Il nostro cane Max (FabuLIS)

Gli animali domestici sono, per tanti padroni e padroncini, autentici membri della famiglia. Con loro si condividono rituali, viaggi, esperienze, emozioni e così, quando muoiono, lasciano un vuoto grande e un segno indelebile. Proprio questa parabola esistenziale, tanto familiare a chiunque abbia posseduto e amato un cane o un gatto, trova posto tra le pagine de Il nostro cane Max.

Il libro scritto da Alessandra Bocchetti omaggia e ripercorre la vita del cane Max all’interno della famiglia che lo ha accolto quando era ancora piccolissimo e brutto. L’autrice racconta in particolar modo il rapporto speciale e unico che il cane instaura con i diversi membri della famiglia, dando un assaggio delle piccole gioie che, dal primo all’ultimo giorno, la sua presenza ha regalato. Fino a che la vecchiaia lo porta via, senza che tuttavia il suo ricordo svanisca. Tutt’altro: nel cielo, nelle rocce e persino nella forma di un’isola Max torna a far visita ai suoi padroncini, nel nome di un legame intenso e sempre vivo.

Lineare e senza arzigogolate capriole narrative, Il nostro cane Max si presenta come un omaggio personalissimo a un cagnolino realmente esistito che suscita simpatia e affetto. Piacevole da leggere e commuovente nel finale, il libro fa parte di una doppia collana. La versione originale è stata inserita, infatti, all’interno della Minizoom di cui il libro condivide tutte le apprezzabili caratteristiche di alta leggibilità: font specifica, spaziatura, maggiore tra lettere, parole, righe e paragrafi, sbandieratura a destra e carta color crema. Una seconda versione, che va ad affiancarsi alla precedente e che ne mantiene tutte le caratteristiche sopracitate, è stata invece di recente messa a punto da Biancoenero e inserita nella nuovissima collana Fabulis.

In questa nuova versione, inserita all’interno della collana Fabulis, ogni doppia pagina del volume di Alessandra Bocchetti e Martina Tonello presenta sulla sinistra un QRcode grazie al quale accedere a un video che ne racconta il testo in Lingua dei Segni Italiana. L’illustrazione figura, come una sorta di sfondo,  anche alle spalle dell’interprete, facilitando  così l’associazione tra i due supporti. Nella parte destra di ogni doppia pagina, inoltre, possono essere presenti altri QRcode contraddistinti da un bordo di colore differente. Questi attivano la traduzione in LIS delle parole meno comuni o di più difficile comprensione, all’interno di video che, così come i precedenti, non presentano audio.

La collana Fabulis è frutto di un progetto estremamente significativo e apprezzabile, per più di una ragione. In primo luogo perché sfrutta in maniera semplice ma efficace la sinergia tra cartaceo e digitale. Grazie al basico riconoscimento di un QRcode, che rinvia a un video caricato su Vimeo, il lettore ha infatti la possibilità di fruire di una modalità narrativa e comunicativa supplementare che mal si accorderebbe con l’inserimento sulla pagina, senza dover per questo rinunciare al valore del rapporto con la fisicità del volume. L’espediente del QRcode, inoltre, è molto poco invasivo e questo fa sì che la pagina risulti praticamente identica a quella della versione originale del libro. Il lettore si trova perciò tra le mani un volume bello e curato come l’originale ma più accessibile.

La corrispondenza puntuale tra testo in italiano sulla pagina e video in LIS non solo favorisce l’appropriazione e il pieno godimento del racconto da parte dei bambini sordi segnanti ma facilita anche la costruzione di un ponte tra le due lingue che questi lettori si trovano a fronteggiare nella vita quotidiana. Il nostro cane Max, così come gli altri volumi che compongono la collana Fabulis,  costituisce, cioè, una bellissima proposta di narrativa che merita e chiama il libero gusto e il gratuito piacere della lettura, rivelandosi però anche un prezioso e valido strumento di sostegno all’apprendimento.

Da ultimo, non va trascurato il processo che ha portato alla nascita della collana. Il coinvolgimento, insieme a Biancoenero, dell’ENS (Ente Nazionale per la Protezione e l’Assistenza dei Sordi) e di Huawei (azienda privata già sensibile al tema e attiva sul campo grazie al progetto Storysign), mette in luce l’importanza e la validità di progetti che fanno leva sull’integrazione di competenze specifiche e complementari così da offrire ai lettori prodotti di qualità tanto dal punto di vista dell’accessibilità quanto da quello letterario.

Zeb e la scorta di baci

La storia di Zeb, che ha paura di andare da solo al campo estivo e che riceve da mamma e papà una scatolina di baci-caramella da tirare fuori all’occorrenza è amatissima. Letto e riletto in famiglia, in biblioteca e a scuola, dall’asilo nido fino all’inizio della scuola primaria, Zeb e la scorta di baci è uno dei libri che più frequentemente vengono proposti per accompagnare i momenti di distacco dei bambini e il suo protagonista è uno di quelli a cui più si affezionano i giovanissimi lettori. Perché Zeb è proprio come loro, mostra le stesse paure e fragilità e ama scoprirsi più grande e forte del previsto. L’apprensione che prova Zeb di fronte all’idea di stare per la prima volta lontano da mamma e papà, il conforto che riceve da un oggetto semplice ma simbolicamente forte come la scatola di baci di carta, il timore che ha di essere preso in giro, il sollievo che sperimenta nel riconoscere nei compagni di viaggio sentimenti affini ai suoi e l’incoraggiamento che trova nella condivisione della sua scorta di baci sono tutti sentimenti familiari ai bambini.

Anche per questo motivo, il libro di Michel Gay, da anni in catalogo per Babalibri (la prima edizioni italiana è datata 2008!), continua a essere ristampato e a riscuotere consensi, nei grandi come nei piccoli. Per certi versi, con garbo e discrezione, Zeb riesce a entrare nella quotidianità dei bambini per poi dimorarvi a lungo, come una sorta di rassicurante compagno di sfide emotive. È dunque, a tutti gli effetti, una presenza forte nell’immaginario collettivo, e come tale merita di essere conosciuto e fatto proprio da tutti i bambini.

È dunque una lieta notizia, quella che vede Zeb e la scorta di baci entrare nel catalogo di Officina Babùk, la casa editrice specializzata in libri in simboli nata dalla sinergia tra Babalibri e Uovonero. Grazie all’impiego dei simboli WLS della Comunicazione Aumentativa e Alternativa a supporto visivo del testo, questa pubblicazione consente infatti anche ai bambini con difficoltà di lettura di accedere con maggiore agio alla storia della timida zebra. Quest’ultima, dal canto suo, rimane assolutamente riconoscibile poiché il rispetto dell’originale è uno dei principi che animano la produzione degli albi della neonata casa editrice. Così, il lettore che già conosca la versione tradizionale del libro e che ne scopra questa adattata, ritroverà le stesse figure dallo stile delicato e amichevole, la stessa organizzazione della pagina (illustrazione in alto, testo in basso) e lo stesso testo, fatto salvo per minimi aggiustamenti che possono rendere più lineare e fruibile la sintassi (esplicitazione del soggetto, trasformazione di una frase subordinata in una frase autonoma, ecc…), per l’aggiunta dei simboli e per il cambio del carattere da minuscolo a maiuscolo.

La scelta del maiuscolo, dal canto suo, evidenzia una volta di più l’approccio inclusivo adottato dalla casa editrice. Si tratta infatti del carattere che prima e meglio riescono a padroneggiare i bambini che iniziano a cimentarsi con la lettura e la scrittura. L’idea vincente è dunque che si tratti di libri ad ampio raggio, che accolgono tante esigenze diverse non necessariamente legate a una disabilità.

Il libro, come gli altri che animano il catalogo di Officina Babùk, adotta un modello di simbolizzazione orientato all’equilibrio tra ricchezza e fruibilità, per cui in molti casi un simbolo corrisponde a un’unità di senso più che a una parola singola. I riquadri che contengono i simboli, inoltre, assumono una funzione comunicativa, presentando stondature e punte diverse a seconda che si trovino a inizio/fine di un dialogo o di un passaggio narrativo di altro tipo. L’aspetto finale è chiaro e gradevole, anche in quelle pagine in cui il numero di parole e simboli risulta più alto e richiede grande perizia dal punto di vista grafico.

È permesso?

Non c’è forse gioco infantile più replicato e al contempo più moltiforme del progettare e costruire un rifugio. Cuscini, lenzuola, mobili e qualunque supporto capiti a tiro può contribuire a dare forma a tane e fortini in cui nascondersi, stipare proviste, condividere segreti e inventare avventure. Alzi la mano chi non l’ha mai sperimentato! Ecco allora che il libro di Elena Rossini e Irene Penazzi – È permesso? – che a questa comune pratica ludica è dedicato diventa per il lettore occasione di riconoscimento e spunto per nuovi allestimenti. Non solo: tra le pagine di questo libro in cui c’è tanto da guardare e poco da leggere, si trova una fitta trama di relazioni familiari e amicali che danno vita a micro-narrazioni e dettagli da trovare. È dunque un libro quasi senza parole, È permesso?, un simil-wimmelbuch e un libro che ha qualcosa del gioco: un libro decisamente ibrido, dunque, che come tale prometta ampia libertà di movimento e molteplici possibilità di esplorazione.

