Chi vorresti essere?

Chi vorresti essere?, l’ultimo gustoso albo firmato da Arianna Papini,  è un inno alla fantasia che sa giocare con la realtà. La domanda che dà il titolo al volume scatena, infatti, una catena di invenzioni grazie alle quali Rebecca può diventar pesce che può diventar barbagianni che può diventar coccodrillo e così via all’infinito. O meglio, e così via fino a quando il gatto non vorrebbe diventar a sua volta Rebecca invitando a ripercorrere a ritroso l’intera successione di trasformazioni, a constatare la fortuna di poter esser immaginariamente qualunque cosa ma anche a notare come ciò che ci rende differenti e originali susciti il fascino di chi ci circonda. La diversità come pregio, dunque, strizza l’occhio al lettore tra un tucano camaleontico e un camaleonte felino.

Chi vorresti essere? propone insomma una fiera colorata e gioiosa di cose, animali e persone che sono qualcosa o qualcuno ma sembran qualcosa o qualcun altro. A partire dall’involucro esterno: l’albo si sfoglia infatti come un calendario e come tale lascia in ogni pagina un richiamo a ciò che c’è prima e un’avvisaglia di ciò che c’è dopo: un promemoria e un’anticipazione, insomma, come quando alla pagina di marzo si affiancano le miniature di febbraio e di aprile. Il risultato è così un lavoro perfettamente incatenato che sottolinea senza posa l’evoluzione funambolica dell’immaginazione che parole ben composte in una litania ammaliante  e illustrazioni degne di un bestiario fantastico sanno rendere incantevolmente.

Occhio di Nuvola

Una storia delicata e profonda in cui le parole, come i sentimenti, tornano a occupare un posto di primo piano. Una storia capace di avvolgere e coinvolgere, senza rinunciare al rispetto delle reali vicende di un popolo tormentato. Una storia che parla di indiani e natura, che racconta di tradizioni e leggende e che sa immergere con inaspettata abilità in una cultura tanto distante quanto affascinante. Occhio di Nuvola è tutto questo.

Chi dà il titolo al volume è un giovane indiano cieco della tribù dei Crow che, difeso strenuamente dalla madre, vince i pregiudizi della sua gente e trova finalmente il suo posto in mezzo ad essa. Accompagnato a conoscere il mondo attraverso una sensibilità straordinaria e attraverso la vista dei suoi cari, Occhio di Nuvola si guadagna la stima della tribù, scongiurando un primo attacco dei visi pallidi cui sottrae uno strumento importante e sconosciuto come il cavallo.

Al suo fianco, tastando il sapore della terra umida e il fruscio del vento della montagna, il lettore si trova a scoprire il più intimo e dimenticato rispetto per la natura, in ogni sua manifestazione, e per una cultura tramandata da generazioni. Grande merito, in tutto questo, va riconosciuto alla parola che l’autore sa usare con grande accortezza e che nell’intero romanzo viene valorizzata come strumento di conoscenza profonda e di relazione autentica.

In fuga con la zia

Imprevedibile e incontenibile, zia Ubalda è una carica esplosiva di entusiasmo e vitalità. Una bomba, insomma. Le piace smodatamente tutto ciò che è rosa tenero e coccoloso, spiazza con le sue risposte ironiche e non convenzionali e non ha paura di dire o fare ciò che le passa per la zucca, anche a costo di scatenare imbarazzi e risolini. Come quando recita una poesia sulle puzzette al raffinatissimo compleanno della sorella o quando interroga la vicina di treno sui suoi strepitosi tatuaggi. Ubalda è così: simpatica e divertente per la nipote Sara, buffa e rimbambita per il cognato, nonché papà di Sara, disabile mentale non indipendente per la sorella nonché mamma di Sara. Una persona, molte interpretazioni. Dove starà la realtà? Probabilmente nel mezzo ma un po’ più spostata verso Sara, si direbbe.

Sara è in effetti l’unica della famiglia a considerare la zia come una persona, certo un po’ stramba e necessitante di attenzioni, ma capace, desiderosa e soprattutto degna di esprimere la propria personalità, di prendere le proprie decisioni e di fare i propri errori. Una persona che come tutte le altre ha voglia e diritto di fare le cose che piacciono ai suoi coetanei come andare in vacanza con gli amici o fare shopping. Il suo è un mondo tutto particolare, condiviso con gli originali coinquilini della comunità in cui vive e aperto a conoscenze sempre nuove: un mondo che a fatica sopporta le restrizioni, i timori e i progetti costrittivi della sorella, che vorrebbe sistemarla in una struttura più controllata.

Così, Ubalda inizia un viaggio avventuroso con la nipote per fuggire ai piani di trasferimento predisposti per lei. Sarà un viaggio breve ma portentoso, capace di frantumare, come una mossa di jujitsu ben assestata, una fitta serie di pregiudizi che spesso circondano i disabili mentali: che siano sempre felici, per esempio, o che non abbiano bisogno di provare emozioni, soddisfazioni ed esperienze. Il risultato è una riflessione intelligentemente sorridente, che sparpaglia spunti senza predicozzi ma con una buona dose di spasso e irriverenza.

 

Orrendi per sempre

Metti insieme una ragazza morta fuori ma non dentro, una elettrica che dà la scossa, un ragazzo supergeniale e disabile e uno maciullato e pesto. E voilà, fatto! Gli “Orrendi per sempre” sono riuniti: 4 ragazzi allontanati dai compagni e rifiutati dalla comunità che condividono forza e debolezza della diversità. Ciascuno a suo modo e per le sue ragioni, sente forte la barriera che gli altri gli frappongono fino a farne a sua volta uno scudo personale. “Bambino…” disse Morta con voce fredda. “Sei sicura di quello che fai? Hai guardato bene come siamo… come siamo fatti?”

