanto di acqua, rocce e vapore, in luogo dei cinque paragrafi sulle vacanze alle Cascate del Niagara, succede un vero disastro.

La sua è un’avventura-disavventura semplice ma estremamente efficace nel centrare le difficoltà e le aspettative dei ragazzi colpiti da DSA e soprattutto nel raccontarle con quella leggerezza che non banalizza ma chiarisce.

Merito di un intento poco didattico, che non appesantisce la lettura, di uno scrittura schietta in cui si stenta a non riconoscere lo stile di Fonzie (che le vicende le ha scritte e ispirate), e di personaggi minimal ma definiti, che ben si prestano a accompagnare Hank in una serie di avventure che i lettori non tarderanno a reclamare. E questa è proprio una bella notizia: perché l’alta leggibilità non può che trovare il migliore degli alleati in una buona dose di motivazione.

Il bambino di vetro

II bambino di vetro è una storia d’altri tempi, sia nei modi sia nei contenuti. È un racconto ricercato e fine, che parla di avventure coi calzoni corti, di battaglie con gli elastici, di scontri tra bande di quartiere e di cartelle di cuoio per andare a scuola. È un romanzo che affonda le radici in un’Italia un po’ sbiadita che le illustrazioni in bianco e nero di Marco Somà sottolineano a meraviglia.

Il protagonista è Pino, un bambino di famiglia benestante e affetto da una strana e mai nominata malattia che gli impedisce di sperimentare ogni diletto tipico dell’infanzia senza rischiare di finire in ospedale. Il suo fisico delicatissimo lo obbliga perciò a vivere in un mondo del tutto immaginato o visto sempre dal di fuori, che trae vitale nutrimento dalle peripezie di carta dei libri d’avventura. I genitori e la nobilissima nonna si prodigano, infatti, per proteggere la sua incolumità a costo di rendere la sua vita una sorta di  ologramma privo di spessore. Ma un certo punto arriva Marco, con la sua banda di ragazzi dalle ginocchia sbucciate e dai sentimenti nobili, che con la forza di un’amicizia autentica rivela l’importanza di una vita che accolga e rispetti la malattia senza però permetterle di avere un ingiustificato sopravvento.

Quella del bambino di vetro, insomma, è anche e soprattutto una storia senza tempo, che difende il valore dell’immaginazione, e dunque della letteratura, come prolungamento della vita reale, ma che mette anche in guardia dal sacrificare quella stessa vita reale sull’altare di timori esagerati e di pregiudizi inconsapevoli. Attraverso una scrittura appassionata, le avventure vecchio stile del giovane protagonista diventano così la cornice di una riflessione di più ampio respiro sulla malattia e sull’importanza che, nelle condizioni da essa imposte, possono assumere gli stimoli offerti dalla fantasia e dal coraggio non solo del malato ma anche di chi lo circonda.

Sirenera e il re dei granchi

Sirenera e il re dei granchi sono due racconti di mare, due fiabe antiche, due canti melodiosi e carezzevoli. Danno loro il titolo due presenze impalpabili, in bilico tra il mondo degli umani e i fondali degli abissi: due creature che imprimono senso e movimento alla narrazione,  conservando però una posizione marginale e sfuggente. Sirenera fa la sua comparsa nel buio delle notti di pesca di Sara delle lampare, la ragazza nata senza capelli e per questo tenuta nascosta dalla madre. Il re dei granchi incarna un papà improvvisamente scomparso a bordo della bella barca Lucia, ma strenuamente presente nella vita del figlio Augusto detto Gusto.

Attraverso le loro apparizioni, fugaci e intensissime, Sara e Augusto imparano a conoscere se stessi per aprirsi finalmente agli altri e si fanno carico dei ricordi, tragici e belli, per affrontare con coraggio il futuro. L’incontro con le creature del mare diventa, perciò, lo stimolo e l’occasione per vivere a fondo e autenticamente affetti di ogni sorta: fraterno, filiale, d’amore o d’amicizia. E in questa cornice la diversità – di Sara che si mostra senza chioma ma anche di Diva che fa innamorare Gusto senza poterlo vedere – trova una collocazione autentica, che non passa inosservata me neppure stona.

Il merito è di una narrazione poetica e fiabesca, tutta giocata sull’evocazione appena suggerita e mai marcata, che ben si accompagna a immagini insolite ed essenziali, in cui si mescolano tratti realistici e onirici, linee sottili e spazi vuoti, colori e trasparenze.

I disegni della principessa Annabella

Ci sono libri che sfoggiano validi intenti e buone idee ma che rischiano di smarrire gli uni e le altre lungo la strada. Sono libri che si concentrano forse troppo su un tema da trattare, che tradiscono tono e genere prescelti o che affiancano con cura singhiozzante il testo scritto alle illustrazioni. Ecco, I disegni della principessa Annabella sembra proprio uno di questi: si scorge, in effetti, in questo albo illustrato una storia di diversità delicata e a misura di bambino, ma un moralismo troppo diretto sgonfia la vaporosità della cornice fiabesca.