Protagonisti sono, in prima battuta, cinque bambini di età e stature diverse, che si dirigono con fare deciso verso il salotto. In un attimo – il tempo di un voltar di pagina – la stanza viene ripresa con un’inquadratura più ampia e presto invasa da mollette, lenzuola, scatole, sedie rovesciate a giocattoli. Il gioco è partito! Da lì in avanti il fortino appare allestito e il lettore ha modo di immaginare cosa vi accada all’interno solo da sparuti dettagli – una teiera, un ciuccio, biscotti, fogli e pennelli – che spuntano da sotto le lenzuola appese. In parallelo sopraggiungono nuovi potenziali ospiti che educatamente chiedono di poter entrare. Come una sorta di parola d’ordine votata alla gentilezza, l’È permesso? fa via via crescere l’accampamento e le attività in esso custodite. Sono le ultime due doppie pagine, che si aprono come una sorta di sipario, a rivelare il pullulare di giochi, chiacchiere, scherzi e lavori che nel rifugio hanno trovato posto. I dettagli spuntati qua e là nel corso della lettura trovano allora nuovo senso e invitano a ripercorrere da capo le pagine affollate per riconoscere e ricollocare i personaggi, metterli in relazione e ricostruire ciò che per buona parte del libro è rimasto celato nel fortino.

Dinamicissimo, autentico e predisposto a soddisfare molteplici letture consecutive, È permesso? dà spazio a un disordine creativo che profuma di famiglia vera. Tra quelle scope che diventano puntelli, quei tappeti che ospitano picnic informali e quei divani che si fanno, all’occorrenza, letto, supporto o parco-giochi, il lettore può muoversi senza un ordine predefinito, cogliendo dettagli disseminati con perizia dalle autrici. Là dove la confusione (ricercata) della pagina non crei insofferenza e dove l’avanti e indietro tra le pagine per mettere a posto i tasselli non costituisca un ostacolo al godimento della lettura, È permesso? offre una storia per immagini (ché di fatto le poche e ricorrenti parole sono praticamente accessorie) in cui il lettore può prendersi il tempo di sostare, in cui è chiamato a fare ipotesi (chi sono questi personaggi e che tipo di relazione li lega? Perché il bambino con la tshirt della montagna toglie una molletta? Cosa pensa il gatto di tutto questo trafficare tra tappeti e coperte?…) e in cui, in definitiva, il gioco simbolico che ispira la narrazioni si fa cornice di nuove imprevedibili invenzioni che trovano forma e parole proprio grazie a chi legge.

Papà-isola

Émile Jadoul è tra gli artisti che più e meglio hanno raccontato il meraviglioso e delicato rapporto tra padri e figli attraverso il linguaggio dell’albo illustrato. Papà-isola è uno dei libri attraverso i quali l’autore francese ha dato voce a questo tema con la delicatezza del tratto che lo contraddistingue. È un albo tenero e vero, questo che vede protagonista l’orso Gigi che sta per avere un cucciolo. Un albo che non ha paura di dire le fragilità dei grandi e in cui i timori di chi sta per affrontare una grande avventura come la paternità si dissolvono di fronte all’idea che l’amore porta a galla il meglio di noi. E poco importa, allora, se Gigi non ama il calcio, non sa nuotare e non ha molta dimestichezza con gli attrezzi. A renderlo speciale per il suo piccolo sarà ciò che lo rende l’orso che è: l’essere protettivo come un papà-capanna, avventuroso come un papà-cavallo, curioso come un papà-aeroplano. O, per l’appunto, accogliente come un papà-isola.

In catalogo per Babalibri nella sua versione tradizionale, questo classico di Émile Jadoul diventa oggi più accessibile grazie alla versione in simboli pubblicata da Officina Babùk. Quest’ultima mantiene intatta tutta la poesia del racconto e la felicità delle illustrazioni ma rende più fruibile il testo grazie al supporto visivo dei simboli WLS (Widgit Literacy Symbols) e grazie a minime modifiche orientate alla linearità della sintassi e all’attribuzione esplicita dei discorsi diretti. Si tratta per l’appunto di modifiche minime perché l’originale di Jadoul presenta già, di per sé, caratteristiche di essenzialità, chiarezza e ricorsività testuale che risultano estremamente funzionali a una resa in simboli. La brevità e il numero ristretto delle frasi che compongono Papà-isola fanno sì, inoltre, che, anche accompagnato dai simboli, il testo non occupi troppo spazio e lasci ampio respiro alle poetiche illustrazioni che rendono il volume così riconoscibile.

I simboli, dal canto loro, sono impiegati in maniera puntuale (praticamente solo gli articoli e le preposizioni vengono uniti al sostantivo di riferimento) e si adattano felicemente alle invenzioni linguistiche proprio del volume. Così, per esempio, l’espressione papà-isola corrisponde a un unico riquadro che contiene il simbolo del papà e quello dell’isola. Vale la pena sottolineare, infine, l’uso caratteristico dei riquadri fatto dall’editore per evidenziare l’inizio e la fine dei discorsi diretti e degli altri tipi di frasi (oltre che, chiaramente, per racchiudere i simboli) e la scelta di sostituire il carattere minuscolo dell’originale con il maiuscolo. Il volume adattato assume così un aspetto più amichevole anche per quei bambini che – con o senza il supporto dei simboli – si cimentino con le prime letture autonome.

Diario di un ragazzo invisibile

A chi non è capitato – a scuola, in famiglia o in qualunque altro contesto sociale – di sentirsi invisibile? Vivien conosce questa sensazione meglio di chiunque altro. Lui, infatti, invisibile lo è letteralmente. Non sempre, non dappertutto. Ma spesso e in situazioni diverse. La faccenda è strana forte, Vivien se ne rende conto. E così inizia ad annotare sul suo diario tutto ciò che nota in relazione alle sue scomparse e a cercare di entrare in contatto con i pochi studiosi che hanno approfondito il fenomeno. La strategia non sembra portare nuovi frutti. Al contrario, l’incontro inatteso con una coetanea a sua volta convinta di avere uno strano potere, lo fa sentire improvvisamente visto…

È un tema vivo, questo del sentirsi visti, un tema in cui facilmente un lettore alle prese con l’adolescenza può riconoscersi. L’autrice lo affronta con un taglio particolare, non privo di guizzi ironici. Il suo Diario di un ragazzo invisibile si presenta al lettore come un libro compatto, dal formato tascabile e dall’aspetto grafico amichevole. Le pagine si caratterizzano, infatti, per l’impiego del font EasyReading (in dimensione però abbastanza ridotta), per una spaziatura abbastanza ampia tra lettere, righe e anche paragrafi e per la sbandieratura a destra che ne agevolano la lettura anche in caso di dislessia.

Ti aspetto a San Qualcosa

Beniamino Sidoti maneggia le parole come fossero plastilina: ci gioca, le trasforma, ne trae con destrezza inattesi spunti narrativi. Questa sua consuetudine con la lingua, con il gioco e con le storie, ha un ruolo importante anche nel suo Ti aspetto a San Qualcosa, romanzo breve recentemente pubblicato da Camelozampa.

Qui il protagonista Simone, appena trasferitosi in un paesino sperduto con il papà, decide di esplorare in maniera originale la nuova realtà in cui senza diritto di lamentela è stato catapultato. Il gioco che fa consiste nel decidere ogni giorno un libro (ma anche una canzone, un film o un gioco) diverso e di osservare e interpretare ciò che lo circonda come se fosse dentro la storia che qui si racconta. Così, per esempio, il primo giorno si muove per le viuzze del paese come fosse in un bosco dove cercare briciole di pane, orientarsi con le stelle, trovare la strada tra gli alberi. E magari farsi accompagnare da qualcuno, dal momento che la storia scelta è quella di Hansel e Gretel e che Hansel senza Gretel non ha granché senso. E in effetti sul suo cammino Simone incontra Sara, che come lui non si affanna a omologarsi e che accetta di buon grado di calarsi nel gioco. La loro è senza dubbio un’affinità elettiva che si nutre, giorno dopo giorno, di esplorazioni e di scoperte, di domande e di silenzi, di pensieri e di vicinanza fisica. Come una sorta di elemento terzo che aiuta a creare un distacco e a mettere a fuoco le cose, le storie che Simone usa come lenti tracciano sentieri e creano confidenza, aiutando a dirsi e a dire agli altri anche le cose più intime, dolorose o difficili da guardare e nominare.

Tra le pagine di Ti aspetto a San Qualcosa, pubblicate da Camelozampa con caratteristiche di alta leggibilità (compresa la spaziatura tra i paragrafi che dà respiro anche a chi fa più fatica), il lettore, idealmente di scuola media, può trovare spunti di letture ghiotte e stimoli a guardare la realtà più ordinaria con occhi differenti. Può trovare personaggi fuori dagli schemi ma profondamente credibili. E può trovare legami, emozioni e preoccupazioni che gli suonano familiari. Perché ogni buona storia – che parli di un gigante gentile, di un lupo nella foresta, di autobus a forma di gatto o di giustizieri mascherati – è una storia che parla di noi.

Il grande volo

Quello della violenza assistita e subita in ambito domestico è un tema spinoso e complesso. Un tema che, tuttavia, riflette una realtà esistenze e vissuta sulla propria pelle da un numero non trascurabile di bambini e bambine e che come tale necessita di parole e figure in cui questi possano riconoscersi. Questa possibilità è offerta, per esempio, da un libro come Il grande volo scritto da Fulvia degl’Innocenti e illustrato da Silvia Colombo. Qui si racconta di Nina, nella cui casa le cose volano. Vola di tutto: piatti, libri, cuscini. E soprattutto mani, che lasciano segni rossi sulla pelle e parole, che possono essere taglienti come lame. Nina assiste a tutto questo, con paura e con dolore. Nina vede, terme, agisce e subisce. E così anche Nina vola. Vola perché spinta e vola per salvarsi. Sopra tutto e sopra tutti. Fino a quando le parole rassicuranti e decise della mamma non annunciano un cambiamento salvifico. Ad accompagnare il racconto tutto incentrato sulla metafora del volo, entrano in gioco illustrazioni dai colori accesi in cui figure reali e riconoscibili si mescolano ad elementi di contorno più insaturi ed espressivi che valorizzano la dimensione simbolica della narrazione.