Esasperati dalla situazione, sono infatti loro stessi, a un certo punto, a fare del loro aspetto repellente un ostacolo ad una condivisione aperta. Non che non tentino di integrarsi, tutt’altro. Solo lo fanno a tentoni, percorrendo strade apparentemente più facili e talvolta palesemente disastrose, come isolarsi del tutto o camuffarsi da ciò che realmente non sono. Fino a che non decidono: basta fingere! Il tentativo di accettazione passerà da quell’istante in poi attraverso la via della valorizzazione delle capacità possedute. Gli Orrendi per sempre rinunciano, infatti, alle coperture posticce per gettarsi a capofitto in missioni ad alto rischio. Ed è lì, finalmente, che il loro potenziale umano, oltre che sovrumano, inizia ad emergere con forza e ostinazione.

E’ un libro insieme forte e scorrevole, questo di Aquilino, in cui l’autore mescola fantasia e spunti reali con un certo umorismo e una certa dose di avventura. Le vicende narrate sono infatti avvincenti e in più portano uno sguardo privilegiato sulla delicata questione della differenza e delle implicazioni sociali che essa comporta. Malgrado la commozione calchi ogni tanto la mano, si continua a percepire forte, a filo delle pagine, l’idea che ci sia una differenza tra il difetto e l’handicap, ovvero tra la mancanza e l’impossibilità del fare. Il ruolo che ciascuno di noi può giocare, per evitare che la prima si trasformi nella seconda, appare da subito estremamente influente. “Reginald s’illuminò: la soluzione era così semplice e lui non ci aveva ancora pensato. Ci volle poco per adattare il divano alle esigenze dei due ragazzi.” Come a dire che l’integrazione passa, in fondo, attraverso l’accettazione di sé e attraverso l’attenzione all’altro, nelle piccole come nelle grandi cose. Dalla condivisione dell’esperienza scolastica all’uso di un comune e banalissimo mobile.

Ben X

Un libro per ragazzi accorti e smaliziati che con un linguaggio schietto e diretto sa portare adulti e adolescenti nella realtà tanto distante e spesso incomprensibile della sindrome di Asperger: quella da cui è affetto Ben, protagonista forte di questo volume (e del film che a esso è legato), campione di videogames e apparente sconfitto della vita vera. In quest’ultima, Ben fatica infatti a farsi spazio e a trovare il suo posto. Chiuso in un mondo difficile da penetrare e marchiato per quegli atteggiamenti così strani, quasi borderline, il ragazzo diventa vittima di bullismo, accentuando la sua autoesclusione da tutto ciò che lo circonda.

Così Ben non vive, ma si allena semplicemente a farlo. In maniera virtuale, attraverso il videogioco Archlord o la chat in cui si fa chiamare Zorro: due strumenti o due realtà parallele in cui nessuno può farsi beffe di lui né chiedergli conto della sua differenza. Poco a poco queste diventano il suo unico flebile contatto con l’esterno, l’unico spiraglio e valvola di sfogo di un’oppressione che non si vede e non si tocca. Fino alla svolta, al colpo di scena, narrativamente ed esistenzialmente parlando: portato a ingoiare una pastiglia di ecstasy, Ben fa sfiorare a chi gli sta intorno la fredda sensazione della morte e per una volta, forte della sua esperienza virtuale, trova un modo di riscattarsi e uscire allo scoperto.

Ben X è un libro forte e d’impatto. A volte stride, urta, colpisce per il modo non edulcorato con cui parla ai ragazzi e dei ragazzi. Ma c’è qualcosa che sa di verità, qui dentro, al di là degli schermi e delle barriere che a volte ci dividono dalla vita reale.

Diverso come uguale

La diversità ha tante facce: quella della disabilità, quella della religione, quella dell’etnia e quella dell’orientamento sessuale, per esempio. Ciascuna condiziona a suo modo le persone senza mai, tuttavia, esaurirne la personalità. Così, chi è epilettico come Erica, può anche amare vestirsi di rosso e non avere paura del buio, chi è cieco come Marcel può anche conoscere un sacco di canzoni a memoria e ballare benissimo o chi è musulmana come Fathia può anche avere i capelli liscissimi e festeggiare il compleanno in un giorno speciale. Certo, occorre essere sufficientemente attenti e curiosi per notare con naturalezza questi aspetti senza farsi ingannare dalle etichette.

Così fa Leone, protagonista del bell’album illustrato proposto da Beccogiallo, che in quarantotto pagine di una specie di diario, con tanto di disegni annessi, clips e post-it, racconta ai lettori somiglianze e stramberie degli amici. Qui, tra illustrazioni a tutta pagina e commenti che tanto sanno di fumetto, scorre una carrellata di personaggi, tutti portatori di una forma di diversità, non nascosta né negata bensì accolta e mescolata ad altre caratteristiche. Anche l’handicap, così, smette per una volta di essere quella parola vuota o quella situazione ineffabile che perlopiù spaventa gli adulti per assumere i contorni pieni, benché soggettivi, dell’esperienza pratica di un bambino.

La disabilità, cioè, viene nominata e contestualizzata, e qui sta il vero merito di Diverso come uguale: nel coraggio inusuale di chiamare le cose con il loro nome, nella responsabilità di dar loro un risvolto pratico e comprensibile e nella capacità di mettere in luce come la diversità non annulli ciò che la circonda. Raccontare l’autismo di Luca, per esempio, come la sua insofferenza agli abbracci e alle chiacchiere non è certo esaustivo ma offre ai piccoli lettori l’opportunità di confrontarsi con una forma di differenza dalla fisionomia finalmente riconoscibile. Se in più si sa che Luca è il bambino più alto e forte della classe, che colleziona bottoni, che odia i gatti e che ride con la bocca tutta aperta come Superobotman si intuisce che la sindrome che lo ha colpito non è sufficiente a definirne in pieno l’unicità.

