La voce delle cose

La voce delle cose è un libro particolare perché dedica alla disabilità una doppia attenzione. Firmato dall’autrice francese Cécile Bidault ed edito in Italia da Comicout, il volume racconta la storia di una bambina sorda e lo fa attraverso una sorta di fumetto silenzioso in cui le vignette si susseguono facendo uso di pochissime parole. Si tratta dunque di un libro (quasi) accessibile e che al contempo che fa della disabilità oggetto di narrazione.

Costruito in quattro tempi – le quattro stagioni che compongono un anno – il volume è ambientato in un tempo non troppo lontano ed eppure molto diverso da quello presente, soprattutto nel vissuto di chi, come la protagonista, sperimenta una difficoltà di tipo uditivo.  In Francia, dove il libro nasce, la LSF (Langue dei Signes Française) è stata vietata, infatti, fino alla metà degli anni ’70 e La voce delle cose racconta precisamente il disagio, le difficoltà e l’inutile frustrazione che tale scelta ha portato con sé.

La piccola protagonista del volume sperimenta sulla sua pelle non solo lo straniamento di vivere in un mondo indecrifrabile, ben rappresentato da balloons vuoti o contenenti segni incomprensibili, ma anche la mortificazione di sentirsi chiamata ad apprendere una lingua che sente non appartenerle. Per questo, quando si trasferisce con i genitori (udenti) in una nuova casa in campagna e trova un vecchio manuale di segni usati dai sub, il suo approccio alla vita cambia. Il mondo esplorato, sognato e visto assume, infatti, nuovi contorni nel momento in cui può essere detto in una maniera per lei significativa. Di fatto è come se per la prima volta quel mondo iniziasse davvero a esistere. Lo notiamo all’interno delle dinamiche familiari ma anche nei momenti di intima solitudine e nel gioco con il nuovo amico che accompagna la bambina in avventurose esplorazioni. Ma curiosamente il mondo subacqueo si intreccia a quello della bambina lungo tutto il racconto, quando i discorsi non uditi e dunque compresi assumono le sembianze di pesci sfuggenti e trasformano l’ambiente in una sorta di acquario. Così, quando sul finale delle forti piogge provocano un allagamento imprevisto, tutto sembra tenersi e tornare, in una sorta di cerchio metaforico di grande impatto.

Delicato nel fratto e fortissimo nei contenuti, La voce delle cose non fa sconti e non tema di rappresentare gli aspetti più scomodi della disabilità. Lo fa mescolando abilmente dimensione reale e dimensione onirica, quella che facilmente può farsi salvifica quando il quotidiano impone vincoli troppo stretti.

Diversi a chi?

I bambini con disabilità sono prima di tutto bambini: non c’è niente di più vero. Accorgersene e ricordarsene non è, tuttavia, così scontato quando un limite importante – fisico, cognitivo e/o comunicativo – tende a prendersi la scena e a monopolizzare l’attenzione di chi sta dall’altra parte. Riconoscere l’infanzia prima e oltre un’eventuale diagnosi significa, allora, mettere a fuoco ciò che sta dietro, in una quotidianità che non è fatta solo di rassegnazione, attesa e passivo adeguamento. Anche i bambini con disabilità ideano e mettono in atto dei guai, scherzano e fanno capricci, per esempio. Pensano e provano emozioni, di tutti i tipi. Stanno nel mondo in tanti modi e con tante posture, diverse a seconda del momento, dell’indole, dello stato d’animo e della compagnia. Perché nessun bambino è un angelo (come ricorda il titolo di un altro albo targato Settenove) e perché la ricchezza di ogni vissuto non può prescindere dall’interazione e dalla relazione con l’altro.

Ecco, allora, che un albo apparentemente semplice come Diversi a Chi? di Claire Cantais e Sandra Kollender si fa notare prima di tutto per il realismo e la pungente schiettezza con cui affronta il tema della diversità e dell’inclusione. Perché Diversi a chi? è inequivocabilmente un libro a tema – chiarissimi ed espliciti sono, infatti, il focus e l’intento delle autrici – ma questo non ne riduce la forza e l’incisività. Costruito come una carrellata di personaggi caratterizzati dalle disabilità più diverse che si fanno portatori di considerazioni fulminee e fulminanti, l’albo tende a spiazzare il lettore, ponendolo di fronte a una serie di preconcetti di cui la nostra cultura è intrisa e che all’improvviso vengono messi in discussione. Che la vita di un bambino con disabilità sia vuota, noiosa, votata all’obbedienza e povera di pensiero, per esempio.

La gente mi trova strano perché dico tutto quello che penso. Afferma un bambino con la sindrome di Down, dando voce a un’idea diffusa. E per tutta risposta, dichiara: Eh sì, io penso!.

O ancora Adoro fare le stupidaggini… Farle (e anche dirle!). Annuncia un bambino che si serve della lingua dei segni. Ma soprattutto: Ho appena detto una cosa schifosa con le mani… te la insegno?

L’impertinenza si fa così grimaldello per aprire crepe nelle nostre certezze e spiragli nei nostri pensieri. Impertinenti sono, infatti, le considerazioni dei protagonisti, così come impertinente è la loro raffigurazione. Nuovissima, coraggiosa (da un punto di vista editoriale) e di grande impatto è infatti la scelta di Sandra Kollender non solo di caratterizzare le pagine con vistosi colori fluo – con buona pace dell’immaginario comune che vede e vuole la disabilità in esclusivi toni di grigio – ma non si tira neanche indietro di fronte alla sfida di mettere su carta la disabilità in tutte le sue forme. Tra queste pagine accese da sfondi verde acqua e dettagli rosa brillante, non ci sono infatti solo sedie a rotelle e occhi a mandorla – rappresentazioni abituali e per certi versi rassicuranti agli occhi del lettore – ma anche protesi, capi tenuti su da appositi supporti, deambulatori e arti spastici. Ci sono corpi, visi e posture non conformi alla norma. Ed è proprio lo scarto tra questi e l’assoluta e travolgente normalità di sorrisi e boccacce a generare una scintilla nel lettore. Perché è proprio vero che la rappresentazione che offriamo delle cose condiziona e non poco il nostro modo di guardarle e pensarle.

Amo quel cane. Odio quel gatto

Divertente, intelligente, costruito in maniera sopraffina: Amo quel cane. Odio quel gatto è un libro di Sharon Creech unico nel suo genere. Protagonista assoluta è la poesia, a cui il libo dà spazio tanto nella forma quanto nel contenuto. La narrazione procede infatti in forma di brevi componimenti: quelli che un bambino di nome Jack scrive in una sorta di fitto dialogo con la sua insegnante e in cui, attraverso soggetti comuni, come il rapporto con gli animali domestici, gli affetti e le piccole (dis)avventure quotidiane, offre una bellissima, credibile e chiara fotografia di che cosa sia la poesia e del potere che essa può custodire.

La passione per i versi, che esplode a un certo punto in maniera prorompente grazie all’incontro con un poeta in carne ed ossa dalla sensibilità simile alla sua, non è cosa immediata per Jack ma nasce anzi poco a poco, grazie all’accorto e lungimirante lavoro della sua professoressa, tal Miss Stretchberry che incessantemente invita la classe a leggere, scrivere, discutere di poesia. Così, se il rapporto iniziale del bambino con i versi può essere riassunto in questa sua ironica e cinica considerazione:

Se quella sulla carriola rossa

e le galline bianche

è una poesia

allora ogni frase

può essere una poesia.

Basta solo

fare

frasi

brevi.

man mano che il racconto procede le cose cambiano. Non solo si affina, infatti, il suo modo di scrivere (con tanto di destreggiamenti tra poeti diversi e padronanza di allitterazioni e onomatopee) ma si consolida anche la sua consapevolezza rispetto alle possibilità espressive che la poesia racchiude. Ed è qui che entra in gioco anche il tema, seppur collaterale, della disabilità.

Le poesie di Jack compongono, infatti, tra le altre cose, un ritratto della sua mamma che agita le mani in aria per fare parole / senza / suono. La sordità, mai nominata ma chiaramente rappresentata, fa dunque capolino tra le righe, sposandosi a un sentimento tenero che profuma di normalità nelle emozioni, nei gesti affettuosi, nelle cose di ogni giorno. L’altro aspetto interessante che la concerne, sta nell’ostinato interrogarsi di Jack rispetto al modo in cui le qualità sonore dei versi possano raggiungere le persone sorde e nel suo cogliere, infine, i molti modi in cui la poesia può arrivare al destinatario in tutta la sua potenza. Ecco allora che Amo quel cane. Odio quel gatto ci appare non solo come uno straordinario racconto intimo e al tempo stesso come un efficacissimo manuale di poesia ma anche come una riflessione preziosa sull’importanza della parola condivisa e sulle molteplici strade che questa può percorrere per radicare anche là dove ci siano dei limiti del linguaggio.

Già pubblicato da Mondadori una ventina di anni fa, Amo quel cane viene ora riproposto dal medesimo editore in una nuova edizione che vanta non solo una diversa copertina (con i disegni di William Steig) più in linea con il tono leggero del racconto, ma anche e soprattutto un seguito (Amo quel gatto), in cui in particolare si approfondisce la questione del rapporto tra suono e senso e il tema, a Jack molto caro, di come la parola, con tutta la sua forza espressiva, possa raggiungere anche il cuore di chi ha orecchie che non possono sentire.

Fischia!

Giulio è un bambino sordo che comunica attraverso la Lingua dei Segni Italiana. Per lui e i suoi amici, tutti udenti, è una sorta di codice segreto con cui scambiarsi commenti e informazioni senza farsi capire dai grandi. Ma Giulio, prima di tutto un bambino che ha molti talenti: sa fischiare come pochi altri e sa giocare molto bene a calcio. Proprio durante una sfida di calcio al campetto, Giulio ha l’occasione di dare prova non solo delle sua abilità sportive ma anche della capacità di accogliere e non  far sentire esclusi gli altri.