Il grande volo è un libro due volte coraggioso. Per il tema che tratta, poco o per nulla presente nei volumi destinati ai più piccoli. E per la scelta di ampliare il più possibile la fruibilità di una narrazione così delicata. Il libro scritto da Fulvia degl’Innocenti e illustrato da Silvia Colombo viene infatti proposto dall’editore Astragalo in una doppia versione: albo illustrato tradizionale e inbook. Quest’ultima presenta il testo in simboli WLS che ne agevolano la comprensione anche da parte di giovani lettori con difficoltà comunicative.

Data la lunghezza del testo di partenza e la scelta (propria del modello inbook seguito dal libro) di non modificarlo, i riquadri che contengono i simboli risultano giocoforza di dimensioni ridotte, richiedendo una certa dimestichezza con questo tipo di lettura. D’altro canto, la struttura sintattica raffinata e il racconto a forte carica metaforica presuppongono a loro volta un lettore modello non alle prime armi e capaci di muoversi con agio anche tra le sfumature e le capriole del testo. La grafica, infine, tende a ricalcare quella originale dando vita ad alcune pagine più pulite, lineari e leggibili ed altre un poco più ostiche per via del minore contrasto tra sfondo e testo o della sistemazione arcuata della sequenza di simboli. Come da modello inbook, questi ultimi traducono individualmente ogni elemento lessicale e prevedono qualificatori di numero e genere. Inoltre – peculiarità di questo volume – mentre la maggior parte dei simboli presenta la parte lessicale in minuscolo, come normalmente accade, alcune parole chiave sono proposte in maiuscolo. Sono al massimo tre-quattro per pagina e si tratta delle parole più significative di ogni pezzo di racconto. Un espediente che mira a ricalcare con fedeltà l’originale, focalizzando l’attenzione sugli elementi più pregnanti e guidando così l’attenzione del lettore.

Tanto amore non può morire

Un romanzo può essere commuovente dalla prima all’ultima pagina (letteralmente) senza per questo apparire melenso. Può raccontare la morte senza per questo risultare funesto. Può scavare nel dolore e nonostante, anzi proprio grazie a questo, far affiorare la gioia delle relazioni. Tanto amore non può morire di Moni Nilsson dimostra, dal canto suo, tutte e tre queste cose.

Lo fa attraverso la storia e il punto di vista di Lea, dieci anni, una famiglia unita e ordinaria, una passione per il calcio, un carattere tosto, un’amica che è praticamente una sorella e una mamma malata di cancro. Lea sa della malattia della madre ma, anche in virtù di un’età in cui consapevolezza ed elaborazione fantastica tendono a mescolarsi, rifiuta in fondo l’idea che possa morire a breve. Così, quando la sua migliore amica Noa le dice di aver visto sua madre al Galà del Cancro e di essere dispiaciuta per la sua morte imminente, la fragile e tutto sommato rassicurante idea di realtà imbastita da Lea improvvisamente crolla. Noa diventa una traditrice per aver saputo prima di lei e per averle rivelato ciò che lei non vedeva o non voleva vedere. Lea fa di lei una sorta di capro espiatorio e al contempo di soggetto scaramantico: finché la odierà e rinuncerà alla sua amicizia, forse la mamma non morirà. Accade, allora, che mentre la malattia di Johanna peggiora, lasciandole sempre più di rado dei momenti buoni in cui fare scorta di piccole felicità, Lea sperimenta la paura del distacco in maniera ancora più dolorosa perché non può contare sulla sua amica più cara. Proprio quella che, nonostante, tutto, continua a cercarla e a tentare un riavvicinamento dopo il pasticciaccio del Galà. Arriva un momento, però, in cui gli allontanamenti forzati, i tentativi di distrazione e le nuove amicizie non bastano più a coprire il vuoto enorme che si fa spazio dentro Lea. Ed è proprio lì che le relazioni importanti, che si stringono in quella che è una famiglia allargata a tutti gli effetti, affiorano con forza e si fanno rete di sicurezza. Quella a cui affidarsi senza timore e di cui sentirsi indissolubilmente filo.

Asciutto, intenso e meravigliosamente scritto, Tanto amore non può morire prende di petto un tema delicatissimo scansando in uno slalom ardito le trappole del sentimentalismo e dello sbrodolamento. Qui, verosimilmente, il tempo e il ritmo cambiano in funzione della situazione che vive Lea e degli stati emotivi che essa reca con sé. Le relazioni – grandi protagoniste del romanzo – palpitano autentiche nelle parole e nei gesti dei personaggi, portando alla luce tutto ciò che di buono può esserci nel dolore più buio. È un romanzo forte, appassionante, incisivo, questo di Moni Nilsson, che merita di essere proposto e consigliato ai ragazzi e alle ragazze nonostante tema portante e copertina possano apparire respingenti. Ultimo ma non meno importante: Uovonero lo propone con caratteristiche di alta leggibilità evidenti e importanti che a loro volta sostengono una lettura già di per sé densa e magnetica.

Hodder e la fata di poche parole

Che fare se di notte una fata viene a farti visita, annunciandoti che ti toccherà salvare il mondo? Probabilmente cercare compagni con cui condividere l’avventura e trovare un posto da cui cominciare il salvataggio, un passo alla volta. Questa, quantomeno, è la risposta che si dà Hodder, ragazzino protagonista del delizioso romanzo di Bjarne Reuter. E così, sera dopo sera, quando la casa si fa vuota e silenziosa perché né la mamma (precocemente scomparsa), né il papà (impegnato ad attaccare manifesti per lavoro), sono presenti, Hodder lavora alla sua missione, interrogandosi senza posa su come riuscire nell’impresa e su chi invitare a farvi parte.

Iniziano così le sue surreali conversazioni con personaggi sopra le righe come il pugile poeta Bic Mac Johnson, come la donna avvenente che fa la pubblicità delle sigarette o come il principe di Guambilua. Peccato che anche la signora Andersen, la maestra di Hodder, non abbia intenzione di unirsi alla spedizione. Hodder è infatti sempre bene felice di porle domande e condividere con lei i suoi pensieri. Ma lei, al contrario, non pare affatto ben disposta nei suoi confronti. A dirla tutta, l’intera esperienza scolastica non è per Hodder proprio in discesa: quel suo modo ingenuo e fuori dagli schemi di pensare e di porsi tende, infatti, a generare diffidenza e derisione nei suoi compagni, cosa che il ragazzino affronta a modo suo, con un mix efficace di positività ed invenzione. È – se vogliamo – il potere salvifico dell’immaginazione. Il romanzo si sviluppa, così, nello spazio tra scuola e casa, seguendo le piccole e grandi avventure del protagonista e adottando il suo personale e originale punto di vista. Ne viene fuori una narrazione divertentissima, ricca di personaggi memorabili e capace di stregare il lettore.

La scrittura di Bjarne Reuter, in particolare, è fresca e sorprendente. Quel suo muoversi con grazia tra il piano reale e quello immaginario, seguendo un flusso di pensieri singolare come quello di Hodder, dà forma a un racconto che interroga costantemente il lettore facendogli strizzare gli occhi e chiedere di tanto in tanto “Ma sta succedendo davvero?”. Il tutto mentre si diverte, si stizzisce, si emoziona. Perché nell’avventura tragicomica c’è spazio per sentimenti molto contrastanti e proprio questo vorticare emotivo, che ci avvolge con dolcezza pungente come una girandola al rhum, ci fa sentire Hodder vicino, vicinissimo. E come lui tutti i bambini che per indole e abilità faticano a trovare un posto comodo nel mondo reale, provando a trovare un rifugio accogliente nella dimensione fantastica.

Pubblicato da Iperborea, Hodder e la fata di poche parole ha vinto il premio Andersen 2023 come miglior libro 9-12 anni.

Semplicemente due

Vi ricordate di Chris, il ragazzo che il giorno del suo diciottesimo compleanno si ritrova a vivere da solo, abbandonato dalla mamma ma circondato una sorta di famiglia allargata capace di sostenerlo e farlo sbocciare nonostante quello che lui definisce “il suo essere in ritardo con la testa”? Lo avevamo conosciuto all’interno di Semplice la felicità, il primo romanzo della trilogia composta dall’autore canadese Jean-François Sénéchal.

Nel secondo volume della trilogia, intitolato Semplicemente due, Chris si appresta a mettere su famiglia con la sua fidanzata Chloé. Conviventi ormai da un po’, i due scoprono di aspettare un bambino e proprio questo evento, così straordinario e così capace di far discutere, si trova al centro del romanzo. Possono diventare genitori – e prima ancora avere una vita sessuale attiva – due persone con disabilità? Sono in grado? Sarà per forza disabile anche il bambino? La questione non è priva di aspetti spinosi che l’autore prende però di petto e tratta con la consueta e intelligente leggerezza. Nel suo racconto c’è spazio infatti per gli operatori dei consultori, che seguono e sostengono la coppia in vista del parto con un adeguato percorso, c’è la famiglia in cui si mescolano apprensione e affetto incondizionato e c’è quella rete, preziosa e insostituibile, che rende ogni situazione potenzialmente critica in una situazione che di fatto si può affrontare.

L’attesa del bambino scandisce così un tempo in cui accadono moltissime cose che coinvolgono moltissime persone. Certo, al centro c’è sempre lui, Chris, che nel giro di pochi mesi si ritrova a fare un lungo viaggio in camion come un vero king della strada, a sostituire l’ex bullo Luc Boutin nelle visite alla vecchia nonna, a fare lezione a una classe di studenti della sua vecchia scuola, ad aiutare la signora Sylvester a fare i conti col passato, a ricucire un rapporto con il padre e a conoscere il dolore per la morte di chi da padre gli ha fatto per un tempo importante.