La storia è quella della giovane principessa Annabella, fortemente  voluta dal re e dalla regina, manifestamente diversa dagli altri bambini, straordinariamente abile con i pastelli colorati e le facce buffe tanto da far tornare il sorriso all’inconsolabile re Guglielmo.  Semplice nella ciccia e nella crosta, questo racconto sorridente di Peggy Van Gurp cede purtroppo alla tentazione di lanciare messaggi espliciti e rinuncia a illustrazioni che carichino di senso nuovo le parole, raccogliendo solo in parte la bella sfida di raccontare la sindrome di Down attraverso l’immaginazione.

Chi vorresti essere?

Chi vorresti essere?, l’ultimo gustoso albo firmato da Arianna Papini,  è un inno alla fantasia che sa giocare con la realtà. La domanda che dà il titolo al volume scatena, infatti, una catena di invenzioni grazie alle quali Rebecca può diventar pesce che può diventar barbagianni che può diventar coccodrillo e così via all’infinito. O meglio, e così via fino a quando il gatto non vorrebbe diventar a sua volta Rebecca invitando a ripercorrere a ritroso l’intera successione di trasformazioni, a constatare la fortuna di poter esser immaginariamente qualunque cosa ma anche a notare come ciò che ci rende differenti e originali susciti il fascino di chi ci circonda. La diversità come pregio, dunque, strizza l’occhio al lettore tra un tucano camaleontico e un camaleonte felino.

Chi vorresti essere? propone insomma una fiera colorata e gioiosa di cose, animali e persone che sono qualcosa o qualcuno ma sembran qualcosa o qualcun altro. A partire dall’involucro esterno: l’albo si sfoglia infatti come un calendario e come tale lascia in ogni pagina un richiamo a ciò che c’è prima e un’avvisaglia di ciò che c’è dopo: un promemoria e un’anticipazione, insomma, come quando alla pagina di marzo si affiancano le miniature di febbraio e di aprile. Il risultato è così un lavoro perfettamente incatenato che sottolinea senza posa l’evoluzione funambolica dell’immaginazione che parole ben composte in una litania ammaliante  e illustrazioni degne di un bestiario fantastico sanno rendere incantevolmente.

Cico e Pippo

Cico e Pippo sono due personaggi anni ’70 creati da Altan e rispolverati oggi da Gallucci in una raccolta essenziale e dilettevole. I protagonisti, padre e figlio, non sono che due linee sottili – l’una più grande e l’altra più piccina – che fanno del loro tratto appena abbozzato la chiave della loro moderna critica sociale.  Messi a confronto sulla pagina nuda, senza nemmeno la traccia di un riquadro o di una cornice, calpestano con disinvoltura i luoghi comuni sull’handicap, di cui Cico, cieco, è degno rappresentante. Dissacrante e irriverente, Pippo non risparmia, infatti, battute ciniche e scherzi irriguardosi nei confronti del papà, tendendogli trappole fisiche e verbali sui terreni minati del piacere, dello sport, dell’arte e delle relazioni.

La reazione di chi legge cede quasi certamente a un timido sconcerto, in prima battuta. Come porsi, d’altronde, di fronte a un personaggio che si dice triste per dover sempre condurre un papà cieco e che poi, a posizioni invertite, porta il genitore a sbatter contro un tronco? Un secco “mah..”, un po’ stizzito e straniato, è certo una buona sintesi dell’impatto inatteso con le vignette. È solo dopo, con sguardo acuto e disincantato, che le strisce crude e persin crudeli suggeriscono tutto un altro senso. Dipingendo efficacemente l’assillo e il tormento incarnato da Cico – non di rado pedante e insistente -, l’autore restituisce alla cecità (e più in generale alla disabilità) il diritto di essere, nel bene e nel male, umana e come tale di esser trattata. In barba ai favoritismi ispirati al politically corretc, un sorriso malizioso lancia un messaggio ambizioso. Perfetto stile Altan, insomma.

Occhio di Nuvola

Una storia delicata e profonda in cui le parole, come i sentimenti, tornano a occupare un posto di primo piano. Una storia capace di avvolgere e coinvolgere, senza rinunciare al rispetto delle reali vicende di un popolo tormentato. Una storia che parla di indiani e natura, che racconta di tradizioni e leggende e che sa immergere con inaspettata abilità in una cultura tanto distante quanto affascinante. Occhio di Nuvola è tutto questo.