Scritto da Silvia Speranza e illustrato da Ilaria Pasqua, Fischia! racconta una storia di inclusione che lascia ampiamente trasparire il suo intento. Questo proposito emerge in particolare dalla maniera in cui viene ritratto il protagonista, di cui si celebrano talenti e qualità, e del messaggio generale del libro, riassumibile nel motto insieme stiamo bene così come esplicitato nel finale. Ne risulta un racconto semplice e un po’ idealizzato che ha però il pregio di raccontare con parole a misura di bambino cosa sia la LIS e di inserirla nella narrazione come un codice condivisibile dall’interno gruppo classe.

Parole di caramello

Kori vive da quando è nato all’interno di un campo profughi del deserto algerino. Ama molto gli animali e ha, in particolare, una predilezione per i dromedari. Il suo preferito – quello che diventerà per lui un amico sincero e irrinunciabile – nasce quando anche lui è ancora un cucciolo. Kori decide di chiamarlo Caramello e il loro legame, reso sempre più solido dalle affettuose visite quotidiane che Kori dedica all’animale, diventa unico e straordinario quando le parole entrano finalmente nella vita del bambino.

Sordo dalla nascita, Kori vive infatti in un mondo silenzioso, in cui le parole sono prima di tutto ed essenzialmente dei movimenti percepiti sulla bocca di chi gli sta di fronte. Ma Kori è cocciuto e determinato e così riesce a convincere la maestra che, nonostante la sua disabilità, desidera e può apprendere come gli altri a leggere e scrivere. Lì ha inizio una piccola magia. Kori inizia, infatti, a scrivere delle poesie che, a suo dire, non sono frutto del suo estro ma sono una semplice trascrizione di ciò che il dromedario gli confida. Sono letteralmente, dunque, parole di Caramello.

Sul filo di quelle poesie condivise, che nascono dalla relazione, l’amicizia tra Kori e Caramello si fa ancora più profonda, al punto che quando lo zio di Kori decide di macellare l’animale per poter sostentare la famiglia, Kori si dimostra pronto a gesti eclatanti (benché, purtroppo, insufficienti), pur di difenderlo.

Commuovente e intenso, Parole di Caramello è un racconto che sfugge ai canoni a cui la narrativa per i bambini tende ad aderire. Coraggioso nei temi, che si fanno specchio di tanti aspetti della complessità contemporanea, il libro di Gonzalo Moure sceglie di dare spazio a realtà tipicamente marginali e spesso poco conosciute, come la disabilità o la vita nei campi profughi. Pur dando voce a emozioni molto forti e talvolta buie, l’autore non manca di portare alla luce piccole scintille di speranza. La testardaggine con cui, per esempio, Kori dimostra all’insegnante che sordità e parola non sono per forza incompatibili, gli consente di esplorare la potenza della poesia e invita, al contempo, chi legge, a riflettere su quanta ricchezza possa generarsi dall’aggiramento di stereotipi e pregiudizi.

Il libro si caratterizza, infine, per la presenza di tavole avvolgenti e delicate firmate da Marià Girón, le cui tinte terrose e le cui linee tenui restituiscono con garbo e potenza non solo le atmosfere che accolgono la storia di Kori ma anche l’intima indole poetica che contraddistingue il racconto.

La sfida di Lepre e Riccio

Un mattino come tanti, ai piedi della collina, qualcosa pare turbare gli animali. Il cervo, i cinghiali e persino lo scoiattolo sembrano più mogi del solito e Riccio, sceso al campo di mais per raccogliere qualche pannocchia, ne scopre presto il motivo. Lepre ha, infatti, preso possesso del campo, sostenendo di essere arrivata per prima e dunque di avere diritto di proprietà. Riccio, dal canto suo, non è veloce quanto l’animale dalle lunghe orecchie ma è decisamente furbo e così propone a Lepre una gara di corsa con la quale decidere a chi spetti davvero il campo di mais. Spavalda, Lepre accetta, ignara che Riccio abbia messo a punto un ingegnoso piano per arrivare primo. Certo, c’è di mezzo un piccolo inganno ma in fondo è a fin di bene: tutti (ma proprio tutti!), al termine della corsa, potranno beneficiare di un campo in cui c’è posto sì per il mais ma anche per seminare amicizia e condivisione.

Se fosse esclusivamente per la trama, La sfida di Lepre e Riccio non sarebbe che una piacevole favola illustrata di grimmiana memoria (benché l’originale avesse un finale ben più truce!). E invece ci sono due aspetti che rendono questo libro tutto fuorché ordinario. Il primo è il fatto che inquadrando con lo smartphone o il tablet il QRcode stampato sulla prima pagina, il lettore può beneficiare della lettura in Lingua dei Segni Italiana. Quest’ultima, caricata sulla piattaforma tellyourstories (www.tellyourstories.org), presenta un interprete che narra la storia attraverso i segni mentre le illustrazioni del libro gli scorrono a fianco. Il video è pulito, chiaro e realizzato in maniera esteticamente gradevole. Per garantire la piena condivisibilità del racconto, libro e video devono andare di pari passo perché il primo contiene solo il testo in italiano mentre il secondo solo il testo in LIS. Il secondo aspetto che caratterizza La sfida di Lepre e Riccio è il fatto che la fiaba cui è ispirata sia stata rielaborata in maniera tale da inserirvi degli elementi caratteristici della cultura sorda. Così, per esempio, il libro si apre con Riccio che sfida i suoi piccoli a trovare un segno in cui la mano indichi il numero tre. Analogamente, gli amici di Riccio paiono festeggiare la vittoria con un applauso “segnato”, con le mani che si muovono in alto e, fin dalla copertina, Lepre è ritratta come se stesse replicando un gesto che ne esalta la sbruffoneria e la certezza di vincere.

L’idea che sta alla base di questo lavoro, che rientra all’interno del progetto InSegnare le favole di Mason Perkind Deafness Fund, è che le storie hanno un grosso potere in termini di creazione e condivisione di immaginari: ecco, allora, che consentire ai bambini sordi di ritrovare frammenti della loro quotidianità nei racconti e ai loro compagni di entrare in contatto con quest’ultima attraverso la narrazione, significa costruire occasioni semplici ma fruttuose di scambio e incontro.

La sfida di Lepre e Riccio è acquistabile con una donazione minima di 18 (comprensiva di spese di spedizione del volume) alla Mason Perkins Deafness Fund. Maggiori informazioni sul progetto sono reperibili qui.

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Fratelli di silenzio. La storia di Antonio Magarotto

Dopo Jean il sordo e La figlia di Jean, la cooperativa Il treno torna a raccontare, attraverso l’efficace linguaggio del fumetto, la storia di personaggi che hanno segnato la storia della comunità sorda. L’ultimo volume, curato da Alessandro Marras, Armando Delfini, Giuseppe Maggiore e Valerio Paolucci, si intitola Fratelli di silenzio ed è dedicato alla figura di Antonio Magarotto.

Nato udente e divenuto sordo a seguito di una forma acuta di meningite, Magarotto si attiva e si batte per tutta la sua vita affinché le persone sorde possano vedere riconosciute le loro abilità e i loro diritti. Cresciuto in un’epoca- quella immediatamente precedente la prima guerra mondiale – in cui i non udenti erano considerati completamente incapaci di acquisire un’istruzione e apprendere un mestiere, di difendere la patria e di vivere una vita piena e autonoma, Magarotto si rende presto conto di come la concezione della disabilità necessiti di un profondo rinnovamento, da un punto di vista culturale ma anche normativo. Basti pensare che l’articolo 340 del vecchio codice civile, contro il quale il protagonista a lungo si scaglia, recitava: “il sordomuto e il cieco dalla nascita, giunti all’età maggiore, si reputeranno inabilitati di diritto eccettoché il tribunale li abbia dichiarati abili a provvedere alle cose proprie”. Ecco allora che fin da giovanissimo Magarotto lavora senza scoraggiarsi a una modifica di quello stesso articolo e alla parallela costruzione di opportunità concrete di formazione ed emancipazione dei giovani con disabilità uditiva. Questa sarà la sua missione personale, condotta attraverso due guerre mondiali, il fascismo e il dopoguerra, con tutte le complicazioni che ciascuno di questi momenti storici porta con sé: dai ripetuti attacchi squadristi alla sua scuola di tipografia alle scissioni interne alla comunità di sordi. La costituzione di un’associazione unica, unitaria e compatta, che porti con una sola voce le istanze dei sordi, è non a caso uno dei traguardi più importanti per i quali Antonio Magarotto viene ricordato e che il libro Fratelli di silenzio a suo modo celebra. Lo stesso titolo, molto evocativo, rende omaggio a una concezione della comunità sorda come una vera e propria famiglia, con la quale poter condividere gioie, difficoltà, battaglie e aspirazioni.

Ricchissimo di fatti storici significativi, Fratelli di silenzio si fa apprezzare per la capacità di raccontarli in maniera molto fruibile, anche da parte di un pubblico di giovani. Attraverso poi una sezione finale, che riporta infografiche, documenti e paragrafi più dettagliati, il lettore può ulteriormente approfondire la storia dei sordi legata alla figura di Antonio Magarotto.

Prima che sia notte

Ci sono libri che, solo a parlarne, si ha paura di sciuparli. Preziosi e densissimi, contengono tante gemme che ci si ritrova disorientati nel tentativo di restituirne a pieno la ricchezza. Prima che sia notte di Silvia Vecchini è proprio uno di quegli scrigni: 128 pagine per un racconto lungo di grande intensità che alterna con sapienza prosa e versi.