Sempre scritto dal punto di vista del protagonista e come se questi stesse idealmente parlando alla mamma che lo ha abbandonato, Semplicemente due si caratterizza per una narrazione vivace in cui brillano tutte le sfaccettature della vita e in cui la disabilità intellettiva trova una voce nuova, fresca, irriverente e capace di farci spostare con garbo dalla nostra comfort zone di certezze e pregiudizi.

Divergente

Parlare di neurodivergenza significa parlare di un modo atipico di percepire il mondo e di abitarlo. Un modo che, per chi neurodivergente non è, può essere difficile da comprendere e accogliere. Perché “mettersi nei panni di” è tutto fuorché una cosa scontata e immediata. Anche per questa ragione la maniera in cui Victoria Grondin decide di trattare l’argomento all’interno di Divergente risulta molto spiazzante ed efficace.

Il romanzo breve dell’autrice canadese è ambientato, infatti, in un mondo in cui è considerato neurodivergente chi non manifesta particolari peculiarità sensoriali e interessi assorbenti, chi guarda gli altri dritto negli occhi e usa un linguaggio figurato, chi ama le cose nuove e si sente un po’ costretto da una routine rigidamente organizzata: in altre parole, chi, secondo i nostri canoni abituali, non rientrerebbe in una diagnosi di autismo.  Un mondo all’incontrario, insomma, in cui chi deve adattarsi a prassi e contesti non costruiti sulle sue esigenze è proprio chi di solito, nella realtà, detta le regole e compone la maggioranza.

All’interno di questa cornice, Guillaume figura a tutti gli effetti come un neurodivergente. I tratti sopra elencati gli corrispondono tutti e per questo gli viene diagnosticata la rarissima sindrome di Wing. Non sarà dunque difficile intuire quanto possa essere complicato per lui muoversi tra i suoi pari ma anche in famiglia, dove nessuno sembra capirlo e soprattutto tutti lo considerano alla stregua di una nullità: una persona priva di qualsivoglia talento o possibilità di emergere. Data la situazione, quando nella scuola di Guillaume arriva Grace, una ragazza che mostra tratti simili ai suoi, il ragazzo sembra risvegliarsi da un logorante senso di solitudine e inettitudine. Anche grazie alla passione per la musica, tra i due cresce una complicità che mai Guillaume si sarebbe potuto aspettare. Così, quando Grace torna in maniera del tutto inaspettata nella sua città di origine, Guillaume si dimostra pronto a tutto per ritrovarla. Anche se questo significherà per lui trasferirsi e accettare di sottoporsi a trattamenti scientifici a lungo rifiutati e totalmente indesiderati. L’impresa è ardua ma la posta in gioco è alta. Per questo, quando Guillaume si trova faccia a faccia con una verità inattesa e scomodissima, la batosta si fa ancora più dura…

Amaro e straniante, Divergente esplora la neurodivergenza con una precisione scientifica e un grado di dettaglio che in alcuni punti gravano un po’ sulla scorrevolezza del racconto ma che al contempo restituiscono particolare credibilità rispetto al tema. L’autrice ha studiato, non a caso, neuropsicologia e le sue conoscenze emergono non di rado, anche e soprattutto tra le parole della dottoressa Kessy Grandin che prende in carico Guillaume fin da quando è piccolino e che ha un ruolo non irrilevante nello sviluppo della storia. Il libro si caratterizza, inoltre, per la capacità di coinvolgere il lettore grazie al ribaltamento dei ruoli cui si è già fatto cenno. Emerge con forza dalla narrazione il fatto che la disabilità dipende fortemente dal contesto che la accoglie e, anche in questo senso, il lettore neurotipico viene direttamente chiamato in causa, portato a interrogarsi su come la società di cui fa parte permette alle diverse persone di esprimersi e trovare il proprio posto nel mondo per come sono e non per come ci si aspetta che siano.

 

Prendimi per mano

Una notte in ospedale può cambiare la vita. Non solo o non sempre per l’esito di un intervento ma anche e più, talvolta, per via degli incontri che qui possono avere luogo. Incontri fortuiti tra sconosciuti, le cui storie apparentemente non si sfiorano nemmeno ma che in alcuni casi trovano punti di contatto magnetico. È quel che accade ad Antoine e Chloé, ricoverati nella stessa stanza per due motivi completamente diversi: una piccola operazione al dito lui, un intervento più complesso all’anca lei. Nelle poche chiacchiere che i due ragazzi scambiano in attesa che giunga il mattino, scatta un’intesa fuori dal comune in cui si intrecciano non solo attrazione fisica e sensibilità vicine ma anche paure e vissuti comuni, segnati da perdite precoci e lancinanti sensi di vuoto. Al di là dei vetri di quella camera silenziosa, la neve cade disegnando un paesaggio che chiama a stare nella bellezza del presente. E così, quasi senza pensarci, Antoine e Chloé si lanciano in una fuga notturna che fa crescere la complicità e il desiderio di restare attaccati alla vita, nonostante tutto. Alla fine di quella notte, narrata efficacemente a due voci, i due ragazzi si separano senza avere il tempo di salutarsi. Così l’attesa e la speranza di rincontrarsi, flebilmente attaccate a un biglietto con un numero di telefono lasciato da Antoine su un comodino, finiscono per apparire tanto intense e coinvolgenti quanto l’incontro fugace che le ha generate.

Prendimi per mano ha almeno tre assi che lo rendono molto appetibile per un lettore Young Adult, anche non particolarmente allenato o predisposto alla lettura: un racconto che incalza e fa leva su sentimenti forti e vibranti; una narrazione intensa che si consuma con soddisfazione in un numero circoscritto di pagine; e una stampa amichevole che sfrutta alcune caratteristiche di alta leggibilità. Il libro di Olivier Adam viene proposto, infatti, da Camelozampa all’interno della collana Le spore che raccoglie ottimi testi rivolti a lettori adolescenti e li pubblica adottando la font EasyReading, una spaziatura maggiore tra le lettere e tra i macro-paragrafi (poco accentuata, invece, quella tra le righe), la sbandieratura a destra del testo e la stampa su carta opaca e color crema. Il lettore si trova così tra le mani un romanzo denso ma non spaventoso né nella mole né nella forma, capace di dilatare e accorciare il tempo con il potere del racconto e di confezionare con i soli eventi di una notte una storia che insieme appaga e fa desiderare di poter seguire i protagonisti ancora per un poco…

L’albero del riccio

Ne L’albero del riccio sono raccolte alcune delle lettere scritte da Antonio Gramsci ai suoi familiari, e ai suoi figli in particolar modo, durante gli anni di detenzione in carcere. Si tratta di lettere tenere e rigorose, in cui l’autore fa della scrittura un modo per mantenere saldo e vivo il legame con i suoi cari distanti e per non rinunciare al ruolo educativo di padre, benché impossibilitato a vedere crescere di persona i suoi figli.  Nelle lettere si alternano così racconti di vita quotidiana in carcere, aneddoti dell’infanzia, consigli, incoraggiamenti e ammonimenti, colmi di un senso della giustizia e del dovere che non soffocano l’affetto e la premura.

Nel corso dei circa 100 anni che ci separano dalla loro stesura, le lettere di Gramsci sono state pubblicato in molteplici versioni da editori differenti. A queste se ne aggiunge ora una del tutto nuova e capace di raggiungere pubblici prima trascurati. Si tratta della versione in simboli proposta da la meridiana all’interno della collana Parimenti. L’albero del riccio – titolo che richiama proprio una delle lettere in cui l’autore racconta un episodio curioso della sua infanzia in cui con un amico osservò una famiglia di ricci fare ingegnosamente scorte di mele – trova così una forma semplificata e più snella, che ne agevola la fruizione. Il testo presenta qui una forma orientata alla linearità e alla brevità e risulta supportato da simboli WLS che ne restituiscono visivamente il significato. Molto dettagliati, questi ultimi privilegiano la traduzione dei singoli elementi testuali (compresi pronomi, articoli, congiunzioni…) e sfruttano tutti i tipi di qualificatori (genere, tempo, numero…).

Ne risulta un testo che, nonostante la semplificazione formale, appare ricco e non banale, anche per i riferimenti al contesto storico in cui le lettere sono scritte. Quello che viene offerto al lettore è dunque un volume di peso che offre molteplici spunti di riflessione, approfondimento e lavoro soprattutto (ma non solo) nell’ottica di un lavoro in ambito scolastico.

Per mano

Per chi non bazzichi abitualmente il mondo dei tasti e delle note, il nome di Paul Wittgenstein può risultare poco o per nulla noto. La storia di questo pianista è, tuttavia, così straordinaria e avvincente che pare fatta apposta per finire in un libro. Così devono aver pensato anche Sante Bandirali e Gloria Tundo che le hanno dato rispettivamente parole e figure all’interno dell’albo illustrato Per mano, da poco uscito per i tipi di Uovonero.

Qui conosciamo Paul in tenera età, ritratto a Vienna all’interno della sua numerosa e ricca famiglia, con un padre dalle ristrette vedute, una madre dalla profonda sensibilità musicale e sette fratelli dai diversi talenti. Tra le mura domestiche, vediamo nascere ma anche rischiare di soffocare il suo amore per il pianoforte. Tra i banchi di scuola, invece, assistiamo ai primi confronti con una cultura che vede nell’essere mancini una sorta di disgrazia. Siamo alla fine dell’Ottocento e l’uso della mano sinistra – la “mano brutta” – che per Paul è predominante, è di fatto ancora osteggiato perché associato al demonio. Della mano sinistra di Paul, tuttavia, tutto si può dire tranne che sia sfortunata o spregevole: quando i combattimenti della prima guerra mondiale lo costringono a vedere amputato il braccio destro, infatti, Paul trova nell’altra la sua forza e la sua unicità.