Quel che si legge tra le righe, insomma, è che essere bambini, con o senza disabilità, significa essenzialmente coltivare desideri, avere e superare paure, mostrare stranezze, giocare, condividere esperienze e sognare. Evviva, dunque, perché di una simile convinzione abbiamo ancora tanto bisogno!

Rico, Oscar e il Ladro Ombra

Tutto comincia con un rigatone al formaggio, per la precisione al gorgonzola, trovato inspiegabilmente sul marciapiede sotto casa. Da lì, poi, è tutto un vortice di eventi travolgenti per Rico: le indagini sull’enigmatico ladro di bambini, l’incontro con il futuro amico Oscar che gira sempre con un casco in testa, la ricerca di un fidanzato per la mamma, i rapimenti, le supposizioni e le avventure su e giù per i palazzi. Fino all’inaspettata risoluzione del mistero che da mesi terrorizza la città di Berlino.

Federico Doretti, detto Rico, è da sua stessa presentazione “un bambino lento di cervello, che confonde la destra con la sinistra e quando esce di casa cammina sempre dritto”: un bambino senza una disabilità certificata, insomma, ma che a specchio di molti coetanei percepisce di essere diverso, soffrendone in parte e reagendo a suo modo in altra. Così, con fare buffo, appunta le sue personalissime definizione di parole ignote, tenta approcci maldestri con i vicini di casa e, tra una tartina e l’altra in compagnia della signora Dolci del terzo piano, cerca distrazioni e amicizie mostrandosi curioso e goffamente intraprendente.

Attorno a lui, scorre e si ingarbuglia una fitta serie di personaggi insoliti che rendono il giallo del Ladro Ombra non solo appassionante ma anche estremamente spassoso. Ne scaturisce un libro delizioso come pochi, teneramente spiritoso nel racconto e ben congeniato nella trama, capace di parlare di diversità con la simpatia e l’efficacia che solo i libri che partono dalla narrazione e non dal tema sanno salvaguardare. E non è un caso, infatti, se questo piacevolissimo volume firmato dal tedesco Andreas Steinhöfel e intelligentemente proposto in Italia da Beisler editore, è stato selezionato e segnalato nel 2011 persino dall’Ibby Documentation Centre of Books for Disabled Young People.

I colori del buio

Gli adolescenti sono i destinatari principali de I colori del buio. Vale tuttavia la pena di segnalare questo libro per il suo valore letterario e per la delicata serietà con cui affronta temi importanti. Questi tratti, che gli hanno valso il National Book Award 2010, lo rendono infatti interessante anche agli occhi di lettori e lettrici di età diversa, purché aperti a un confronto disincantato con la realtà.

La protagonista del libro, Caitlin, è in particolare affetta da sindrome di Asperger, descritta senza camuffaggi. Tutto ciò che non ha un contorno netto – dagli individui alle espressioni metaforiche – assume per lei un volto inquietante e minaccioso: così essa non si stanca di consumare il dizionario e i suoi termini esatti, di disegnare rigorosamente in bianco e nero e di attenersi ad un logica ferrea che spesso si scontra con il pensiero comune.

Il suo è un percorso a ostacoli, segnato da paletti fissi e sofferenze inattese come la morte del fratello Devon, tra le quali si trova a zigzagare alla ricerca di un posto nel mondo, e di una conciliazione con sé stessa e con gli altri. Il lettore, silenziosamente, finisce per far suo questo tortuoso tragitto, accogliendo quelle emozioni chiare e scure che ne segnano marcatamente il tracciato.

La buffa bambina

Occhiali spessi, pancia tonda, comportamenti strambi. Ma cos’avrà nella testa quella bambina buffa che abita proprio vicino a Marco? Difficile a dirsi, soprattutto quando quella canta a squarciagola canzoni incomprensibili o sorride gentile a chi la maltratta. Quella bambina buffa si chiama Francesca ed ha la sindorme di Down, o almeno così dicono gli adulti abbozzando una spiegazione piuttosto insoddisfacente. Per Marco quella bambina buffa è prima un’estranea apparentemente picchiatella, poi una vicina di casa con cui provare a divertirsi, poi uno zimbello da sbeffeggiare con i compagni e infine un’amica da difendere dalle vessazioni. La loro è un’amicizia tortuosa e intensa, specchio di quella ingenuità infantile che sa parimenti tramutarsi in crudele schiettezza e in autentica curiosità.

L’eclissi, ovvero una giornata da non prendere alla lettera

L’idea che anima L’eclissi ovvero una giornata da non prendere alla lettera, è nella sua originale semplicità, geniale. Le difficoltà sperimentate quotidianamente dai bambini dislessici e quel senso di smarrimento che i disturbi dell’apprendimento recano sovente con sé non sono infatti comunemente raccontati ai piccoli lettori ma piuttosto messi in atto attraverso una travolgente storia in rima in cui le lettere scompaiono, si rivoltano, si scambiano e si confondono.

Le avventure bizzarre che prendono vita nel cuore del bosco, attraverso la poesia frizzante di Sabina Colloredo e le illustrazioni gioiose di Valeria Petrone, diventano così, con tocco magico, terreno di prova per chi non immagina che i segni grafici possano confondere certi lettori, occasione di rielaborazione leggera e fantastica degli impicci imposti da alcuni disturbi e, ancora, stimolo efficace alla lettura per chi si sente scoraggiato e necessita di “trovare strade nuove / per arrivare, / anche dove sembrava / di non poter andare!”.