Protagonisti sono Emma e Carlo, due fratelli legatissimi. Carlo è sordo e cieco da un occhio ed è principalmente attraverso la LIS che comunica con il mondo esterno, famigliari in primis. Emma, dal canto suo, carica questa lingua di un valore affettivo straordinario: per lei non è solo una possibilità comunicativa tra le molte che sente proprie e che ama sperimentare, ma è la lingua più preziosa, quella che tiene aperte le maggiori possibilità di contatto e condivisione con Carlo e di cui, per questo, sente di non poter proprio fare a meno. Grande è dunque il suo timore quando il residuo visivo di Carlo peggiora, rendendo necessario un ennesimo intervento e tangibile la possibilità che anche la vista, così come già l’udito, venga persa del tutto dal fratello. Ma la forza di Emma è palpabile tra le pagine, così nel viaggio che porta Carlo oltre il mare, nei giorni del suo ricovero e nei mesi che seguono pregni di incertezza, lei gli è accanto. Come gli Hansel e Gretel protagonisti della poesia dell’autrice contenuta in In mezzo alla fiaba (Topipittori, 2015), Carlo ed Emma attraversano letteralmente e metaforicamente la notte, il momento buio per eccellenza, in cui chiunque ha bisogno di fidarsi di qualcuno. Ma chi di loro aiuta l’altro? In una vicinanza che dona sostegno a entrambi, si scopre una reciprocità tanto inattesa quanto commuovente. E intanto la vita intorno ai due ragazzi non si ferma: c’è la scuola, con enormi lacune e insperate sorprese come quella legata all’arrivo di un Maestro con la M maiuscola, ci sono le passioni, ci sono gli amici, ci sono gli amori.

Ecco allora che il cuore del libro si svela poco a poco ma in maniera evidente: per quanto abbia un ruolo narrativo di primissimo piano, non è la disabilità di Carlo ad essere al centro del racconto. Sono le emozioni, piuttosto, a condurre le danze, a dominare la scena e a tratteggiare il vero tema del romanzo. La paura, il senso di impotenza, la speranza, la rabbia, la gioia, il conforto: messi a nudo e a fuoco, questi risuonano profondissimi nel lettore, che si trova così a sperimentare una grande empatia verso i personaggi che si muovono tra le pagine. Carlo ed Emma esistono davvero, la loro è una storia reale che l’autrice conosce bene e racconta da vicino – questo si avverte con chiarezza man mano che la lettura avanza – ma è soprattutto la capacità di Silvia Vecchini di coglierne e restituirne gli aspetti più vicini a tutti noi, a renderla così vera e palpitante.

Insegnamenti e moniti sulla disabilità e su come comportarsi di fronte ad essa sono qui del tutto assenti (evviva!) e questa scelta, tanto apprezzabile quanto rara nel panorama della letteratura per ragazzi che alla disabilità dona spazio, amplifica la capacità del romanzo di risuonare autentico e forte dentro il lettore. Le parole misurate dell’autrice preferiscono in questo senso lasciare spazio a sentimenti riconoscibili da ciascuno, smuovendo pensieri individuali rispetto a tanti temi importanti, uno su tutti quello del bisogno innato e fortissimo di comunicare. Emma e Carlo trovano i loro modi per farlo, alcuni più codificati come la LIS altri più intimi e personali come i messaggi scritti a macchina ma senza inchiostro: ciascuno ha il suo ruolo e richiede un diverso grado di coinvolgimento e intenzionalità per essere colto.

Emma, poi, scova una lingua tutta sua per esprimere ciò che ha dentro, una lingua che la stessa Silvia Vecchini frequenta assiduamente e definisce una lingua sorella della LIS: è la poesia. Densa e potente, questa è per la protagonista come un modo di mettere la testa sott’acqua e guardare sotto la superficie. È una strada per dire l’indicibile – che nella disabilità, non a caso, trova ampio spazio – consentendo di pescarlo dal profondo, districarlo e tradurlo. Con i versi i pensieri assumono un nuovo ritmo e un nuovo punto di vista.

La storia, perlopiù narrata dall’esterno, assume infatti lo sguardo di Emma quando il racconto si fa poesia. Anche il font cambia in contemporanea, restituendo così all’occhio quello scarto narrativo che la mente e la pancia percepiscono altrimenti. Secondo un analogo principio di mutevolezza, quando il rischio di cecità totale si fa concreto per Carlo ossia nel momento più buio della storia, il libro sostituisce le pagine bianche a scritte nere con pagine nere a scritte bianche: una trasformazione grafica che corre in parallelo a quella emotiva e fisica, con un effetto tutt’altro che trascurabile sul lettore.

Da qualunque lato lo si guardi, insomma, Prima che sia notte rivela una preziosa cura compositiva, che investe tanto la forma quanto il contenuto e che lo rende un piccolo gioiellino. Quanto bisogno c’è, per i ragazzi e per gli adulti, di libri così: libri che sono insieme un balsamo e una scossa per l’animo, che aprono spiragli e talvolta vere e proprie finestre su realtà che spesso scorgiamo solo da lontano e che invece, attraverso le parole giuste, possiamo riconoscere, dire e sentire un poco nostri.

Io sono sordo

Con un titolo schietto e diretto – Io sono sordo – l’albo di Manuela Marino Cerrato e Annalisa Beghelli mette subito sul tavolo il suo tema e il suo punto di vista: l’esperienza della sordità, vissuta e raccontata in prima persona. Più che contenere una vera e propria storia, l’albo edito da Carthusia raccoglie una serie di brevissime riflessioni a misura di bambino, su cosa implichi l’essere sordo, sulle emozioni che questa condizione reca con sé, sulle difficoltà e sulle opportunità che ne derivano. Ne viene fuori un ritratto composito che guarda e tiene insieme gli aspetti più bui e quelli più positivi della sordità, che della vita del protagonista è evidentemente una parte essenziale ma non totalizzante. Il libro dice cioè con grande chiarezza che la disabilità non può ridursi a un’etichetta e che le persone non sono mai – e mai devono essere viste – come la loro diagnosi.

Io sono sordo prende le mosse da un’esperienza reale e dal desiderio di una mamma di dare voce a un vissuto complesso e non sempre percepito come tale dall’esterno, quale è quello dei bambini sordi e delle loro famiglie. Nel racconto di Manuela Marino Cerrato, la cui autenticità arriva dritta al lettore a ogni pagina, trovano non a caso ampio spazio genitori e fratelli, oltre che amici e compagni, come persone toccate in maniera profonda e significativa dalla disabilità, seppur vissuta di riflesso. Questa viene tratteggiata in particolare da aggettivi forti come odiosa, spaventosa, deprimente ma anche intelligente, affascinante o buffa, che si svelano in una riga o due al massimo, attraverso situazioni quotidiane molto pratiche. Così, per esempio, la sordità è cattiva quando mi fa chiudere in me stesso o interessante perché fa imparare la lingua dei segni, in un succedersi di mini-quadri che la delineano come una presenza invisibile sì, ma per certi versi anche tangibile, quasi personificata.

Significativo, in questo senso, il contributo offerto dalle tavole di Annalisa Beghelli, tutte giocate sui toni del viola e dell’arancione, i cui tratti spigolosi restituiscono visivamente le tante sfaccettature emotive oggetto del libro. L’illustratrice interpreta  le parole dell’autrice, dedicando un’attenzione particolare alla gestualità e alla mimica facciale dei personaggi, così che la quotidianità priva di suoni di cui si parla possa emergere in tutta la sua forza e specificità.

Io sono sordo nasce dall’incontro tra l’Associazione Vedo voci, di cui fa parte la stessa autrice, e la casa editrice Carthusia, da tempo attenta a portare sulla pagina in forma di racconto illustrato tutta una serie di temi sociali. Rispetto a titoli precedenti di stampo analogo, Io sono sordo privilegia un approccio meno narrativo, prestandosi forse a destare più facilmente l’attenzione di chi della sordità ha già esperienza più o meno diretta. Per tema e struttura il libro offre in particolare uno spunto interessante per riconoscersi e riconoscere vissuti emotivi che la disabilità tende talvolta a ingarbugliare o coprire e che invece meritano di essere detti e conosciuti.

Se un bambino

Sulla copertina di Se un bambino campeggia un bimbo smilzo dai vistosi occhiali tondi in sella a una tigre dall’aspetto bonario. Il loro sguardo è simile, vuoi per gli occhi sgranati del felino che richiamano la montatura del piccolo, vuoi per il sorriso abbozzato che caratterizza entrambi. C’è una complicità misteriosa tra i due, un’affinità elettiva che rompe le nostre consuetudini immaginative, prima ancora di aprire il volume. Un bambino amico di una tigre esce infatti dalle convenzioni e dalla norma e proprio per questo accende la curiosità e suscita un sentimento di positivo interesse.

Ecco, questo è in fondo esattamente ciò su cui il libro di Davide Musso e Anna Forlati ci propone di riflettere, invitandoci a osservare con attenzione ogni bambino, per conoscerne e riconoscerne le peculiarità, le difficoltà e i talenti nascosti prima di liquidarli con la frettolosa etichetta di “strani”. Perché di bambini che appaiono e vengono definiti tali ce ne sono a bizzeffe – chi non ha parole, chi non sa disegnare, chi arriva in ritardo, chi ha la testa al contrario e via dicendo – ma a ben guardare, quel loro modo di fare e di essere, ha spesso una ragione inattesa o denota un saper fare altro.  Un bambino che non ha le parole o non sa disegnare, per esempio, non è detto che non possa comunicare altrimenti e su questo, non a caso, lavorano i libri accessibili.

Se un bambino dice perciò molto della disabilità, pur senza citarla nel dettaglio, mostrandoci con garbo che, così come qualunque altra forma di diversità, dipende almeno in parte dall’occhio di chi guarda e da ciò che questi sa e vuole vedere. Il libro procede, nello specifico, per accumulazione, proponendo una sfilza di bambini dall’aspetto o dal comportamento insolito, tutti ritmicamente introdotti da quel “Se un bambino…” che contraddistingue anche il titolo. In questo modo le stranezze si susseguono, si affastellano e insieme iniziano a ronzare nella testa del lettore, rendendo particolarmente efficace il repentino cambio di prospettiva finale (di cui più non diremo!). Interessante e suggestivo, sempre nell’ottica di invitare chi legge alla riflessione, sono l’uso rarefatto delle parole dell’autore e il controcanto metaforico offerto dall’illustratrice, che riempiono di senso il volume senza appesantirlo con rigide soluzioni. Ne vien fuori un albo stimolante e suggestivo il cui messaggio è dunque molto chiaro ed esplicito ma la cui costruzione è tale da lasciare ampia possibilità di riconoscimento, interpretazione e pensiero.