Musicista di talento già prima dello scoppio delle ostilità, è nel campo di prigionia in cui viene rinchiuso che Paul inizia a esercitarsi a suonare con una mano sola dapprima su un pianoforte disegnato e poi su uno sgangherato. Ma la sua passione e il suo desiderio di esprimersi sono tali che, una volta liberato, quella musica sopita trova il modo di uscire per davvero. Paul convince, infatti, alcuni dei più grandi compositori a ideare dei concerti su misura per lui, dando avvio a un’incredibile carriera la cui forza risiede nel dare valore a quello che c’è in luogo che porre in rilievo ciò che semplicemente manca.

Sobrio nel racconto e accorato nelle figure, non a caso Per mano è narrato dal punto di vista della mano sinistra stessa, simbolo e testimone privilegiato non solo o non tanto delle discriminazioni subite quanto delle occasioni colte di farsi portatrice di bellezza e ricchezza. Tra queste pagine in cui in cui dominano i toni opachi bruni e beige, risuonano pagine dolorose della storia e si intrecciano guerra e musica, vita e pensiero, cultura e quotidianità, tracciando sentieri suggestivi da percorrere anche all’interno di un percorso squisitamente scolastico.

Nonna gnocchi

Confiance ha nove anni, un nome impegnativo, la battuta sempre pronta e un rapporto a ostacoli con i propri familiari. Il papà se n’è andato quando era piccolo, la mamma si occupa di lui da sola e come può e la nonna materna sembrerebbe volersi tenere il più possibile a distanza (un sentimento peraltro ricambiato dal bambino). Peccato che proprio con la nonna e con il suo nuovo fidanzato italiano Eustachio, Confiance sia costretto a trascorrere le vacanze estive. Senza troppo entusiasmo, i due lo portano con sé in un paesino vecchio e sperduto dell’entroterra ligure, completando le premesse per un’estate disastrosa. Eppure, complice la maestria culinaria di Eustachio e l’amicizia con la sua nipotina venuta in visita, Confiance sarà costretto a ricredersi e la sua visione dei rapporti umani, dell’amore, della famiglia – e perché no, della cucina – prenderà alla vigilia del suo decimo compleanno una piega tutta nuova.

Vivace, acuto e senza peli sulla lingua Nonna gnocchi si presenta come un racconto godibilissimo interamente costruito sui dialoghi. Se è vero, infatti, che questa struttura lo rende meno immediato, soprattutto perché le singole battute non sono esplicitamente attribuite, lo è altrettanto il fatto che le caratteristiche di alta leggibilità con cui è stampato, la peculiarità attraente dei personaggi che lo animano e il ritmo mai piatto che lo contraddistingue concorrono a supportare e incentivare la lettura, anche laddove questa proceda meno spedita.

Jun

Jun è un bambino autistico che nasce e cresce in Corea. La sua famiglia non ha pressoché idea di che cosa sia l’autismo e così, anche nel momento in cui arriva la diagnosi e tanti comportamenti inspiegabili del bambino trovano un minimo di spiegazione, reazioni e comportamenti rimangono comunque improntati a un tentativo di cura e guarigione. Ci vogliono anni in cui pazienza e sacrificio diventano parole d’ordine perché i genitori di Jun riescano a mettere davvero a fuoco quel loro figliolo così diverso dagli altri e trovino il modo di trasformare la sua stranezza in un dono. Jun ha, infatti, una spiccata propensione per la musica: ama i suoni, li coglie dove altri neppure li notano e li registra con grande precisione. Nel momento in cui fa musica, esibendosi in un genere tradizionale complesso come il pansori e componendo canzoni originali, la sua disabilità diventa impalpabile come il suono del vento che tanto lo affascina.

A raccontarci la storia di Jun è sua sorella Yunseon. La sua voce è lucida e viva, capace di dare voce senza cedere al sentimentalismo, a un amore viscerale e una quotidianità faticosa. Costantemente combattuta, come spesso accade, tra il desiderio di prendersi cura del fratello e la sensazione di essere sempre in secondo piano nelle priorità familiari, Yunseon prova con tutte le sue forze a riconoscere in Jun il ragazzo prima del disabile. L’apparente rudezza che talvolta contraddistingue i suoi atteggiamenti nei confronti del fratello è frutto di questo sforzo e spesso si contrappone alla premura totalizzante e ansiosa della mamma. Due modi di amare, due modi di prendersi cura. Grazie e entrambi, Jun trova pian piano la sua strada e il modo di valorizzare il suo talento, rendendo chiaro a chi gli è caro così come a chi legge l’inutilità di ogni tentativo di aggiustamento dell’autismo.

Il libro di Keum Suk Gendry-Kim è ispirato a una storia reale. Jun esiste, infatti, davvero: lui e l’autrice si sono conosciuti proprio al corso di Pansori di cui si parla nel libro. Reduce da diversi anni all’estero, la fumettista racconta di essere rimasta molto colpita da quel ragazzo così talentuoso e solitario, riconoscendosi in parte nella sensazione di estraneità totale dal mondo che pareva animarlo. Proprio quella sensazione emerge chiara e forte dalle tavole in bianco e nero del libro. Di grande impatto e al contempo di grande sobrietà, queste sfruttano a pieno il linguaggio del fumetto per rendere visibile ciò che forse dicibile non è, per dare voce a sentimenti complessi che nella sola parola faticano forse a dirsi e a farsi leggere.

Perché noi no?

Dura la vita da fratelli minori! Poche foto negli album di famiglia, esclusione sistematica dai giochi più belli, parti marginali negli spettacoli da giardino e nomignoli appioppati con irritante nonchalance… qualcosa bisognerà pur fare! Ecco allora che nasce l’Associazione “Perché noi no?”: un circolo segretissimo formato esclusivamente dai figli più piccoli anche detti ultimi geniti, al fine di organizzare azioni di disturbo a danno dei più grandi. E così la giovane protagonista e i suoi sodali si lanciano in spericolate missioni di bucaggio gomme, nascondimento thermos, dispersione palloni. Fino a quando qualcosa va storto, le informazioni trapelano e la banda dei piccoli vendicatori viene scoperta. Servirà un “grande” aiuto per cacciarsi fuori dai guai!

Smilzo, divertente e imperdibile per chiunque abbia sperimentato la sorte del bistrattato fratello minore, Perché noi no? si fa leggere con piacere. Lo stile pungente, l’avventura breve, la narrazione piana e le illustrazioni frequenti lo rendono appetibile anche per i lettori meno esperti o che più fanno a pugni con la parola scritta. A questo concorrono inoltre le caratteristiche di alta leggibilità puntualmente adottate dall’editore con attenzione non solo al font e alla sbandieratura ma anche alla spaziatura tra lettere, parole, righe e soprattutto paragrafi: aspetto questo che conferisce alla pagina una veste particolarmente ariosa e accessibile.

Uno e Camillo

Uno e Camillo fa parte della collana leggimi prima che Sinnos dedica alle prime letture autonome e che si caratterizza per illustrazioni frequenti, storie snelle, testi brevi in maiuscolo, grafica ariosa ad alta leggibilità.

Il libro di Giuditta Campello e Susanna Rumiz balza prima di tutto all’occhio per una copertina sgargiante e per i buffi disegni dal tratto spesso. Qui compaiono un cavallo occhialuto piuttosto arrabbiato che porta in spalla un unicorno dall’aria angelica. Il primo è Camillo, che ama dormire vicino alla sua mamma, mangiare le carote per merenda e giocare con i suoi amici. Il secondo è Uno, il suo fratellino da poco arrivato in famiglia. Così diverso da lui e da come lui se lo aspettava, Uno ha stravolto le giornate di Camillo, rubando molte attenzioni della mamma, accaparrandosi molte carote e condizionando molto i giochi con gli amici. Quasi quasi Camillo vorrebbe sbarazzarsene, ma proprio quando il suo desiderio più segreto sembra realizzarsi, il cavallo scopre quanto possa essere bello e utile avere un fratello. Anche se piccolo e con un corno dorato in testa!

Scorrevole e irresistibilmente vero nei delicati equilibri familiari che porta alla luce, Uno e Camillo racconta la fratellanza senza il peso dei libri a tema e con la leggerezza di uno stile divertito e divertente. Come se non bastasse, le autrici e l’editore fanno la scelta coraggiosa e apprezzabilissima di dedicare un libro in cui rosa, fuxia e unicorni la fanno da padroni, senza rivolgersi esclusivamente alle bambine, anzi!

La più bella nuotata della mia vita

A tredici anni, dislessia, trasloco e impaccio non sono esattamente tre parole entusiasmanti. Tutte implicano la difficoltà di superare indugi, di sentirsi giudicati, di riuscire a farsi conoscere per come si è davvero. E tutte, purtroppo, affollano il presente di Jan, ragazzino timido e dislessico, da poco trasferitosi in una nuova cittadina. La sua testa è piena di preoccupazioni e interrogativi su come farsi benvolere dai nuovi compagni, su come tenere nascosta la sua difficoltà di apprendimento e su come trovare un posto nella nuova squadra di nuoto. Già, il nuoto. Per fortuna che c’è il nuoto.