I suoni che non ho mai sentito

Poco udito e tanto racconto. Questo è Miguel: 10 anni, barcellonese, accudito dai nonni, amico di Ahmet e innamorato di Consuelo. Un bambino come tanti, solo quasi del tutto sordo e capace di cogliere frammenti di vita e trasformarli in storie dal sapore fascinoso.
Miguel cattura infatti di tanto in tanto una parola dei discorsi che ovattatamente lo attorniano e ne fa materia plastica di invenzione e narrazione. Dà voce e colore, così, ad un mondo in cui tutte le emozioni torvano posto, anche quelle più indesiderate e scomode su cui si preferirebbe chiudere un occhio. Non tace, perciò, sul dolore, sul rancore e sulla tristezza, ma li si accoglie tra la felicità e l’entusiasmo come tasselli importanti del suo personalissimo viaggio.
Il libro, delicatamente scritto e illustrato da Antonio Ferrara, non è immediato né facile. Non vi si trova un racconto snello e banale ma una storia che si compone a poco a poco di immagini e dettagli dal forte potere evocativo. L’intensità che ne deriva lo rende particolarmente adatto ad una lettura adulta che si accosti ad una infantile, in un comune percorso di assaporamento multisensoriale della parola.

È non è

Matita a carta da parati. Così Chiara Carrer interpreta le ombre e i collages di sensazioni che popolano la vita di Sara, protagonista del raffinato album È non è, edito da Kalandraka. Quella che ci consegna è la storia-non storia di una bambina autistica e del forte straniamento che si genera intorno a lei. E’ il racconto per schegge e frammenti di una quotidianità spesso inspiegabile che non ha una vera trama ma che testimonia un’esperienza diffusa.

La voce che narra è del fratello di Sara, sospesa a mezz’aria tra incanto e disincanto. Perché Sara è e non è una sorella come le altre: abbraccia, si illumina e accarezza, infatti, ma il più delle volte si isola, si perde e scoraggia. Il contrasto anima il suo modo d’essere e si fa cifra e valore di questo libro, così lieve e così pesante insieme.

Tutto giocato sull’alternanza di presenza e assenza, l’album restituisce una protagonista, un po’ fuori e un po’ dentro, un po’ simile e un po’ diversa, un po’ vicina e un po’ distante. E nelle parole di Marco Berrettoni Carrara, asciugate all’osso e spogliate del superfluo, si trovano la forza e l’equilibrio capaci di puntellarne la realtà.

Banchogi solo metà

Una fiaba coreana tradizionale per parlare di diversità e farlo con voce alta e ferma. Per dire semplicemente che la differenza non significa per forza assenza di coraggio, animo e generosità, come dimostra bene l’eroe Banchogi, “dimezzato” per uno scherzo del destino. Col suo occhio solo, il suo solo braccio e la sua sola gamba – stilizzazione semplice ma incisiva di una concezione diffusa della disabilità come “mancanza di qualche pezzo” – il piccolo protagonista incarna una filosofia di vita più che una condizione fisica, un modo di stare al mondo valorizzando ciò che si ha piuttosto che sottolineando ciò di cui si difetta.

Questa avventura minima, fatta di parole piene ed essenziali e di disegni ben marcati e graffianti diventa perciò un omaggio alla determinazione e alla fermezza. I massi che Banchogi solleva, le astuzie che escogita, le fiere che annienta, le guardie che beffa, le partite che vince – e gli ostacoli di ogni tipo che in generale supera – delineano in definitiva una figura a tutto tondo di cui il lettore appassionato coglie soprattutto la forza risoluta. Quella forza che porta alla conquista finale dell’amata, facendo dell’intera vicenda una questione d’accento, in cui ciò che conta non è la metà ma piuttosto la meta.

Serena la mia amica e la buffa storia della balena Rosina

Serena, la mia amica, narra di un’amicizia nata sui banchi di scuola. Chiara è una brunetta simpatica, occhialuta e chiacchierina, Serena è bionda, buonissima, mangia un sacco di caramelle e sa disegnare con gli acquarelli. Le due bambine trascorrono insieme anche il tempo libero, ma solo quando Serena è libera dai suoi molti impegni: la piscina, i boy scout, il laboratorio di pittura… Chiara è un po’ gelosa delle sue tante attività, dei suoi due fratelli grandi, della mamma così paziente, dell’insegnante “tutta per lei” che la aiuta a scuola… lei invece è spesso sola, e allora si annoia! Certo, Serena non è molto brava in matematica, e in alcune cose non riesce proprio come gli altri. Ma ama dipingere le farfalle e andare in bicicletta ed è sempre di buon umore, anche quando i compagni la prendono in giro.
La storia, ideata da Anna Genni Miliotti e arricchita delle bellissime illustrazioni di Cinzia Ghigliano, tratta con delicatezza il tema della diversità: solo all’ultima pagina scopriamo che Serena è una bimba Down, che nonostante i limiti e le difficoltà, riesce a essere autonoma, ad avere tanti amici e a farsi voler bene da tutti.
E il tema della diversità si ritrova anche in una storia dentro la storia: al centro del libro c’è un divertente racconto a fumetti, La Buffa storia della balena Rosina, che un bel giorno si stufa dei ghiacci polari e va in vacanza in Sardegna, dove ci sono tanti fenicotteri tutti rosa, proprio come lei….

Sii amorevole con Eddie Lee

Sii amorevole con Eddie Lee”, è il monito che Christy si sente ripetere dalla mamma ogni volta che esce a giocare. E lei lo sarebbe anche amorevole con Eddie Lee, ma chissà cosa penserebbe, poi, quel bulletto di JimBud se la vedesse divertirsi con quello strano bambino così tozzo e malfatto, dagli occhi un po’ a mandorla e i movimenti impacciati. Così capita che Christy faccia finta di non sentire e lasci che Eddie Lee, pur così gentile e delicato nei suoi confronti, resti in giardino da solo mentre lei e JimBud se ne vanno al fiume.