Che cos’è una sindrome?

Alla domanda Che cos’è una sindrome?, il dizionario Garzanti risponde secco: “il complesso dei sintomi che denunciano una situazione patologica senza costituire di per sé una malattia autonoma”. Ottimo, l’interrogativo può dirsi a questo punto soddisfatto da un punto di vista squisitamente medico. Ma siamo certi che basti a dirci cosa significhi, nella quotidianità delle azioni e dei sentimenti, avere una sindrome? Se è vero come è vero che una persona non è la sua disabilità o la sua malattia, è importante provare a scavare un po’ più a fondo per cogliere e mettere in luce ciò che della convivenza con una sindrome, dizionari e manuali non danno notizia. Ed è proprio quello che ha fatto Giovanni Colaneri per il suo progetto di tesi all’ISIA di Urbino che oggi è diventato un raffinato albo illustrato per i tipi di Uovonero.

25 doppie pagine intensissime si susseguono qui, ciascuna contraddistinta da un’illustrazione di grande dimensione e da poche parole che rispondono alla domanda del titolo. Perché una sindrome può essere tante cose: non solo può avere tante cause e tanti effetti, ma soprattutto può essere vissuta in tanti modi, anche da parte della stessa persona. Con le sue ricche figure, in sottile dialogo con le parole centellinate che le accompagnano, l’autore socchiude e talvolta spalanca finestre inattese nel lettore, non solo restituendogli prospettive poco battute (una sindrome come un attacco, per esempio, un sentiero o un movimento continuo) ma anche offrendo chiavi di lettura nuove per prospettive più sedimentate (una sindrome come qualcosa di raro, potenzialmente preziosa come una gemma, per esempio).

Di grande suggestione per lettori maturi o per gruppi guidati di lettori giovani e giovanissimi, ogni quadro è una possibilità di pensiero nuovo, uno spunto, uno slancio, che come suggeriscono bene i risguardi, non vuole dare risposte nette ma piuttosto far fiorire gli interrogativi.

Le mani di Anna

In una città che nasconde balconi rigogliosi e giardini erbosi, vive una bambina fuori dal comune. Si chiama Anna e ha un segreto: guarisce i pensieri con le erbacce. Le sue mani sapienti – di una sapienza che è insieme bambina e antica – sanno scegliere e raccogliere l’erba giusta per ogni affanno e donarla con cura riservatissima a chi ne ha bisogno. Così Anna trascorre le giornate tra steli e fiori, senza proferir parola se non alle erbe stesse e facendo uso accorto dei suoi strumenti: forbici, pinzette e fazzoletti. Gli altri bambini la reputano stramba ma c’è qualcuno nel palazzo che sa conoscere e riconoscere la preziosa ricchezza che della stramberia ha solo l’apparenza. Ogni sera, quindi, Anna trova ristoro e compagnia dietro la porta del settimo piano dove si celebra con garbo profondo il potere della selvatichezza – dei pensieri e delle persone -, e la capacità di trasformare la realtà con uno sguardo (o con un gesto).

Il testo composto da Sarah Zambello per Le mani di Anna è asciutto ma dal respiro ampio e nell’accompagnare il lettore a conoscere Anna e i suoi segreti getta minuscoli ma preziosi semi di riflessione: sul respiro, che in fondo non è altro che ricerca di un odore da seguire, sui ricordi che richiedono sguardi distratti, o sui pensieri, anche i più selvatici, che sono preziose possibilità da assaggiare. E così facendo predispone a una lettura quieta, che abbia il tempo di affondare radici e germinare nella testa di chi scorre le parole.

Complici indispensabili di questo invito al rallentamento di sguardo, sono le illustrazioni straordinarie di Daniela Iride Murgia. Capace di autentici prodigi con i colori e le figure, l’illustratrice riesce a rendere qui, con il suo tratto inconfondibile, tutta la saggezza dei gesti mossi dalla piccola Anna, la ricchezza immaginifica delle cose della natura e la sovrapposizione mai domita tra dimensione reale e fantastica. Nelle sue tavole che par quasi di poter odorare, le mani della protagonista sono sempre in primo piano e proprio questa prospettiva aiuta il lettore ad affiancare Anna nel suo raro dono di cogliere ciò che si nasconde nella natura più ordinaria.

Ma non è tutto. Con la sua fine capacità di interpretare nel profondo e dare nuova linfa ai racconti che illustra, Daniela Iride Murgia fa un’altra piccola grande magia, ossia trasforma i movimenti delle mani di Anna in segni eloquenti, segni cioè capaci di dire oltre che di fare. Così, oltre che a scegliere e raccogliere le erbe giuste per guarire i pensieri, ai pensieri le mani possono anche dare voce, tramite gesti silenziosi che ricordano molto da vicino la LIS. Ecco allora che con una delicatezza impalpabile, la diversità di Anna assume un contorno nuovo, ancor più ricco e sfumato. E lo fa attraverso dettagli disseminati qua e là (fin sui risguardi!), mai gridati ma anzi appena accennati, e apprezzabili dunque solo a un occhio accorto: una scelta significativa e fuori dagli schemi, questa, che dice bene di come la tanto declamata valorizzazione della diversità – tra le pagine dei libri così come nel nostro quotidiano – non possa prescindere da un’educazione allo sguardo e all’attenzione.

La bambina che andava a pile

Quello con La bambina che andava a pile è stato amore a prima vista. Tutto subito per quel titolo curioso e quelle illustrazioni graffiate e graffianti, che non passano inosservate fin dalla copertina. Poi per la testimonianza preziosa di una sordità vissuta da dentro, la ricchezza di piani di lettura, l’unione commuovente tra ironia e profondità che, davvero, è raro trovare in un albo che tocca il tema della disabilità. Ma andiamo con ordine.

La bambina che andava a pile è l’opera prima di una giovanissima autrice bresciana (classe 1992!), cresciuta con una sordità profonda diagnosticata all’età di due anni e poi con un impianto cocleare posizionato all’età di dieci. Proprio quell’esperienza d’infanzia, così particolare e distante da quella della maggior parte dei bambini, è protagonista del libro che raccoglie in forma lapidaria una serie di riflessioni su cosa significhi, concretamente, essere sordi in un mondo di udenti: la rincorsa delle parole, l’ostilità del buio che crea un distacco netto col resto del mondo, le voci – molteplici – su cui può fare affidamento, la vita in equilibrio tra più dimensioni, il valore relativo del concetto di diversità, il peso variabile dei nomi con cui si dice e si dà forma a una realtà. Quello di Monica Taini è un ritratto personale ma scorre fluido e avvincente come una storia avventurosa, forse perché propria come un’avventura è pieno di rivelazioni e colpi di scena. Ogni pagina è una bordata di senso, talvolta illumina talvolta colpisce allo stomaco, ma sempre invita a soffermarsi un attimo (e più) anche grazie all’eco generato da immagini in cui incisione e collage risultano molto espressivi. A chiudere il tutto, un glossario semiserio di cultura sorda che introduce con straordinaria ironia al mondo della sordità, tra oralismo, protesi e logopedia: una chicca utilissima per spiegare termini difficili e dire questa particolare disabilità con una precisione sorridente.

Morale: non lasciatelo sfuggire. La bambina che andava a pile è uno di quegli albi da conoscere e far conoscere. Assolutamente. E per il quale non solo l’autrice ma anche un lungimirante editore come Uovonero merita un grazie a lunga durata.

Il coniglio di Alja

Se è vero che la disabilità, da qualche tempo, si è ricavata spazi di rilievo all’interno della letteratura per l’infanzia, è altresì un fatto che non tutte le disabilità trovano eguale rappresentazione in quella letteratura. Soprattutto quando è rivolta ai più piccoli. Gli albi proposti ai bambini in età prescolare tendono infatti  a concentrarsi sulle disabilità più note e diffuse, più facili da avvicinare e conoscere e, in generale, meno gravi e forse più normalizzabili. Più difficile, invece, trovare parole e figure che raccontino agli orecchi acerbi la disabilità grave o la pluridisabilità, quella stessa che più difficilmente gli stessi bambini incontrano sul loro cammino. Eppure questo incontro accade e avere tra le mani uno strumento che aiuti a trasformarlo in un’occasione di crescita è auspicabile e positivo.

Alla luce di tutto questo Il coniglio di Alja pare un libro insolitamente coraggioso, per la scelta schietta e controcorrente di dare spazio a una disabilità rara e complessa. La protagonista dell’albo edito da Asterios, infatti, non cammina, non parla, non vede e non sente bene: Alja è affetta dalla rara sindrome di Leigh, ci dice la nota per adulti a fondo libro, il che la rende gravemente non autosufficiente. Quale che sia la sua sindrome precisa, tuttavia, al lettore e agli autori non importa granché, poiché parole e immagini si concentrano su ciò di cui i bambini concretamente si accorgono e sulle domande reali che popolano le loro menti. Perché è nel passeggino? Perché è in questo modo? E come farà a giocare con noi?, per dirne qualcuna. Tutte domande che qualunque maestra si sentirebbe porre di fronte a una diversità così marcata e alle quali non è così semplice rispondere. Le parole di Brane Mozetič  sono tuttavia misurate e mirate, capaci di nominare con correttezza e senza sbavature una realtà delicatissima e di sposarsi con pacata armonia alle illustrazioni morbide ma decise di Maja Kastelic. In entrambi i suoi aspetti comunicativi il libro mantiene uno sguardo positivo che non sfocia nell’irrealistica edulcorazione della realtà e presta un’attenzione di riguardo alla gestualità, agli sguardi, alle distanze e alle posizioni assunte dai protagonisti: un modo rispettoso e sincero di dire il rapporto che lega disabilità e infanzia, non castrando la naturale curiosità dei bambini ma offrendo loro risposte e azioni soddisfacenti. 