Vero asso del dorso, in acqua Jan si trasforma e tira fuori una spavalderia che all’asciutto gli è pressoché sconosciuta e se questo, da un lato, gli crea un’immediata rivalità con l’arrogante Linus, dall’altro sarà per lui motivo di orgoglio e riscatto, anche nella goffa impresa di avvicinarsi all’affascinante Flo. Originale, schietta e appassionata di matematica, Flo è la nuova vicina di casa di Jan, conosciuta grazie a una galeotta gallina fuggitiva. Con lei il ragazzo instaura in maniera turbolenta un legame forte e intenso, in cui diventa via via più evidente come nella differenza più abissale possa nascondersi una possibilità felice e del tutto inaspettata di intesa e riconoscimento .

Costellato di tante questioni che stanno a cuore del potenziale lettore preadolescente – l’amicizia, i primi amori, le rivalità, le passioni, la scuola, le difficoltà, il rapporto con i genitori, solo per dirne alcune – il romanzo di Anne Becker fila piuttosto liscio e aiuta a mettere a fuoco alcuni aspetti importanti per chiunque, a vario titolo, si confronti con la dislessia. Oltre a Jan, che più e più volte mette in luce ostacoli e preoccupazioni legati alla sua difficoltà di apprendimento, ne La più bella nuotata della mia vita non mancano, infatti, genitori, insegnanti, terapeuti, oltre che pari, i cui diversi approcci al disturbo dell’apprendimento non sono privi di effetti sullo sviluppo della vicenda. Ne vien fuori un ritratto realistico e credibile della situazione vissuta da un ragazzino dislessico, il cui percorso diventa più luminoso e piano quando consapevolezza e ascolto si fanno parole chiave.

Beezus e Ramona. Ramona la peste

Come si fa a restare impassibili di fronte a un uragano come Ramona? Quattro anni e un caratterino niente male, la protagonista della serie creata da Beverly Cleary è un concentrato di vivacità e testardaggine che non teme rivali. Che sia a casa, a scuola o per strada, si può star certi che con Ramona nei dintorni, qualcosa di del tutto imprevisto, perlopiù disastroso ma indiscutibilmente divertente (quantomeno per chi legge, un po’ meno per chi a Ramona vive accanto) si prepara ad accadere. Può essere un libro della biblioteca completamente scarabocchiato, una cassa di mele mordicchiate a una a una, un’avventura fangosa con gli stivali nuovi di zecca o una festa casalinga organizzata senza avvisare nessuno in famiglia.

Ramona è così: spontanea, incontenibile e irresistibilmente schietta. I suoi pensieri, di cui l’autrice ci mette puntualmente a parte, seguono una logica originale ma ferrea e le sue iniziative tengono costantemente il lettore sospeso tra la risata e lo sconcerto. “Oh, no, Ramona!”, viene automatico esclamare una pagina sì e l’altra pure, e in fondo questo è più o meno ciò che pensa la sorella maggiore di Ramona – Beatrice detta Beezus – a ogni piè sospinto. E ciononostante la carica travolgente di Ramona vince su tutto, generando nel lettore non solo una forte curiosità nei confronti dei guai che di volta in volta la bambina potrà combinare ma anche un forte riconoscimento dei sentimenti strabordanti di cui si fa portatrice e che spesso, nel loro impeto, sono all’origine dei suoi comportamenti all’apparenza più esagerati o sconvenienti. “Chi la chiamava peste – si legge, per esempio, nel secondo volume delle serie – non capiva che una persona più piccola a volte deve fare un po’ di chiasso ed essere un po’ testarda per essere almeno notata”.

I libri di Beverly Cleary hanno dallo loro anche questo pregio: non solo sanno divertire profondamente il lettore di qualsiasi età ma sanno anche guardare alle azioni, ai pensieri e alle emozioni dei bambini con grande rispetto e lucidità, portando a galla e restituendo dignità anche a sentimenti dalle tinte chiaroscure, come l’insofferenza nei confronti della sorella che tormenta Beezus nel primo volume, e delineando un profilo d’infanzia che è certo fuori dalle righe ma anche molto ma molto vero.

La serie di cui Ramona e Beezus sono protagoniste si compone di diversi volumi, ciascuno dei quali comprende una manciata di avventure brevi, buffe e intensissime, della lunghezza di un capitolo.

Il secondo volume – Ramona la peste. A scuola arrivano i guai – ruota intorno all’inizio dell’avventura scolastica di Ramona presso il Kindergarten della città. Qui la bambina dovrà confrontarsi con la vita di comunità, con le regole del contesto scolastico, con adulti di riferimento diversi da quelli cui è abituata. La tradizionale parata di Halloween, la caduta del primo dentino, il desiderio di fare una presentazione in classe, l’acquisto di un paio di stivaletti nuovi e l’arrivo di una supplente sono solo alcuni dei fatti straordinari che scatenano, qui, la sua capacità unica di mettersi nei guai.

La deliziosa serie scritta da Beverly Cleary è portata in Italia da Il barbagianni, con la briosa traduzione di Susanna Mattiangeli, a oltre cinquant’anni dalla sua prima pubblicazione in America. Vietato farsi ingannare dall’età del libro, però: la vitalità e l’autenticità di Ramona ne fanno un personaggio senza tempo che incarna perfettamente l’indomito e ostinato spirito dell’infanzia e le cui avventure hanno un ritmo irresistibile. Rimarcabile, poi, il fatto che l’editore abbia scelto di pubblicare i volumi della serie con caratteristiche di alta leggibilità, come la spaziatura maggiore, il testo non giustificato e la font EasyRedading, che ne facilitano la fruizione anche da parte di lettori dislessici.

Ramona-la-peste

Beezus e Ramona. Questa sorellina è impossibile

Come si fa a restare impassibili di fronte a un uragano come Ramona? Quattro anni e un caratterino niente male, la protagonista della serie creata da Beverly Cleary è un concentrato di vivacità e testardaggine che non teme rivali. Che sia a casa, a scuola o per strada, si può star certi che con Ramona nei dintorni, qualcosa di del tutto imprevisto, perlopiù disastroso ma indiscutibilmente divertente (quantomeno per chi legge, un po’ meno per chi a Ramona vive accanto) si prepara ad accadere. Può essere un libro della biblioteca completamente scarabocchiato, una cassa di mele mordicchiate a una a una, un’avventura fangosa con gli stivali nuovi di zecca o una festa casalinga organizzata senza avvisare nessuno in famiglia.

Ramona è così: spontanea, incontenibile e irresistibilmente schietta. I suoi pensieri, di cui l’autrice ci mette puntualmente a parte, seguono una logica originale ma ferrea e le sue iniziative tengono costantemente il lettore sospeso tra la risata e lo sconcerto. “Oh, no, Ramona!”, viene automatico esclamare una pagina sì e l’altra pure, e in fondo questo è più o meno ciò che pensa la sorella maggiore di Ramona – Beatrice detta Beezus – a ogni piè sospinto. E ciononostante la carica travolgente di Ramona vince su tutto, generando nel lettore non solo una forte curiosità nei confronti dei guai che di volta in volta la bambina potrà combinare ma anche un forte riconoscimento dei sentimenti strabordanti di cui si fa portatrice e che spesso, nel loro impeto, sono all’origine dei suoi comportamenti all’apparenza più esagerati o sconvenienti. “Chi la chiamava peste – si legge, per esempio, nel secondo volume delle serie – non capiva che una persona più piccola a volte deve fare un po’ di chiasso ed essere un po’ testarda per essere almeno notata”.

I libri di Beverly Cleary hanno dallo loro anche questo pregio: non solo sanno divertire profondamente il lettore di qualsiasi età ma sanno anche guardare alle azioni, ai pensieri e alle emozioni dei bambini con grande rispetto e lucidità, portando a galla e restituendo dignità anche a sentimenti dalle tinte chiaroscure, come l’insofferenza nei confronti della sorella che tormenta Beezus nel primo volume, e delineando un profilo d’infanzia che è certo fuori dalle righe ma anche molto ma molto vero.

La serie di cui Ramona e Beezus sono protagoniste si compone di diversi volumi, ciascuno dei quali comprende una manciata di avventure brevi, buffe e intensissime, della lunghezza di un capitolo.

Il primo volume – Beezus e Ramona. Questa sorellina è impossibile – mette in particolare in primo piano il complicato rapporto che lega le due sorelle, alla luce delle marachelle che la piccola inanella e del tormento che in casa è capace di generare. Ci sono di mezzo un ramarro immaginario, giri per il salotto a bordo di un triciclo a suon di armonica, cani sequestrati in bagno, parate musicali di ospiti inattesi, biscotti ripieni di vermi e torte di compleanno rovinate non una ma ben due volte: quanto basta per mettere alla prova anche la sorella maggiore più paziente e rendere evidente che la sopportazione può subire degli alti e bassi senza che l’affetto venga meno.

La deliziosa serie scritta da Beverly Cleary è portata in Italia da Il barbagianni, con la briosa traduzione di Susanna Mattiangeli, a oltre cinquant’anni dalla sua prima pubblicazione in America. Vietato farsi ingannare dall’età del libro, però: la vitalità e l’autenticità di Ramona ne fanno un personaggio senza tempo che incarna perfettamente l’indomito e ostinato spirito dell’infanzia e le cui avventure hanno un ritmo irresistibile. Rimarcabile, poi, il fatto che l’editore abbia scelto di pubblicare i volumi della serie con caratteristiche di alta leggibilità, come la spaziatura maggiore, il testo non giustificato e la font EasyRedading, che ne facilitano la fruizione anche da parte di lettori dislessici.

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Riflettiamoci

Un piccolo di rinoceronte e una piccola di giraffa, rimasti entrambi orfani a causa dei bracconieri e di un incendio, sono i protagonisti di questo albo senza parole firmato da Gek Tessaro e nato in collaborazione con la Cooperativa Sociale Famiglia Nuova. Le loro storie sono sì diverse ma molto prossime, al punto che dopo un lungo e smarrito vagare, i due animali giungono ai bordi della medesima pozza d’acqua e si guardano fissi negli occhi come riconoscendosi.