C’è poca attenzione e tanta scortesia verso questo bambino down. Ma il suo desiderio di condividere scoperte e avventure con i coetanei si mescola con un’ingenua garbatezza nei confronti di qualunque persona, gentile o prepotente essa sia. Nulla importa, perciò, che JimBud l’abbia scacciato via con un ruvidissimo “Sciò”. Varrà lo stesso la pena di svelare a lui e Christy quei segreti del lago che solo lui ha scoperto e conservato.

Le delicatissime uova di rana che si nascondono tra le ninfee e che proprio una mano così goffa ha saputo trovare, diventano allora ancor più preziose poiché svelano come il pregiudizio possa sciogliersi con incredibile semplicità, laddove le acque smosse di un fiume aiutano a rendere ogni viso simile e incantevole nella sua imperfezione.

Il grande cavallo blu

Ci sono, in questo libro, cavalli amici dei bambini e uomini trottola che passano il loro tempo a ruotare. Ogni cosa e ogni persona non ha insomma un solo volto ma cambia aspetto a seconda dei punti di vista: il cavallo è, sì, un cavallo ma per il protagonista Paolo è davvero un amico, il solo che ha tra le mura dell’ospedale psichiatrico di Trieste dove lavora sua madre; e l’uomo trottola crede, sì, di dover ruotare su se stesso tutto il giorno ma è davvero un uomo, almeno per chi lo sa vedere come tale. Come il dottor Basaglia che, quando arriva nell’ospedale della città, prova a restituire ai malati psichiatrici quella dignità umana che era stata loro tolta e che si scopre non avere granché a che fare con la necessità di annullarli e tenerli rinchiusi in una struttura alienante.

Chi sia Basaglia e quale sia la sua vicenda, l’autrice non lo racconta ai giovani lettori (anche se la maggior parte di loro non ne ha probabilmente mai nemmeno sentito il nome), ma lo suggerisce attraverso parole e immagini evocative che trovano il loro simbolo in un grande cavallo blu che rompe le porte pur di riuscire a uscire in strada per celebrare l’apertura dell’ospedale. Perché in questa faccenda, i simboli sono forse più importanti della comodità pratica, i fatti sono più importanti dei nomi e le storie sono più importanti delle diagnosi.

Ciò che Orecchio Acerbo propone al suo pubblico è non a caso un libro insolito che prima di tutto  tocca, emoziona, turba e scombussola. Un libro coraggioso che decide di raccontare un tema difficile e che soprattutto decide di farlo con una delicatezza e una forza che raramente sanno convivere così naturalmente. Non escono risposte o giudizi, dalle pagine, ma suggestioni e speranze sì: merito delle immagini sfumate e sfuggenti ma capaci di lasciar un segno incisivo firmate da Maurizio Quarello e delle parole  pesate come gemme preziose da Irène Cohen-Janca e tradotte con la stessa cura da Paolo Cesari. Come tele, le pagine si animano di forme espressive che si intersecano in un gioco mai scontato di grassetti, maiuscoli, spaziature e invasioni spaziali che più di ogni altra cosa sanno modulare una melodia malinconica e gioiosa insieme.

Il mio amico Tartattà

Quarantatre pagine che sembrano trascritte con fedeltà dalla testa di un bambino: il ritmo è incalzante, la digressione è dietro l’angolo e qualche parola viene rielaborata in maniera del tutto personale. Così, tra le lezioni di “logovattelapesca, con una specie di maestra che ti insegna a parlare bene”, i cavoletti di Bruxelles furbescamente schiacciati e spalmati nel piatto, e piccole quotidianità scolastiche disastrose, veniamo a conoscere Basilio Tamburo, il protagonista del bel libro scritto da Béatrice Fontanel e illustrato da Marc Boutavant.

A presentarcelo è il suo compagno di banco Ferdinando Ponpon che, con un cognome così, conosce bene le prese in giro ma ha imparato ad arginarle con la minaccia di un cazzotto alla ricreazione. Sarà per questa sua esperienza o per il piglio sveglio che lo contraddistingue, ma è proprio Ferdinando a cogliere dei sentimenti dietro le azioni di Basilio e a mettere il lettore nella condizione di condividerli. Raccontando di come il compagno sia arrivato il primo giorno di scuola con i capelli selvaggi, abbia mentito sul suo vero nome, si sia chiuso in bagno per non partecipare alla recita scolastica o sia salito sul tetto per starsene un po’ da solo, il giovane narratore trova il modo più schietto di svelare le difficoltà dovuta alla balbuzie e il dolore dovuto a un lutto in  famiglia.

La sua forza è lo stile a tratti ingenuo e a tratti cinico, che non dribbla la crudeltà ma nemmeno l’inimitabile empatia tipica soltanto dell’infanzia.

Matteo è sordo

Une storia, una grafica e delle illustrazioni di una semplicità estrema, per un libro che non fa fantasticare ma racconta bene cosa capita quando la sordità di un bambino viene riconosciuta. Attraverso la sequenza di quadri essenziali, accompagnati da testi chiari e sintetici, l’esperienza di Matteo ci porta a scoprire difficoltà e successi quotidiani di chi come lui deve imparare a comunicare con mondi che parlano lingue diverse.

La LIS –  Lingua italiana de Segni – viene allora presentata a  bambini e genitori come ponte possibile di collegamento tra quei mondi. Stimolando la curiosità e il gioco, il libro offre una serie di tessere sul modello del classico memory che aiutano chiunque ad avvicinarsi con semplicità a questo linguaggio perché sia davvero una forma di comunicazione e non di distacco, per gli adulti come per i bambini.