Ne Il coniglio di Alja,  in fondo, non c’è che il racconto di un’esperienza, di una quotidianità per certi versi insolita: l’arrivo all’asilo di una bimba dai bisogni più che speciali, il confronto con una diversità che spiazza e pone interrogativi importanti, le esperienze che, grazie a maestre accorte, la bambina e i suoi compagni riescono a condividere, l’incontro al di fuori della scuola per un compleanno e  la scoperta di un amico comune – un coniglietto nella fattispecie – che incentiva e sostiene la relazione nonostante le gravi difficoltà. Il libro pone cioè un focus molto esplicito sulla disabilità e ciononostante mantiene – cosa tutt’altro che scontata – una freschezza e una profondità apprezzabili che trasformano una narrazione apparentemente ordinaria in un seme di attenzione e apertura.  

Io rispetto. Filastrocche per una lettura della Convenzione sui Diritti delle Persone con Disabilità

C’è un paese di nome Armonia, in cui ogni persona vive serenamente, libera di giocare, crescere, imparare, esprimersi, realizzarsi nella maniera che gli è più congeniale, anche nel caso in cui sia colpito da una disabilità. Armonia è certo un paese fantastico ma che traduce in immagini efficaci il senso di un documento importante come la Convenzione dei Diritti delle Persone con Disabilità e che si vorrebbe non distasse molto dalla realtà. I suoi abitanti accoglienti, le sue leggi amichevoli e i suoi luoghi ospitali rendono bene l’idea di come dovrebbe costruirsi una società inclusiva quale quella raccomandata dal documento redatto dall’ONU nel 2006. Questo, reso a misura di bambino grazie a un lavoro intitolato “Parliamo di abilità” promosso dall’UNICEF, funge proprio da ispirazione per i quattordici componimenti in rima di Io rispetto. Filastrocche per una lettura della Convenzione dei Diritti delle Persone con Disabilità, scritti da Bendetto Tudino e illustrati da Marianna Verì.

Il volume nasce da un progetto dell’Unicef, dell’Agenzia Politiche a favore dei Disabili del Comune di Parma e dall’associazione Rinoceronte Incantato. Forte dell’idea che le norme vanno il più possibile fatte proprie e interiorizzate, il libro sceglie la via della rappresentazione poetica per dare un senso pieno, comprensibile e vicino al sentire dell’infanzia a norme rigorose e astratte. Così il diritto di ridere, scegliere, esserci o decidere acquistano un significato più vivo e palpitante, più facile da riscontare e forse mettere in pratica nella vita di tutti i giorni. Tra tanti diritto, poi, non manca quello a noi tanto caro, di leggere, che l’autore chiude così:

Impara così un Mondo felice

Quel che si fa, si pensa e si dice.

Con le mani, gli occhi e la mente,

studia il sapere di tutta la gente.”

A silent voice

C’è sempre una prima volta, anche per la recensione di un manga. A silent voice è infatti il primo fumetto giapponese che arriva su Di.To, in virtù di una storia che mette al centro una disabilità invisibile come quella uditiva e soprattutto le dinamiche di che intorno ad essa possono attivarsi. Il protagonista del fumetto è infatti  un ragazzo tediato dalla vita e piuttosto superficiale – Shoya Ishida – che trascorre le sue giornate a trovare un modo di sconfiggere la noia quotidiana. Che sia un tuffo da altezze improponibili o il battersi con energumeni, poco importa: quel che sta a cuore al ragazzo è il divertimenti fine a sé stesso e del tutto indifferente agli effetti su chi lo circonda. Per questo quando nella sua classe arriva Shoko Nishimiya, una ragazzina sorda, Shoya Ishida non perde occasione di darle il tormento, anche in maniera piuttosto pesante. Sono espliciti messaggi di disprezzo o atti di autentica crudeltà, i suoi, che feriscono profondamente Shoko Nishimiya che si mostra sempre paziente ma che alla fine abbandona la scuola. Sarà allora che il ragazzo si renderà conto di ciò che ha fatto e degli effetti che hanno causato le sue azioni: malvagità che gli si ritorceranno contro con l’avversione dell’intera comunità scolastica. Il bullo finisce quindi per trovarsi dall’altra parte della barricata, vittima di un biasimo e  di un’emarginazione che tanta parte avranno nel convincerlo a rimediare per tutti i danni fatti.

La storia di Shoya Ishida e Shoko Nishimiya è narrata da Yoshitoki Oima nella tradizionale forma del manga che si legge da destra a sinistra. Contraddistinto da un ritmo serrato, da vignette fitte (talvolta con disegni e scritte piccolissimi) in bianco e nero, da testi diretti e non troppo ricercati (a partire dall’utilizzo dell’espressione linguaggio dei segni al posto di lingua), A silent voice non propone una storia particolarmente segnante e travolgente ma mette l’accento su aspetti della vita scolastica in caso di disabilità su cui spesso la letteratura per bambini e ragazzi tace. Quello del bullismo, perpetrato in forme anche molto mortificanti, è un tema qui centrale che viene trattato con un’esasperazione e un crudezza poco abituali.

A silent voice è in realtà una serie composta da altri sette volumi, oltre quello in questione. In ciascuno si approfondisce la relazione tra Shoya Ishida e Shoko Nishimiya,passando attraverso riavvicinamenti e drammatiche distanze che cercando in maniera piuttosto calcata di rendere conto degli effetti, anche a lungo termine, che il fenomeno del bullismo può generare.

Eppure sentire

Silvia va per i quindici anni, frequenta il liceo classico, gioca a pallavolo e ha recentemente avuto un incidente sulla corriera che la portava a scuola: un grosso schianto con un tir proprio in corrispondenza del suo sedile e una ferita importante in testa. Ma soprattutto un aumento del danno all’udito con cui la ragazza combatte fin dalla nascita a suon di protesi – due giraffe a macchie che sono ormai parte di lei – e di instancabili esercizi di ascolto e lettura del labiale condotti insieme all’amorevolissima mamma. Insomma, l’incidente non ci voleva proprio, soprattutto perché concorre a rendere inderogabile la decisione che Silvia rimanda da tempo: sottoporsi o meno all’intervento per l’impianto cocleare.

Accanto e intorno a questa decisione ruotano eventi, incontri, pensieri in un turbinio che solo l’adolescenza è in grado di tenere insieme: le amicizie che nascono e che muoiono, l’amore che sboccia, le attività di volontariato, le feste, le prime responsabilità, il senso di esclusione, il desiderio di mascherare la propria diversità, i sentimenti complessi nei confronti dei propri familiari. Il tutto con l’inscalfibile consapevolezza che la sordità resta un marchio a cui è difficile sottrarsi, un fardello che condiziona ogni azione e rappresentazione di sé nel presente e nel futuro. Lo dice chiaramente, Silvia:

Se hai già fallito una volta, nascendo sorda, non puoi fallire più. Anzi, come minimo, per recuperare non devi essere solo normale, devi essere eccezionale, sorprendente, sorprendere tutti, che progressi la bambina, chi l’avrebbe mai detto, , chi si aspettava questi risultati, meglio del previsto…”

Forte anche di un personaggio ispirato a una persona reale e davvero ben delineato,  Eppure sentire appare un romanzo forte, coinvolgente e vero, che tocca corde profonde e commuove fino alle lacrime. È un romanzo che parla chiaro alle orecchie dei ragazzi, anche a quelle di chi non sente bene o non sente affatto, scoprendo al contempo tutta la normalità e tutta l’unicità di un’adolescenza segnata da una disabilità invisibile come la sordità. Ma è anche una celebrazione degli spazi di possibilità che ciascuno ha il diritto e il dovere di ritagliarsi, qualunque sia la sua forma di diversità rispetto agli altri.

Supersorda

Supersorda è un racconto a fumetti, dallo stile buffo e dal tono estremamente ironico, in cui l’autrice statunitense si rifà alla sua personale esperienza di bambina divenuta improvvisamente sorda a causa di una malattia e al percorso di integrazione cui questo episodio l’ha portata. Lo fa costruendo un mondo in cui la protagonista – che non a caso si chiama proprio Cece – e chi la circonda assumono le sembianze di simpatici conigli, collocati in un mondo perfettamente umanizzato.

Lungo le oltre 240 pagine di questo romanzo a fumetti, colorate e divertenti, si legge di una bambina come tante che si ritrova a dover fare i conti con una forma di diversità invisibile e insieme ingombrante. L’enorme orecchio fonico che Cece è costretta a portare con sé con non poco imbarazzo diventerà nelle sue fantasie di bambina il simbolo di un superpotere che sì la distingue, ma in positivo. Grazie all’apparecchio, Cece riesce infatti a sentire cose che gli altri non sentono (come la maestra quando è in pausa o persino alla toilette) e a conquistare così l’ammirazione dei compagni. Ma quello verso l’accettazione di sé, base imprescindibile anche per l’accettazione degli altri, è per la bambina un vero percorso a ostacoli, in cui le difficoltà non sono celate. Sono difficoltà piccole e grandi, dettate dal sentirsi inadeguate, dall’avvertire costantemente il curioso sguardo altrui sopra di sé, dal non riuscire, banalmente, a vivere a pieno un pigiama party in cui ci si scambi confidenze a luce spenta.

Grazie a una narrazione che parte da un vissuto e che fa leva su un’autoironia straordinaria, Supersorda riesce a far conoscere al lettore un personaggio fuori dal comune ma vicinissimo nei sentimenti, ad appassionarlo e a farlo ridere con una storia in cui la positività è la chiave del successo e a rendere la sordità una differenza più facile da comprendere e forse approcciare.