Si riflettono, il rinoceronte e la giraffa, sulla superficie trasparente della pozza ma soprattutto l’uno nell’altra, ché i sentimenti, amari e gioiosi che siano, ci fanno vicini come poche altre cose al mondo. E allora quel titolo – Riflettiamoci – diventa anche un invito a noi lettori a far germogliare un racconto per immagini doloroso ma con un tocco di ottimismo, lasciandogli il tempo e lo spazio per animare pensieri ed emozioni.

Vincitore del premio Andersen 2022 come miglior libro senza parole, Riflettiamoci offre una storia intensa, che lo stile inconfondibile e graffiante di Gek Tessaro rende particolarmente toccante. L’autore suggerisce ciò che accade con poche e accese illustrazioni in cui si condensa un mondo di fatti e sentimenti. Grande è il lavoro di interpretazione e inferenza lasciato, in questo senso, al lettore, al quale si chiedono abilità di lettura e decodifica delle immagini (e dei vuoti che tra di esse emergono) non proprio basilari. Il libro vanta infine un formato ampio che valorizza le suggestive tavole dell’autore la cui veste affascinante stride solo un po’ con la presenza di proposte operative poste al termine della storia.

La ricetta della strafelicità

Impacciato e pasticcione, Michele non sembra esattamente il tipo da brillare in cucina. Torte e arrosti richiedono, in effetti, precisione e accuratezza. Ma si può dire lo stesso della felicità? Per cucinar quest’ultima servono più che altro ingredienti speciali, ingredienti che profumano di emozioni e ricordi, di sogni e giornate indimenticabili: parola di nonna Isa, che della strafelicità possiede la ricetta esclusiva e segretissima. Con lei Michele trascorre le giornate più felici e per questo, quando la nonna viene a mancare, lo smarrimento del ragazzo è massimo. Si sente sperduto e assediato, Michele, di fronte a quella perdita inattesa. E in quel momento così delicato, in cui presenza e assenza fanno un passaggio di testimone e in cui Michele da ragazzo si ritrova uomo, sarà proprio la ricetta esclusiva e segretissima della nonna a venirgli in aiuto.

Delicatissimo e impastato di metafore saporite, La ricetta della strafelicità mette insieme un testo e delle illustrazioni accomunati da una leggerezza impalpabile. La densità delle emozioni trattate trova infatti uno slancio inatteso nelle parole accorte e sensibili di Matteo Razzini e nelle illustrazioni sottili di Alessandro Ferraro. Tratteggiate, sospese e animate da uno spirito surreale che centra a pieno il tono del testo, queste ultime moltiplicano i significati e fanno del libro edito da Corsiero un albo che non pretende scioccamente di recintare temi complessi come quelli della morte, dei ricordi e dei sentimenti ma sceglie invece con intelligenza di dare loro respiro e multisfaccettatura.

Edito in forma tradizionale prima di diventare un inbook, La ricetta della strafelicità sceglie sentieri narrativi poco battuti rinunciando a tutta una serie di caratteristiche che abitualmente contraddistinguono i libri in simboli. La sovrapposizione tra dimensione reale e dimensione fantastica, il forte valore simbolico della storia, il consistente uso di metafore e la presenza di illustrazioni surreali in linea con il tono del racconto rappresentano infatti scelte compositive e stilistiche poco praticate nell’ambito dei volumi in CAA perché implicano maggiori sforzi di astrazione e un tipo di decodifica che van ben oltre la semplice comprensione delle parole.

E questo, se da un lato costituisce una sfida altissima per lettori con difficoltà comunicative che vogliano e possano cimentarsi con una lettura più complessa e insolita, dall’altro lancia un messaggio molto forte rispetto alla possibilità che i libri in simboli possano rappresentare una lettura che non riguarda necessariamente solo chi abitualmente impiega la CAA. L’inbook de La ricetta della strafelicità di dice insomma che i simboli possono raccontare tanti tipi di storie e che le storie in simboli possono incontrare tanti tipi di lettori.

Sei uno spettacolo nonno

A Marco piace stare con il nonno ma il fatto che debba trascorrere con lui tutti i pomeriggi non gli va esattamente a genio. Sono i suoi genitori, piuttosto assenti per motivi di lavoro, a obbligarlo perché così né lui né il nonno restano soli in loro assenza.

Il nonno, però, conosce bene suo nipote e non gli sfugge il malessere che lo anima. Così, trovato un momento tranquillo, Marco gli confida il suo disagio e il desiderio di dedicarsi anche ad altre attività, come l’agognato corso di teatro. Come fare a conciliare le aspirazioni da attore con le imposizioni genitoriali? Ci pensa il nonno a trovare una soluzione tanto bislacca quanto funzionale.

Sei uno spettacolo nonno presenta una storia piuttosto piana, priva di grandi avvenimenti, e concentrata perlopiù sui sentimenti e le relazioni e sulla loro multisfaccettatura. Al centro, l’autrice pone infatti i dialoghi tra nonno e nipote che condividono sogni, emozioni e progetti.

Contraddistinto da un testo non proprio minimo, essenziale e lineare così come da un’impaginazione piuttosto fitta, il libro edito da Storie Cucite si presta a una lettura godibile da parte di bambini non proprio alle prime armi e che presentino una certa dimestichezza con i simboli. Questi ultimi, scelti all’interno nella collezione WLS, sono proposti e combinati secondo le norme del modello in-book, quindi con testo minuscolo e interno al riquadro, elementi simbolizzati individualmente, presenza di qualificatori di numero e genere.

Le illustrazioni, dal canto loro, presentano uno stile pulito e delicato, che ben si sposa alla tematica e al tono del testo.

L’aquilone di Noah

Imperturbabile, chiuso nel suo silenzio e all’apparenza interessato, visceralmente interessato, solo a far volare il suo aquilone, Noah non ha vita facile. Non ce l’ha perché il periodo storico in cui vive – siamo a Cracovia nel bel mezzo della seconda guerra mondiale – non ammette tenerezza nei confronti di chi come lui è ebreo e ignora le tante norme via via più restrittive imposte dal nazismo. Ma non ce l’ha anche perché la famiglia che gli capita in sorte è tutto fuorché accogliente e capace di far spazio a un bambino atipico come lui.

Con una madre e una sorella del tutto anaffettive e preoccupate solo di sé stesse, un padre pavido e frustrato che dedica ogni sua attenzione agli orologi della sua bottega, Noah può fare affidamento solo su Joel, suo fratello maggiore, che da sempre di lui si prende cura. Per Joel, fare in modo che al piccolo Noah non accada nulla di male e che il suo aquilone possa continuare a volare è una sorta di missione, di compito autoassunto che intende portare a compimento costi quel che costi. Anche quando la vita nel ghetto si fa durissima, quando la famiglia Baumann è costretta a cambiare dimora e a dividere uno striminzito appartamento con degli sconosciuti, quando iniziano i rastrellamenti e quando anche una cosa banale come il volo di un aquilone può diventare motivo per trovare una morte violenta. E così, al fianco di questo scricciolo silenzioso e del gigante buono che lo accompagna, il lettore si inoltra tra le pieghe della storia, attraverso le diverse tappe che hanno dato forma all’orrore dell’Olocausto e da cui gli stessi protagonisti non sono lasciati indenni.

Intorno a loro, lungo un racconto in cui trovano spazi amori e sodalizi fraterni, tradimenti e imprevista compassione, crudeltà e generosità, si muove un’umanità palpabile e variegata che rende le categorie dei buoni e dei cattivi piuttosto labili e sfumate, un catalogo vivo di figure e caratteri animati dai sentimenti più diversi, dai più infimi ai più elevati. Tra queste pagine in cui la storia entra con prepotenza e senza remore, anche nei suoi episodi più duri, il lettore vede sfiorarsi o incrociarsi i percorsi di persone che paiono agli antipodi le une dalle altre, che mettono fortemente in discussione l’idea classica di famiglia, che in un nonnulla arrivano vicinissime alla redenzione come alla disperazione. I loro destini fragili fanno i conti con una pagina di storia vergognosa e immonda che la penna di Salmerón ha il merito di tradurre nella quotidianità di individui veri – adulti, anziani e bambini – rendendola così meno distante e impenetrabile.

Hank Zipzer. Un viaggio da vomito

Di fronte alla prospettiva di un campionato di cruciverba, le reazioni del giovane Hank Zipzer e di suo papà non potrebbero essere più diverse: l‘entusiasmo del secondo risulta infatti, per il primo, totalmente incomprensibile. Che Hank e le parole non vadano proprio d’accordo lo sappiamo ormai bene, in effetti. Protagonista di una fortunata serie edita da Uovonero, Hank fa infatti quotidianamente i conti con le sue difficoltà di lettura e scrittura che sono spesso fonte di guai inattesi e soluzioni creative. E anche in questo nuovo volume – ça va sans dire – inconvenienti e avventure non mancano, complici un lungo viaggio di famiglia e un grosso pacco di compiti che la signorina Adolf riserva al protagonista per le vacanze invernali.