Perché l’accettazione, la comprensione e la reazione alla diagnosi di un handicap come quello uditivo richiedono il superamento di sbarramenti e incertezze indipendentemente dall’età. Ecco allora che una storia semplice come quella di Matteo, raccontata prima per i più piccoli, con le immagini e poche parole, poi  per i più grandi, in maniera diffusa e dettagliata, e infine per tutti, con lo stratagemma del gioco, diventa strumento universale di accompagnamento alla scoperta di piccole ma importanti conquiste comunicative.

Storia di una stella

Storia di una stella è un libro tattile, al contempo essenziale e non immediato, prodotto da L’Albero della Speranza, casa editrice dalla recente ma ostinata e meritevole attività. La storia che narra è delle più lineari, senza grossi colpi di scena o complicazioni, come si confà ad un libro come questo, destinato ai lettori meno esperti. Tutto giocato su sparizioni, ricomparse e trasformazioni della protagonista che dà il titolo al volume, questo appare nel complesso di facile esplorazione.

Il soggetto è, ciononostante, quanto di più distante si possa immaginare dall’esperienza di un bambino cieco, principale beneficiario del libro. Lontane e percepibili essenzialmente per la loro luce puntiforme e flebile, le stelle restano oggetti difficili da concettualizzare, immaginare e riconoscere, tanto più nella loro caratteristica e stilizzata rappresentazione a cinque punte. Il libro può perciò rappresentare una sfida ardua per le dita alle prime armi per le quali può diventare, però, con l’adeguato accompagnamento, occasione di scoperta di cose esistenti anche se non percepibili al tatto.

Quadrato e i suoi tanti amici

Ci sono libri che vale la pena segnalare non solo per le storie e le immagini che racchiudono al loro interno ma anche e soprattutto per ciò che significano al di fuori: per il segnale positivo che lanciano, per esempio, al mondo editoriale e alla collettività tutta. È il caso di Quadrato e i suoi tanti amici, primo titolo prodotto da L’albero della Speranza.

Con la storia del piccolo Quadrato, oltre a raccontare l’amicizia e la diversità con grande semplicità e ad avvicinare i bambini, vedenti e non, alla forme geometriche, la casa editrice eporediese raccoglie infatti la sfida di produrre volumi tattili bimodali (stampati in nero e in Braille) i cui costi e le cui caratteristiche tecniche richiedono perseveranza, passione e delicata competenza. Si allarga e si arricchisce così l’offerta editoriale aperta al mondo di chi non vede, grazie a proposte che portano finalmente alla luce lavori troppo spesso circoscritti alla produzione artigianale e in copia unica.

Morbidino e Ruvidino

Un libro che è prima di tutto un viaggio di scoperta, un percorso tra dettagli quotidiani, un susseguirsi di tocchi e carezze. Morbidino e Ruvidino è infatti la storia di due amici dalla texture differente che incontrano animali, oggetti e paesaggi, di volta in volta più simili all’uno o all’altro. Questi incontri conducono il lettore-esploratore a sperimentare sensazioni, a mettere in relazione tra loro cose diverse e ad arricchire il proprio immaginario con particolari che in buona parte prescindono dalla vista.

A contatto con il soffice pelo del gatto, con gli aguzzi aculei del porcospino o con i fruscianti fili d’erba, il bambino conosce e riconosce superfici differenti che stimolano acquisizioni o ricordi, che assumono valenze singolari a seconda dell’esperienza di ciascuno. Ancora una volta, quindi, un esemplare di libro tattile illustrato si presta a letture e manipolazioni alla portata dei piccoli lettori ciechi senza dover essere per questo riservato esclusivamente a loro.

Nicola a modo suo

L’attenzione che Nicola a modo suo rivolge alla questione della diversità è senz’altro degna di nota. Il libro scritto da Guido Quarzo e illustrato da Orietta Brombin abbraccia infatti da fuori e da dentro il mondo dei bambini con difficoltà motorie e comunicative attraverso un contenuto dedicato al tema dell’handicap e una forma ampiamente accessibile.

La storia di Nicola, che fatica a compiere autonomamente azioni quotidiane anche molto semplici e che vede venire in suo soccorso nientemeno che il mago Belmodo, è infatti corredata dai simboli impiegati nella Comunicazione Aumentativa e Alternativa, utile in caso di autismo e di patologie dalle implicazioni comunicative affini.

Messo a punto dagli operatori del Centro Benedetta d’Intino di Milano e dell’Uliveto di Luserna San Giovanni, il libro fa parte di una collana pensata per stimolare, attraverso racconti semplici ma pregnanti, dinamiche interattive e relazionali laddove queste siano fortemente limitate. Il risultato si fa dunque strumento utilissimo per aprire importanti occasioni tanto di identificazione quanto di confronto.

Orecchie di farfalla

Le illustrazioni splendide, divertenti, sospese ed illuminanti di André Neves varrebbero da sole un’immersione in questo libro. Detto fatto: dalla copertina in poi è tutto un tuffo in apnea tra pagine-quadro senza cornice. Ma voilà, sorpresa: si scopre ben presto che a segnare un sentiero tra colori pastello e prospettive oniriche c’è anche un testo intenso e calzante, costruito ad arte come un ritornello d’altri tempi. E così, nel bel mezzo della lettura, si finisce per non capire più chi, tra parola e disegno, effettivamente accompagni l’altro nella rivelazione del prezioso segreto di Mara.