Super Tommy cresce

Supertommy è un bambino con dei superpoteri: dorme, mangia, parla e corre da solo. Mica roba da ridere! Per riuscire ad affinare queste abilità il bambino ha dovuto superare prove impegnative e affrontare fasi della vita tutt’altro che banali. Così, per esempio, “prima di nascere dormiva nella pancia”, “Appena nato dormiva nella culla”, “Poi nel letto di mamma e papà”. Ma un supereroe dorme da solo… e sogna in grande!, e questo è solo il primo dei suoi tanti segreti.

Contraddistinto da una grafica accattivante, pulita e moderna, Supertommy cresce è scandito da un ritmo ricorrente basato sul prima di nascereappena natopoi, che aiuta il piccolo lettore a individuare e riconoscere le diverse tappe di crescita che anche lui ha affrontato o sta affrontando.

L’aspetto particolarmente interessante di questo libro è la maniera in cui inserisce la disabilità all’interno di una discorso più ampio e generale, riuscendo a darvi un rilievo che non sfocia in un focus esclusivo. Solo dopo aver esplorato i diversi aspetti e le diverse tappe della crescita del protagonista, il libro sottolinea che ogni bambino ha la sua storia e i suoi superpoteri: non tutti quindi sono tenuti ad affrontare le stesse tappe o raggiungere gli stessi traguardi, ma soprattutto ciascuno affina il proprio superpotere nella sua persona maniera. Muoversi su Super-ruote, citato come esempio, diventa così una conquista dalla dignità equivalente al tenersi in equilibrio da soli e correre più veloce della luce.

Jean il sordo

Jean il sordo è un fumetto dedicato alla figura di un giovane orfano francese del ‘700 attraverso la cui vita si delinea una sintetica storia dell’educazione delle persone sorde. Il protagonista è infatti colpito da disabilità uditiva e vive questa sua condizione con grande sofferenza: nel suo lavoro di falegname, per esempio, viene discriminato nonostante l’evidente talento e le sue relazioni interpersonali vengono ostacolate dalle difficoltà comunicative che la disabilità gli impone. Sono alcuni incontri particolarmente felici – come quello con Pierre Desloges – a offrigli le occasioni e gli strumenti necessari per prendere coscienza delle sue capacità e farle valere all’interno di una società in cui i sordi erano tendenzialmente destinati alla mendicanza. In questo modo, attraverso le vicende di un personaggio inventato, presentate con un genere accattivante come il fumetto, gli autori mettono in luce alcuni momenti storici particolarmente importanti per il progresso della cultura dell’inclusione. Emergono con particolare forza le figure della abate De l’Èpée, che dà vita alla prima forma di francese segnato e cura l’alfabetizzazione di molti giovani sordi, o di Pierre Desloges, che difende con forza il ruolo della lingua dei segni per la comunicazione e la socializzazione delle persone sorde.

Quello dedicato a Jean il sordo è un fumetto messo a punto dalla cooperativa romana Il treno, specializzata nella produzione di materiali e strumenti dedicati al mondo della disabilità uditiva. Molto curato nei riferimenti storici e nell’attenzione alla resa, all’interno dei fumetti, dei segni  con cui si esprimono i personaggi, il libro risulta particolarmente (ma tutt’altro che esclusivamente) fruibile ed apprezzabile da chi già padroneggi almeno un’infarinatura degli episodi storici cui si fa riferimento. Tutti gli altri possono senz’altro beneficiare dell’appendice che racconta in maniera dettagliata la biografia e il  dei personaggi coinvolti e che si sofferma su alcuni elementi di contestualizzazione storica, di particolare interesse per un pubblico adulto o per un utilizzo scolastico. Il fumetto, di cui è possibile visualizzare un’anteprima qui, trova infine un seguito in un lavoro, a cura dei medesimi autori, intitolato La figlia di Jean.

Un giorno nella vita di tutti i giorni

Avete a disposizione un lungo pomeriggio, magari di pioggia e ozio, con un bel divano a disposizione? Perfetto! Mettetevi comodi perché Un giorno nella vita di tutti i giorni è proprio il libro che fa per voi. Tra le pagine di questo cartonato dal formato consistente potrete ritrovarvi a trascorrere un tempo indefinito nel piacevole tentativo di esplorare a fondo quadri quotidiani brulicanti di attività. L’originale albo di Ali Mitgutsch, famosissimo in Germania fin dagli anni ’60 ma incredibilmente mai edito in Italia fino ad ora, è infatti un silent book in cui ciascuna delle 12 doppie pagine dipinge un contesto – il parco, il cantiere, il molo, il mercato e così via – all’interno del quale si sviluppa una miriade di azioni, situazioni e relazioni. Il bello della lettura sta perciò nel cogliere gli innumerevoli dettagli che caratterizzano ogni quadro, sfidando eventuali compagni di svago a trovare il ragazzo che sta per cadere nel laghetto, i bimbi che fanno i rotoloni giù dalla montagna o persino l’angolo dei nudisti in spiaggia.

spiaggia_alì piscina_alì lago_alì

Tutt’altro che privo di influenze alte, che risalgono fino a Bruegel e alla corrente fiamminga, Un giorno nella vita di tutti i giorni calamita il lettore grazie a pagine che paiono letteralmente animarsi. Ogni loro centimetro vede piccole avventure dipanarsi in totale autonomia o con sottili connessioni con ciò che accade intorno. Come a bordo di un elicottero il lettore può godersi le scene dall’alto, indugiando a piacere su quelle che gli paiono più buffe (si pensi al bimbo che fa la pipì di nascosto tra i cespugli), particolari (tra le altre, la fila di mucche truccate secondo usi montanari tradizionali) o capaci di stimolare ipotesi narrative ardite (ad esempio di fronte al tizio che si arrampica sul tetto di una baita innevata).

Il fatto che la narrazione si apra e si chiuda a ogni pagina e che si sviluppi attraverso microstorie con protagonisti ogni volta diversi su cui si posa lo sguardo del lettore, fa sì che la lettura risulti particolarmente duttile, personalizzabile, propizia allo stimolo della verbalizzazione anche e forse soprattutto in caso di difficoltà cognitive e comunicative. l’assenza di testo inoltre rende il volume accessibile e godibile anche il caso di dislessia e disturbi uditivi. Da ultimo, il formato ampio e la pagine spesse rendono leggermente più agevole la sfogliatura delle pagine.

Dragon Boy

Un apparecchio ai denti piuttosto vistoso; un problema osseo che implica l’uso sistematico di una stampella, uno scarso equilibrio e una spina dorsale a forma di cresta.; un impianto per compensare un disturbo uditivo: voilà quel che a prima vista è Max Stanghelli, protagonista e narratore di Dragon Boy. Se a questo quadro già di per sè poco invidiabile (uno schifo, più precisamente, direbbe lui) si aggiunge anche che Max è iscritto in prima media (con tutti i rischi, i compagni nuovi e le difficoltà di sopravvivenza che questo comporta), si capisce bene perché il superpotere che più di tutti il ragazzo vorrebbe possedere è quello dell’invisibilità. Invisibilità per sfuggire alle interrogazioni della prof Nicolini, alle prepotenze di Serracchiani e Ronchese e soprattutto alle insistenze della Ferri che lo vuole a tutti i costi nel musical scolastico de Il mago di Oz. Decisa ad attribuirgli la parte del boscaiolo di latta, perché come quest’ultimo Max sembra “fatto di ferro ma in realtà ha un cuore grande”, la professoressa gli sta alle calcagna nel tentativo di convincerlo a prender parte alla recita. Ma per nulla al mondo Max vorrebbe calcare quel palco, finendo osservato e probabilmente deriso dall’intero pubblico.

Il fatto è che si sente perlopiù inadeguato il ragazzo  – quando all’ora di ginnastica viene esonerato dalla lezione per le sue difficoltà fisiche o scelto per ultimo nelle squadre, quando al gioco della bottiglia le ragazze si rifiutano di baciarlo o quando casca negli scherzi cinici dei bulli di classe – tutto il contrario di come appare e di come si deve sentire Dragon Boy, il supereroe di un fumetto che Max trova per caso (prima in un cestino in sala professori e poi nella fessura di un muro vicino a casa) e a cui si appassiona follemente. Dragon Boy è infatti un supereroe coraggioso, forte e ammirato da tutti. Quel che è strano, però, è che le sue avventure richiamano misteriosamente episodi davvero accaduti nella scuola di Max. Per il protagonista, travolto dalla curiosità, questo enigma richiede delle indagini che porteranno ad esiti seriamente inaspettati. Non solo Max sarà stupito nello scoprire chi è il fantomatico autore dei fumetti di Dragon Boy, ma finirà per imbattersi in inattese dichiarazioni d’amicizia e nello scoprirsi più speciale di quanto non si aspettasse. Un ruolo importante, in questa svolta – seppure il testo lo sottolinei scherzando – viene giocato dalla letteratura in generale e da singoli personaggi immaginari: proprio quelli che difficilmente immagineremmo venire in nostro aiuto in caso di bisogno.