Chi dà il titolo al volume è un giovane indiano cieco della tribù dei Crow che, difeso strenuamente dalla madre, vince i pregiudizi della sua gente e trova finalmente il suo posto in mezzo ad essa. Accompagnato a conoscere il mondo attraverso una sensibilità straordinaria e attraverso la vista dei suoi cari, Occhio di Nuvola si guadagna la stima della tribù, scongiurando un primo attacco dei visi pallidi cui sottrae uno strumento importante e sconosciuto come il cavallo.

Al suo fianco, tastando il sapore della terra umida e il fruscio del vento della montagna, il lettore si trova a scoprire il più intimo e dimenticato rispetto per la natura, in ogni sua manifestazione, e per una cultura tramandata da generazioni. Grande merito, in tutto questo, va riconosciuto alla parola che l’autore sa usare con grande accortezza e che nell’intero romanzo viene valorizzata come strumento di conoscenza profonda e di relazione autentica.

In fuga con la zia

Imprevedibile e incontenibile, zia Ubalda è una carica esplosiva di entusiasmo e vitalità. Una bomba, insomma. Le piace smodatamente tutto ciò che è rosa tenero e coccoloso, spiazza con le sue risposte ironiche e non convenzionali e non ha paura di dire o fare ciò che le passa per la zucca, anche a costo di scatenare imbarazzi e risolini. Come quando recita una poesia sulle puzzette al raffinatissimo compleanno della sorella o quando interroga la vicina di treno sui suoi strepitosi tatuaggi. Ubalda è così: simpatica e divertente per la nipote Sara, buffa e rimbambita per il cognato, nonché papà di Sara, disabile mentale non indipendente per la sorella nonché mamma di Sara. Una persona, molte interpretazioni. Dove starà la realtà? Probabilmente nel mezzo ma un po’ più spostata verso Sara, si direbbe.

Sara è in effetti l’unica della famiglia a considerare la zia come una persona, certo un po’ stramba e necessitante di attenzioni, ma capace, desiderosa e soprattutto degna di esprimere la propria personalità, di prendere le proprie decisioni e di fare i propri errori. Una persona che come tutte le altre ha voglia e diritto di fare le cose che piacciono ai suoi coetanei come andare in vacanza con gli amici o fare shopping. Il suo è un mondo tutto particolare, condiviso con gli originali coinquilini della comunità in cui vive e aperto a conoscenze sempre nuove: un mondo che a fatica sopporta le restrizioni, i timori e i progetti costrittivi della sorella, che vorrebbe sistemarla in una struttura più controllata.

Così, Ubalda inizia un viaggio avventuroso con la nipote per fuggire ai piani di trasferimento predisposti per lei. Sarà un viaggio breve ma portentoso, capace di frantumare, come una mossa di jujitsu ben assestata, una fitta serie di pregiudizi che spesso circondano i disabili mentali: che siano sempre felici, per esempio, o che non abbiano bisogno di provare emozioni, soddisfazioni ed esperienze. Il risultato è una riflessione intelligentemente sorridente, che sparpaglia spunti senza predicozzi ma con una buona dose di spasso e irriverenza.

 

La ragazza Chissachì

Ci sono scrittori che trovano modi straordinari di raccontare temi scomodi e ci sono editori accorti che quegli scrittori li scovano in mezzo a mille con una lungimiranza invidiabile. Ecco, Beisler è proprio quel tipo di editore: controcorrente, impegnato su temi sociali e appassionato collezionista di chicche letterarie da proporre ai giovani lettori. Lo dimostra una volta di più con La ragazza Chissachì, lo splendido romanzo di Sarah Weeks che prova a raccontare una disabilità insolita: quella che non colpisce i bambini in prima persona ma entra nella loro vita attraverso un genitore con handicap. Una disabilità tanto difficile da capire, accettare e metabolizzare quanto misconosciuta dalla letteratura per l’infanzia.

La ragazza Chissachì, che dà il titolo al volume, è una mamma che, colpita da un forte disturbo cognitivo, dimostra meno anni e autonomia della figlia dodicenne, conosce ed esprime 23 parole in tutto e in una di esse – Suff – condensa il suo misterioso passato. Affidandosi a questa parola, preziosa e indecifrabile, a un rullino di foto inaspettatamente rinvenuto e a una rara combinazione di coraggio e fortuna, la figlia Heidi si metterà sulle tracce di quel passato per ricomporne i pezzi e dare un senso a una vita così marcatamente diversa dalla norma. Il suo sarà un viaggio lungo e pieno di ostacoli come nella miglior tradizione dei romanzi di formazione, ma anche ricco di incontro fortuiti e fortunati che sembrano premiare la magnanimità, come nella più tradizionale delle fiabe.

Quel che accade è che, travolti da una scrittura densa e lucida, ci si trova a confrontarsi con la durezza di una disabilità che ribalta i ruoli ma anche con la dolcezza di un amore autentico e profondo che restituisce il giusto valore al ricordo, alle emozioni e all’essere protagonisti a proprio modo della propria storia.