Quale segreto? Forte e stravagante, questa bambina dai capelli di spinacio e dall’orchestra nella pancia svela come liberarsi dalle prese in giro, spalancando la porta di un mondo all’incontrario. Un mondo in cui, a strizzar l’occhio alla realtà, si trasformano buchi nei calzini in dita curiose, vestiti insoliti in tavoli da gioco e difetti fisici in slanci fantastici. La realtà non si nasconde, dunque, ma si guarda da un altro punto di vista che apre squarci insoliti su aspetti sorprendenti.

Le orecchie di farfalla che danno il titolo al libro altro non sono perciò che delle orecchie a sventola capovolte e riscoperte. E proprio questo capovolgimento, svelato da un pensiero rodarianamente divergente, si fa chiave di un’accettazione di sé che stupisce e fa sorridere. Così, con un’attualità e una concretezza inattese, questo libro mostra come scattare fotografie insieme realistiche e poetiche delle differenze che popolano il nostro quotidiano. Con un guizzo fantastico, uno sguardo curioso e una leggerezza da mariposa.

Il paese di Chicistà

Quando la penna è quella di Roberto Piumini raramente si resta delusi così la levità, il ritmo e la trasparenza poetica che l’autore sa infondere al racconto rapiscono con pacata gentilezza anche il lettore di questa storia. Questi segue infatti, come attratto da un pifferaio magico, il viaggio di Chiara e Tommaso nel paese di Chicistà e nella sottile metafora dell’inclusione che esso svela.

Qui si incontrano personaggi bislacchi, ciascuno fatto a suo modo e come tale ben accetto dai concittadini. I Dammideltu, i Pastabianca, i Senzaperché e i Cantabruno, per esempio, sfoggiano ciascuno i suoi tratti peculiari come pezzetti di una filastrocca incantevole e irresistibile. Qui trovano dunque posto i due visitatori e i loro amici Claudio, Simone e Arianna anche se battono ostinatamente con un pestello o sferruzzano senza posa una sciarpa.

Liberati dal controllo degli astrusi Biscabalurda il cui solo interesse sono sterili classificazioni, questi bambini particolari possono infatti trovare il loro posto a Chicistà, non più segregati al di là di un muro che divide ma al contrario uniti da un interminabile filo che abbraccia.

Talpa, lumaca, pesciolino

Tre storie di rara sensibilità escono dalla penna di Guido Quarzo e compongono la bella raccolta Talpa, Lumaca, Pesciolino. Accomunate dall’attenzione al tema della differenza e dalla capacità di rifletterla in un racconto suggestivo, esse propongono a lettori non troppo e non poco esperti un breve viaggio a cavallo tra realtà e fantasia.

I tre protagonisti – l’uno cieco, l’altro molto lento e l’ultimo dai tratti autistici – sono infatti assolutamente veritieri ma portano nomignoli di animali con i quali spesso si confondono, viste le loro peculiarità fisiche e caratteriali e vista l’interpretazione sognante offerta dalle illustrazioni di Nicoletta Ceccoli.

Il lettore si trova così dinnanzi a un personaggio che riconosce a occhi chiusi le tracce dell’orco Muffone, a un secondo che fa tutto al rallentatore finché non entra in acqua e a un terzo che fa il suo primo sorriso quando la maestra si traveste da supereroe. I tre lo ammaliano, lo incuriosiscono e solleticano in lui interrogativi e domande. Che poi meglio di qualunque altro strumento aiutano il passaggio dalla fantasia alla realtà.

Laura

Ci sono tante cose che non è facile fare quando si è sordi: camminare per strada senza correre pericoli, capire cosa dicono le persone, giocare con gli altri bambini, riconoscere i rumori. E poi c’è quella brutta abitudine dei compagni maleducati che ogni tre per due, quando chiedi di ripetere una frase, ti rispondono con sdegno e scherno “Ma sei sorda?”. E Laura lo sa bene. Le sue orecchie, infatti, non funzionano tanto e i suoi lettori imparano presto a scoprire in maniera schietta il disagio che ne può derivare.

Ma un giorno qualcosa cambia. E tutto per merito della magia. Come nella storia di Giovannino, anche Laura ottiene due fagiolini dai poteri strepitosi. Si mettono nelle orecchie e come d’incanto le cose e le persone cessano di restare mute. Le labbra mosse si accompagnano a una voce e ogni cosa acquista un suono. Ma non è tutto. Capita a volte che la magia sappia spingersi più in là dei nostri desideri e portarci persino qualche potere in più del previsto…

Elfi Nijssen fa del quotidiano mondo di una bimba sorda la pasta semplice ma corposa di questa storia e ci invita con chiara franchezza ad assaggiarne un pezzetto, assaporandone gli aspetti insieme dolci e amari.

La strega in fondo alla via

Sarà il formato grandissimo, saranno i colori e le prospettive alla Matisse, sarà lo scenario sempre nuovo ad ogni pagina voltata. O saranno forse tutte queste cose messe insieme, ciò che è certo è che l’apertura di quest’album è un’immersione più che intensa in una storia essenziale e appassionante.

Ti strega, infatti, questo libro come forse quella signora in fondo alla via… Quella signora che gesticola come facesse riti magici, che alleva gatti neri e che cuoce pozioni misteriose. Quella signora che tutti considerano una strega finché il protagonista non scopre il suo segreto che poi segreto non sarebbe se la conoscenza superasse il timore. Come si può immaginare, infatti, che la signora Ester sia sordomuta, che i gesti astrusi siano il suo modo di comunicare e che il fumo del suo calderone diffonda un buon profumo di marmellata se la si scruta sempre da lontano?

La strega in fondo alla via racconta una piccola storia di diversità e pregiudizio con una forza, un’ironia e un gusto per le piccole sorprese saporitamente genuini che lo rendono un album affascinante a vedersi, gustoso a leggersi, suggestivo a rifletterci.