Sulla fortunata scia di Diario di una schiappa e del meno noto ma altrettanto significativo Diario assolutamente sincero di un indiano part-time, il libro di Guido Sgardoli segue i pensieri e i resoconti di vita scolastica del dodicenne Max, che fedelmente li riporta all’interno del diario che gli ha regalato sua sorellaDomitilla. Questa forma consente all’autore di regalare freschezza e naturalezza al racconto, cui contribuiscono anche gli schizzi, le cancellature, i disegnini a bordo pagina e i caratteri di varie dimensioni e stili. La capacità dell’autore sta poi nel mantenersi fedele allo sguardo di un ragazzino e di fare dell’ironia un’arma narrativa seducente e potentissima. La maniera in cui Max racconta delle sue disavventure scolastiche fa infatti costantemente sorridere e molto spesso ridere di gusto: quando resta incastrato nella macchinetta delle merendine, tanto per dirne una, è davvero difficile contenersi. Questo contribuisce (più di quanto non faccia, a dire il vero, l’esplicitazione della morale) a togliere alla sua diversità il peso di una condizione verso cui provare una distaccata tristezza e a favorire con leggerezza, invece,  l’empatia e la simpatia da parte del lettore. I fumetti di Enrico Macchiavello,che di tanto in tanto inframmezzano la narrazione, sono dal canto loro gustosi e animano ulteriormente la lettura, strizzando l’occhio anche ai lettori che normalmente non amerebbero un volume come questo, più spesso di un dito

I fantastici cinque

I superpoteri che si nascondono nelle persone normali sono tanti, diversi e talvolta inaspettati. C’è per esempio chi vede lontanissimo, chi ha un udito davvero fine e chi solleva pesi straordinari, come i primi quattro protagonisti ideati da Quentin Blake: Angela, Ollie, Simona e Mario. E poi c’è chi, come Eric, pensa di non avere nulla di speciale. Timido e impacciato, Eric compare silenziosamente nelle prime pagine del volume  accompagnato da un incerto bofonchiare (“ehm…ehm”) mentre tutti i suoi compagni mostrano capacità straordinarie, persino durante una semplice gita in montagna. Sarà proprio in questa occasione, e in particolare al momento del bisogno  (quando l’autista Big Eddy, forse per colpa dei panini del pranzo, diventa verdastro e tomba a terra svenuto) che Eric scoprirà e farà scoprire ai compagni la sua peculiarità tutt’altro che superflua: quella che lo includerà a tutti gli effetti nel gruppo dei Fantastici cinque e che dice forte al lettore che anche saper trovare le parole giuste al momento giusto, senza sprecarle o distribuirle a vanvera, è un vero talento troppo spesso sottovalutato.

I fantastici cinque è scritto e illustrato dallo strepitoso Quentin Blake noto, tra le altre cose, per aver dato un’insostituibile forma ai personaggi creati da Roald Dahl. Il suo stile è diretto ed essenziale, sia nel tratto che nel discorso, e proprio la combinazione di parole – non una più del necessario – e illustrazioni  – dinamiche e sorridenti –  suggerisce una lettura positiva della diversità, tema trasversale del racconto. Non solo ogni personaggio vanta abilità eccezionali (sottolineate soprattutto a livello testuale, con una prevalenza di verbi come potere e riuscire) ma non nasconde nemmeno le sue eventuali disabilità (dipinte soprattutto a livello iconico,attraverso dettagli significativi ma discreti). Così, per esempio, senza che il testo dica nulla in merito, Mario si sposta sulla sedia a rotelle e Ollie, munito di occhiali scuri, cammina sempre per mano a uno degli amici. Abilità e disabilità vanno insomma serenamente a braccetto impastando un racconto genuino ed efficace. L’idea forte che ne emerge è che talenti e straordinarietà possano celarsi in ognuno di noi: un messaggio chiaro e incisivo che la versione originale del libro condensa bene nel titolo Five of us.

 

G.E.K.A. Il mondo dietro gli occhi chiusi

Faticare ad addormentarsi alla vigilia di un importante compito in classe e ritrovarsi all’improvviso in un mondo fantastico: con tutta la stranezza del caso, questo è proprio ciò che succede a Giulio, una notte come tante. Sperso e frastornato, il protagonista di G.E.K.A non si ritrova tuttavia solo ad affrontare uno insolito viaggio in un mondo popolato da bizzarre creature e animato da misteriosi enigmi. A dividere con lui lo stupore e il desiderio di decifrare tante stranezze ci sono altri bambini incontrati via via da Giulio lungo il suo percorso e ad uno ad uno divenuti parte di una solidissima banda di amici.

La loro è una corsa avventurosa e avvincente in cui occorre districarsi tra mappe incomplete, messaggi cifrati, filastrocche apparentemente campate per aria e luoghi pericolosi. La forza della squadra sta tutta nelle peculiarità dei singoli che diventano ricchezza (e persino salvezza) per l’intero gruppo: così, per esempio, l’abitudine di Alice, cieca, a orientarsi senza l’uso della vista guida i ragazzi fuori da una caverna buia; Kevin, sordo, decodifica il messaggio trasmesso con i gesti da alcune statue del giardino; o ancora la memoria prodigiosa di Edoardo, autistico, consente a tutti di risolvere il mistero racchiuso in un quadro. Certo, le caratteristiche di ciascuno richiedono spesso accortezze supplementari (come prestare attenzione a non strepitare per non turbare chi come Edoardo patisce i rumori forti o come leggere ad alta voce per Alice ciò che gli altri possono tranquillamente leggere sulla carta) ma non accade forse lo stesso – sembra suggerire il libro – con le caratteristiche di ciascuno di noi?

G.E.K.A. Il mondo dietro gli occhi chiusi racconta così, attraverso prove straordinarie ma al contempo facilmente riconducibili al quotidiano di un bambino che abbia accanto un compagno con disabilità (penso per esempio al muoversi in classe, al giocare insieme, al trovare forme di comunicazione condivise) l’importanza di scoprire e dare senso al valore aggiunto che ciascuno può dare a una relazione di amicizia, ribaltando l’idea che chi sperimenta la disabilità possa solo ricevere e non anche dare. La storia è ben congeniata e minuziosa nel rendere un’idea tanto delicata. Peccato solo, forse, per quella scivolata in extremis sulla buccia di banana pedagogica che porta a sottolineare, con l’intervento della mamma al risveglio del figlio, il senso di quanto da questi appreso durante il sogno. Il messaggio era davvero molto forte e chiaro senza che occorressero parole supplementari. Il più delle volte, infatti, le storie vanno ben oltre quello che esplicitamente dicono.

Piccolo uovo – Nessuno è perfetto

Piccolo Uovo non sta mai fermo: il suo è un viaggio instancabile alla scoperta delle piccole grandi diversità che fanno colorato e interessante il mondo. Così, dopo i tipi di famiglie (Piccolo Uovo), i tipi di attività (Piccolo uovo – Maschio o femmina?) e i tipi di ricchezza (Piccolo uovo – Chi è il più ricco del reame?) che ci rendono unici, l’ovetto più curioso degli ultimi tempi non si arresta nemmeno di fronte ai territori delle diverse abilità.

 

Con il garbo e l’interesse consueti, il protagonista si interroga su come si possa trovare la strada senza vedere, riconoscere uno starnuto senza sentire, percorrere lunghe distanze senza camminare e comunicare senza parlare: quesiti elementari e comuni, in linea con il più naturale desiderio di sapere dei piccoli lettori. A rispondere, sono improvvisati compagni di viaggio che vivono e incarnano le rispettive mancanze con una serenità contagiosa: una talpa che scava precise gallerie al buio, una lumachina attenta a cogliere segnali non verbali, una foca instancabile arrivata dal Polo Nord, un pesce abilissimo a disegnare e un gatto ingegnoso animati dalle parole pulite di Francesca Pardi e dai disegni accoglienti di Altan.

 

Quel che c’è di bello e più che mai veritiero, in queste coloratissime pagine, è che il superamento degli stereotipi più elementari che circondano le disabilità si attiva grazie a incontri fortuiti, a conoscenze dirette, ad amicizie inaspettate. Ne scaturisce un invito fortissimo anche se silenzioso a fare di ogni viaggio un’occasione preziosa per rendersi aperti e sinceramente curiosi nei confronti dell’altro, di qualunque tipo questo “altro” sia.

Rico, Oscar e la pietra rapita

Avventurarsi tra le pagine di Rico, Oscar e la pietra rapita assicura un buon miscuglio di  trepidazione e di amarezza, che derivano rispettivamente dall’attesa ben ripagata del volume e dalla consapevolezza che con questo la spassosissima serie di Andreas Steinhöfel (comprende Rico, Oscar e il Ladro Ombra e Rico, Oscar e i cuori infranti ) si chiude. Anche in quest’ultimo episodio – come anticipa gustosamente il titolo – un mistero è dietro l’angolo e quando un mistero è dietro l’angolo non sono certo Rico e Oscar a tirarsi indietro.

Al centro della vicenda c’è una preziosa pietra da allevamento posseduta dallo scorbutico vicino di casa Orsi, ereditata alla sua morte da Rico ma rubata da qualche losco individuo poco dopo il funerale del primo proprietario. Per recuperarla i due amici devono fare tesoro dell’esperienza accumulata durante le indagini precedenti e cimentarsi con una lunga sfilza di pedinamenti, sabotaggi, spionaggi e camuffaggi prima di poter mettere insieme tutti gli indizi e stampare un lieto fine anche su questa avventura.

Sarà necessario, per loro, arrivare fino al mar Baltico, per venire a capo della matassa: non solo di quella che svela il furto della pietra ma anche e soprattutto di quella che aggroviglia i fili emotivi delle loro vite. Il travagliato viaggio verso nord, dove peraltro finiscono per trovarsi svariati inquilini del palazzo Dieffe 93, diventa così un percorso per fare pace con due infanzia a loro modo difficili, in cui affetti mancati o mal espressi, diversità, paure e frustrazioni si sono accumulate fino traboccare con un’irruenza inattesa. Più che negli episodi precedenti, l’autore concentra in questo romanzo i silenzi eloquentissimi, i confronti accesi e le reazioni vive dei due ragazzi che segnano in qualche modo la loro crescita, come individue e come amici.

Attorno al nocciolo narrativo, tutto incentrato sulla raccolta di indizi per il recupero della pietra vitellina, si sviluppano tante microstorie e altrettanti tasselli che danno completezza non solo a questo terzo libro ma all’intera trilogia: dall’allargamento della famiglia di Rico, al fidanzamento tra la signora Dolci e il signor De Brocchis nel segno di prelibate tartine; dal riavvicinamento tra Oscar e suo papà Lars alla laurea del giovane Berts in cui Rico trova una sorta di fratello maggiore acquisito. Non da ultimo, il legame di Rico e Oscar con un nuovo amico, già comparso di sfuggita in un episodio precedente e ora a pieno titolo incluso nella strampalata banda di detective. Con la sua rara abilità nel decodificare il labiale, Sven contribuisce infatti attivamente a incastrare i ladri di pietre sulla spiaggia di nudisti di Prerow. La sua sordità – sarà per la sveltezza con cui Oscar apprende la lingua dei segni, sarà per l’empatia che Rico sviluppa nei suoi confronti – trova nei due protagonisti un’accoglienza rispettosa e naturale.

Come a sottolineare – qualora la stramberia di Oscar e la lentezza di Rico non lo facessero abbastanza chiaramente – che una difficoltà non ignorata ma riconosciuta e supportata è una difficoltà rimpicciolita, come se fosse guardata con uno zoom all’indietro. Zoom, non a caso, è proprio una di quelle parole di cui Rico offre una sua personalissima definizione, a questo proposito più che mai illuminante: “Zoom = aggeggio della macchina fotografica che funziona quasi come un palindromo, avanti e indietro. Infatti può avvicinare a allontanare le cose che in realtà rimangono sempre uguali. Per non confondersi tra le due direzioni, si potrebbe dire zoom per avvicinare e moom per allontanare. Invece niente da fare, perché semplificare le cose se possono essere più complicate?”

Innamorasi di April

Innamorarsi di April è un romanzo per giovani lettori, o più probabilmente lettrici, solido e rassicurante. Vi si trova tutto ciò che ci si può aspettare e tutto ciò che forse si pretende da questa particolare tipologia di volumi: i primi amori, rapporti conflittuali, dinamiche famigliari controverse, la scoperta della sessualità, qualche guaio e molti segreti. Non a caso il romanzo figura tra i titoli della collezione Gaia junior che tradizionalmente scova nel panorama editoriale per adolescenti, i titoli più accattivanti da proporre a lettori e lettrici appassionati.

Tra queste pagine in particolare, ci si ritrova immersi in un passato non troppo lontano – quando ancora le auto si alternavano alle carrozze e la divisione in classi sociali risultava netta e marcata – e si finisce per affezionarsi ad una protagonista un po’ ribelle un po’ difficile da inquadrare nella sua reale personalità. April è una ragazzina di famiglia umile, cresciuta alla bene e meglio dalla madre e tenuta a distanza dalla comunità del villaggio dopo che, divenuta sorda per un incidente, ha iniziato a mostrarsi stramba e a esprimersi con difficoltà. Ci vorrà l’arrivo di  Tony e di sua madre, abituati ad una vita di agi ma improvvisamente costretti a rinunciarvi, perché a April venga riconosciuta la sua dignità e tutto il villaggio sia costretto a fare i conti con un assetto di pensiero stagnante e bigotto.

Così, tra innamoramenti, fughe, nascondigli e taciute violenze, April trova il suo riscatto personale, come giovane donna ma anche come persona sorda. La disabilità uditiva viene qui dipinta con particolare realismo, senza tacere i commenti e gli interrogativi che abitualmente reca con sé. Quel che risulta particolarmente interessante è che nonostante l’ambientazione in un generico passato, i pregiudizi e le reazioni dipinte a fronte dell’handicap sono più che mai attuali e costringono efficacemente il lettore  a confrontarvisi prima di sottolineare come una conoscenza e una relazione autentica con le persone possa intaccarli con grande forza.

Le parole di Bianca sono farfalle

Le parole di Bianca sono farfalle è un Albo Illustrato con la A e la I maiuscole. Evocativo, profondo, colmo di suggestioni che riecheggiano dentro il lettore senza gridare forte, il libro edito dalla Giralangolo è grande nel formato e nella portata: “un libro pieno di riverberi”, insomma, volendo rubare le parole  allo scrittore David Almond.

Al suo interno, tra collage a tinte pastello e racconti che paiono avere le ali, le autrici raccontano il mondo di Bianca e la sua maniera tutta particolare di sentire con la pelle, di parlare con le mani, di vedere aspetti impercettibili e di fare cose fantastiche in buona compagnia.  Il libro prova, cioè, a mostrare più che a spiegare che possono esserci tanti modi di vivere, interpretare e comunicare con il mondo, anche quando la natura non concede la possibilità di farlo convenzionalmente. La sordità di Bianca diventa così un’occasione anche per il lettore di dare una veste nuova ai propri e agli altrui sensi.

Bravissima, in questo, Chiara Lorenzoni, ricercatrice minuziosa di parole, che racconta il quotidiano con una musicalità che culla e ristora. E meravigliosa Sophie Fatus, illustratrice della positività, che porta suggestione e trasporto gioioso nelle sue forme spensierate e impalpabili. L’unione dell’opera delle due artiste è un inno alla leggerezza del pensiero e dell’azione, un invito ad ascoltare e narrare il mondo facendo ricorso a tutte le nostre possibilità.

Migrando

Migrando è un dei libri senza parole più complessi ed evocativi finora pubblicati in Italia. Proposto non a caso da una casa editrice raffinata come Orecchio Acerbo, il volume richiama l’attenzione di un pubblico che ha già una buona dimestichezza con le decodifica delle immagini e che sa apprezzare la suggestione più sfuggente in luogo della rappresentazione più netta. Il libro creato da Mariana Chiesa Mateos è insomma, in tutto e per tutto un libro controcorrente: perché sperimenta con forza e successo la forma dell’albo illustrato per un pubblico di lettori esperti, perché accetta la sfida di trattare un tema di scottante attualità e infine perché segue le direzioni dei movimenti migratori, nel loro andar contro certezze, affetti e radici.

A sottolineare questo aspetto, il fatto che il libro non abbia un verso privilegiato ma si legga in parte in un senso e in parte capovolto, come a tradurre in un espediente grafico e narrativo l’idea che ruoli e traiettorie di migrazione non siano mai fissi. Così, chi sessant’anni fa partiva ora accoglie e chi ora parte forse domani accoglierà. E se da un lato dell’albo troviamo figure che riportano alla mente la Lampedusa più drammatica degli ultimi mesi, dall’altro riconosciamo nonni e bisnonni del secolo scorso con le valigie colme di speranza. A far da cornice comune c’è una natura dal forte valore simbolico: l’acqua che, a seconda dei punti di vista,  separa e unisce paesi, ma anche gli alberi e gli uccelli, gli uni dalle radici profonde e gli altri dalla vita volubile.

Il libro si presta ad una lettura molteplice, che sveli di volta in volta dettagli e possibilità interpretative nuove. L’assenza di parole e la scelta di fili narrativi e scenari labili lasciano infatti ampi margini al contributo di ciascun lettore, stimolando emozioni prima che riflessioni.

I suoni che non ho mai sentito

Poco udito e tanto racconto. Questo è Miguel: 10 anni, barcellonese, accudito dai nonni, amico di Ahmet e innamorato di Consuelo. Un bambino come tanti, solo quasi del tutto sordo e capace di cogliere frammenti di vita e trasformarli in storie dal sapore fascinoso.
Miguel cattura infatti di tanto in tanto una parola dei discorsi che ovattatamente lo attorniano e ne fa materia plastica di invenzione e narrazione. Dà voce e colore, così, ad un mondo in cui tutte le emozioni torvano posto, anche quelle più indesiderate e scomode su cui si preferirebbe chiudere un occhio. Non tace, perciò, sul dolore, sul rancore e sulla tristezza, ma li si accoglie tra la felicità e l’entusiasmo come tasselli importanti del suo personalissimo viaggio.
Il libro, delicatamente scritto e illustrato da Antonio Ferrara, non è immediato né facile. Non vi si trova un racconto snello e banale ma una storia che si compone a poco a poco di immagini e dettagli dal forte potere evocativo. L’intensità che ne deriva lo rende particolarmente adatto ad una lettura adulta che si accosti ad una infantile, in un comune percorso di assaporamento multisensoriale della parola.

Laura

Ci sono tante cose che non è facile fare quando si è sordi: camminare per strada senza correre pericoli, capire cosa dicono le persone, giocare con gli altri bambini, riconoscere i rumori. E poi c’è quella brutta abitudine dei compagni maleducati che ogni tre per due, quando chiedi di ripetere una frase, ti rispondono con sdegno e scherno “Ma sei sorda?”. E Laura lo sa bene. Le sue orecchie, infatti, non funzionano tanto e i suoi lettori imparano presto a scoprire in maniera schietta il disagio che ne può derivare.

Ma un giorno qualcosa cambia. E tutto per merito della magia. Come nella storia di Giovannino, anche Laura ottiene due fagiolini dai poteri strepitosi. Si mettono nelle orecchie e come d’incanto le cose e le persone cessano di restare mute. Le labbra mosse si accompagnano a una voce e ogni cosa acquista un suono. Ma non è tutto. Capita a volte che la magia sappia spingersi più in là dei nostri desideri e portarci persino qualche potere in più del previsto…

Elfi Nijssen fa del quotidiano mondo di una bimba sorda la pasta semplice ma corposa di questa storia e ci invita con chiara franchezza ad assaggiarne un pezzetto, assaporandone gli aspetti insieme dolci e amari.

La strega in fondo alla via

Sarà il formato grandissimo, saranno i colori e le prospettive alla Matisse, sarà lo scenario sempre nuovo ad ogni pagina voltata. O saranno forse tutte queste cose messe insieme, ciò che è certo è che l’apertura di quest’album è un’immersione più che intensa in una storia essenziale e appassionante.

Ti strega, infatti, questo libro come forse quella signora in fondo alla via… Quella signora che gesticola come facesse riti magici, che alleva gatti neri e che cuoce pozioni misteriose. Quella signora che tutti considerano una strega finché il protagonista non scopre il suo segreto che poi segreto non sarebbe se la conoscenza superasse il timore. Come si può immaginare, infatti, che la signora Ester sia sordomuta, che i gesti astrusi siano il suo modo di comunicare e che il fumo del suo calderone diffonda un buon profumo di marmellata se la si scruta sempre da lontano?

La strega in fondo alla via racconta una piccola storia di diversità e pregiudizio con una forza, un’ironia e un gusto per le piccole sorprese saporitamente genuini che lo rendono un album affascinante a vedersi, gustoso a leggersi, suggestivo a rifletterci.