Animali di versi

È un libro, è uno zoo buffo, è una delizia per gli occhi e per le orecchie. Con le sue illustrazioni arruffate a matita, con i suoi rassicuranti sfondi ad acquerello e con le sue storie in rima che uniscono ingegno descrittivo e  linguistico, Animali di versiaccoglie il lettore  tra le sue pagine, dandogli modo di esplorarle come un unico quadro o di sbocconcellarle come singoli frammenti  in cornice.

A popolare l’album recentemente pubblicato da Uovonero sono animali strampalati, ciascuno a suo modo originale e, per via d’indole o di caratteri fisici,  differente dai suoi simili o dall’idea stereotipata che di essi è diffusa. Ci si imbatte così in farfalle a due teste, in usignoli che non voglion cantare, in oche con sale in zucca e di pesci che corrono sulle zampe. E ci si ritrova con naturalezza estrema a immaginare un mondo in cui la diversità non spaventa ma incuriosisce.

Le lettura si fa in questa maniera invito a scovare le qualità di chi e di ciò che ci circonda, a ribaltare narrativamente i preconcetti, a confrontarsi con la differenza e con la somiglianza senza farsi immobilizzare dalla diffidenza.  La fantasia si svincola, così, dalle costrizioni di un pensiero rigido e può dare seguito alle avventure narrate, trovando negli ampi sfondi a tinta unita che abbracciano versi e illustrazioni lo spazio ideale per le proprie scorribande.

Il pentolino di Antonino

Confezionare una saccoccia per il proprio pentolino: così Isabelle Carrier racconta l’importanza di accompagnare i bambini nel percorso di riconoscimento e di assimilazione delle difficoltà – tra le quali senz’altro anche l’handicap – nella propria vita quotidiana. La storia di Antonino che si porta sempre appresso una casseruola, incontrando disagi e generando diffidenza, è, infatti, la storia di una forma di differenza ingombrante e gravosa destinata a restare tale finché qualcuno non aiuta il protagonista a trovare un modo per gestire il suo fardello.

Ora, ciò che sorprende straordinariamente in questo libro è la maniera in cui la serietà della riflessione si concilia con la leggerezza ironica di illustrazioni e testi essenziali. La linea sottile che disegna il contorno di Antonino, lo sfondo bianco che da risalto a ogni vignetta e i colori pastello che parsimoniosamente sono distribuiti sugli elementi cardine di ogni scena rendono l’album un oggetto prezioso in cui nulla pare eccedere o deficere e in cui la semplicità della visione narrativa non pare intaccare la complessità della realtà narrata.

L’ultimo elfo

È fresca di stampa – o meglio di registrazione – una delle proposte più interessanti della Emons audiolibri: si tratta de L’ultimo elfo scritto da Silvana De Mari e pubblicato nel 2004 dalla Salani. La proposta è, nella fattispecie, interessante perché ribadisce a gran voce l’importanza di rendere accessibili ai bambini ciechi, ipovedenti o con difficoltà di lettura, non soltanto i testi strettamente indispensabili alla loro formazione scolastica ma anche le storie che ne consentono lo svago più puro e il confronto con i compagni.

L’ultimo elfo è infatti, originariamente, un libro che ha riscosso un grande successo tra i ragazzi delle scuole elementari e medie ai quali è rivolto oltre che tra i critici che gli hanno attribuito il prestigioso premio Andersen. Esso offre, in particolare, una combinazione sapiente di avventura, invenzione, magia e coraggio che ne fanno uno dei romanzi fantasy italiani più degni di nota. Quella stessa combinazione, d’altra parte, si svela al lettore grazie ad uno stile evocativo e coinvolgente che ben si presta a solleticare le orecchie quando a leggere il racconto è la voce suadente della cantante Mietta.

Marcolino, Cicciopalla e il colore delle mani

Il sapore, il profumo e il suono dei colori non sono argomento raro tra i più recenti libri per bambini. Troviamo, infatti, tra diversi titoli per i più piccoli l’idea che si possa dare un senso più profondo, personale e indipendente dalla vista alle tinte del mondo che ci circonda. Ritroviamo quell’idea, in particolare, in albi e libri illustrati di varia fattura, in cui spesso si incontrano un intento poetico e una proposta di riflessione. Scoprire infatti le sensazioni e i ricordi che si annidano sotto i colori riflette sia il desiderio di dare un volto nuovo alla realtà, sia il tentativo di farne l’occasione per confrontarsi sull’esperienza della cecità.

Flavio Maracchia – in arte Chito – propone, dal canto suo, questo tema con un taglio decisamente ludico. Giocosi sono, infatti, il suo tratto fumettistico, i suoi personaggi essenziali, le sue girandole di sfondo. E giocosa è la scintilla che fa nascere l’intero libro: Cicciopalla, bambino robusto di corpo e di immaginazione, insegna all’amico Marcolino “il gioco dei colori”. E poco importa se Marcolino è cieco, perché presto si scopre come il colore delle mani, della guerra o del suono dei tamburi abbia una trama multisensoriale, nata dalla personalissima esperienza di ciascuno.

L’albo semplice ma d’impatto pubblicato da Effatà punta tutto su questa interiorizzazione dell’immagine. Oggetti, sfondi e personaggi si intersecano e si incontrano, infatti, in mosaici sempre diversi e sempre suggestivi. Così che quel personaggio tutto stilizzato, bianco e senza occhi, finisce per essere travolto dal turbinio di colori che lo avvolge. Ma non è tutto. Perché alla maniera di Marcolino e Cicciopalla – ci dice Chito – tutti possano fare esperienza concreta e coinvolgente della diversità. L’autore propone, infatti, una serie di giochi a tema di facile realizzazione che insegnanti, genitori ed educatori possono piacevolmente proporre ai loro bambini.