L’intera famiglia Zipzer, accompagnata da Frankie, l’amico del cuore di Hank, e da Katherine, l’iguana domestica della sorella, parte infatti alla volta di Charlotte, dove si tiene il Campionato Nazionale di Cruciverba tanto agognato da papà Zipzer. Ogni partecipante al viaggio può scegliere una meta sul percorso, ma i patti sono chiari: Hank potrà andare sulle mirabolanti montagne russe del Colossus Coaster Kingdom solo se avrà finito i compiti assegnatigli dalla signorina Adolf. Le buone intenzioni del ragazzo non si discutono, sono purtroppo i fatti a lasciare a desiderare. E tra distrazioni davvero irresistibili, pisolini non previsti e quel grande grandissimo intoppo del pacco di compiti dimenticato per strada proprio all’inizio del viaggio, venire a capo dell’impresa sarà più facile a dirsi che a farsi. Ma non tutti i mali vengono per nuocere: là dove non arrivano le montagne russe, ci pensa il campionato di cruciverba a rendere il viaggio davvero indimenticabile!

Divertente e disseminato di colpi di scena, Hank Zipzer. Un viaggio da vomito ci regala, nell’improbabilità delle avventure messe in scena, un ritratto efficace e fedele delle reazioni che letture, operazioni e compiti vari possono generare in chi come Hank riscontra in numeri e parole un autentico ostacolo. Distrazioni, repulsione, evasione: il campionario delle risposte, più o meno consapevoli, che Hank mette in atto di fronte al pacco che la signorina Adolf gli appioppa come fosse una ricetta miracolosa, la dice infatti lunga su quanto utile sarebbe una didattica più attenta alle esigenze dei singoli ragazzi. Stampato come di consueto con caratteristiche di alta leggibilità, Hank Zipzer. Un viaggio da vomito offre una lettura piacevole, leggera e amichevole non solo nei contenuti ma anche nell’aspetto.

… E questa pancia?

Per un bambino piccolo, la gravidanza è qualcosa di misteriosamente intrigante. Come mai la pancia della mamma cresce? Cosa si nasconde là dentro? E perché dentro casa iniziano a farsi spazio alcuni oggetti indecifrabili?

Patricia Martin e Rocio Bonilla interpretano questi interrogativi tanto comuni quando un fratellino è in arrivo, con un cartonato senza parole dal tono leggero. Il protagonista, di cui si apprezzano sguardi sorpresi, dubbiosi e talvolta sospettosi, viene rappresentato negli spazi di casa mentre osserva attento i piccoli cambiamenti che, in una quotidianità immutata, iniziano a prendere piede. La vasta gamma di sentimenti provati e rappresentati lascia infine spazio a una giocosa complicità con il nuovo venuto, in un lieto fine che rassicura e fa sorridere.

Come A nanna!, altro titolo della stessa coppia autoriale pubblicato in formato analogo e all’interno della stessa collana, … E questa pancia? vanta illustrazioni pulite e prive di dettagli superflui e una spiccata attenzione alla quotidianità vissuta dai potenziali lettori. Questo volume presenta, però, una storia un pochino più articolata che comprende alcuni passaggi non banali. Il libro si presta dunque  a essere condiviso e apprezzato soprattutto da piccoli lettori che stiano personalmente vivendo l’arrivo di un bebè in famiglia e che condividano con il protagonista dubbi, domande e curiosità.

La relativa neutralità delle illustrazioni e l’assenza di testo agevola, in questo senso, l’uso del libro come strumento per spiegare un avvenimento che a piccoli occhi può apparire complesso ed enigmatico, trovando parole che si aggancino con precisione all’esperienza reale del singolo bambino.

Due piccoli orsi

La monelleria è probabilmente qualità imprescindibile di ogni cucciolo, qualunque sia la sua specie di appartenenza. Al pari di due piccoli d’uomo, i due orsetti protagonisti dell’albo di Ylla fanno infatti appena in tempo ad ascoltare le raccomandazioni di mamma orsa che già si lanciano per i prati, allontanandosi dalla tana in cui sono appena nati. Come resistere d’altronde? Ci sono capriole da fare, fiori da annusare, foglie da rosicchiare, boschi in cui inoltrarsi. E così, quando i due orsi iniziano a sentire la mancanza della mamma, la strada che li separa da casa è ormai irriconoscibile. Nessuno degli animali sconosciuti incontrati per caso, d’altro canto, sembra poterli aiutare: né, il vitello, né il cavallo, né tantomeno il piccolo pulcino. Sarà inaspettatamente la burbera cornacchia a dar loro un aiuto determinante per ricongiungersi alla mamma. Un lieto fine, questo, che ha tutto il sapore di un preludio a una nuova insospettabile marachella!

Due piccoli orsi unisce un testo lineare e senza troppi orpelli a immagini fotografiche in bianco e nero di grande intensità. Ylla è stata infatti una straordinaria fotografa, con una speciale e specifica passione per gli scatti dedicati agli animali. Capace di coglierli con grande naturalezza in momenti di gioco, relazione e interazione con il contesto naturale, l’artista di origini croate aveva uno spiccato talento per immortalare gesti ed espressioni in cui l’umano potesse in qualche modo riconoscersi e per collocarli all’interno di una narrazione compiuta e coinvolgente. Ecco allora che i suoi lavori, di cui I due orsi sono un esempio significativo che speriamo non resti isolato, continuano a offrire occasioni di lettura insieme spiazzanti e rassicuranti.

Due piccoli orsi è infatti un albo con quasi settant’anni sulle spalle ma che porta una straordinaria ventata di novità nel panorama editoriale italiano. La scelta di Ylla di unire al testo delle immagini fotografiche è infatti assolutamente insolita in un settore come quello della non-fiction che, almeno nel nostro paese, si tiene ben saldo a modelli di illustrazione consolidati e riconosciuti come familiari dal pubblico. E proprio questa inconsueta soluzione apre non solo nuove e intriganti possibilità narrative ma anche a nuove e preziose possibilità di accesso alla lettura. La presenza di immagini che, pur non lesinando sulla componente espressiva, prediligono un medium aderente al reale come la fotografia, fa sì che il racconto nella sua componente iconica risulti di più agevole fruizione anche da parte di quei bambini che hanno difficoltà di astrazione e di decodifica di illustrazioni troppo confusive o distanti dall’esperienza reale. Ecco allora che un tipo di immagine finora impiegata quasi esclusivamente (e comunque sempre in minima quantità) all’interno di imagier o libri semplicissimi per la prima infanzia, assume qui un ruolo del tutto nuovo, per accompagnare un racconto ben più strutturato e contribuire a comporre un volume ben più corposo. Perché fruibilità del mezzo non significa necessariamente semplicità del contenuto. E gli orsi di Ylla ne sono una chiara e bellissima prova.

Insalata mista

Essere adolescenti è difficile per chiunque, esserlo in un contesto che di punto in bianco cambia, senza conoscere nessuno e dovendo ricostruirsi una vita da zero lo è ancora di più. Per questo, di fronte all’idea di trasferirsi con la famiglia da Parigi al villaggio di Morjac in Ardèche, la giovane Margotte non fa esattamente i salti di gioia. Anzi, lei che tende per indole a parlare poco e pensare molto, è a dir poco travolta dagli interrogativi, dalle rimostranze e dalle preoccupazioni.

Queste ultime si rivelano, d’altronde, tutt’altro che infondate: una volta arrivata nella sua nuova sperduta casa, Margotte si trova circondata da strade poco piacevoli per chi come lei soffra il mal d’auto, chili di mele cotogne da pelare, poche persone con cui legare, un dialetto strano con cui fare i conti e una coetanea tutt’altro che amichevole con cui incrociarsi ogni santo giorno. Come si sopravvive in queste condizioni? Con tanta forza di volontà e qualche incontro folgorante, come quello con il giovane Théo che abita lì accanto e incanta alla vista con i suoi rasta biondi e il suo sorriso smagliante. Anche – o forse proprio – grazie a lui, Margotte trova il coraggio di provare ad affrontare la nuova vita rurale con un’intraprendenza diversa: un inizio mica male per scoprirsi meno allergica del previsto alle persone e per scoprire sulla propria pelle quanto il senso di comunità possa fare la differenza nella situazioni di difficoltà.

Con una voce adorabilmente cinica, Margotte ci accompagna all’interno di una storia che non manca di emozioni, suspense e un piccolo mistero. Qui si alterna e combina una sfilza di personaggi gustosamente caratterizzati – dalla mamma in preda a una conversione al bio alla sorellina a cui nessuno resiste, dalla giovane Justine tutta piercing e sfide al mondo all’enigmatico abitante numero 17 del  piccolo villaggio – che rendono la narrazione vivacissima e mai piatta.

Insalata mista è un libro dallo stile ricco, in cui le parole ricercate e le espressioni insolite non mancano soprattutto per bocca della protagonista Margotte, i cui pensieri sono acuti anche nella forma, e degli abitanti di Morjac, il cui dialetto trapassa sulla pagina per un maggiore realismo. A questo aspetto, che potrebbe scoraggiare i lettori meno forti, fa da contraltare una costruzione narrativa avvincente e un racconto che aderisce come una ventosa al mondo degli adolescenti. Il libro tira dunque il lettore dentro una storia capace di appagare e offrire interessanti possibilità di rispecchiamento. A rendere il tutto più amichevole anche nei confronti di chi sperimenta maggiori difficoltà di lettura concorre poi la scelta di Camelozampa di stampare il volume con alcune caratteristiche di alta leggibilità come il font EasyReading e una spaziatura più ampia: le stesse già adottate per un altro gustoso romanzo di Gaia Guasti uscito qualche anno fa e intitolato Maionese, ketchup e latte di soia.

Lo zainetto di Matilde

Quello trascorso insieme ai nonni è spesso un tempo speciale. È un tempo lento, prima di tutto, ed è un tempo totalmente gratuito e votato al piacere di fare e stare insieme. Quando il nonno va a prendere Matilde a scuola, per esempio, davanti a loro si parano pomeriggi interi al parco, in giro per la città, a gustare merende, a cucinare biscotti e a disegnare su grandi fogli bianchi. Non ci sono rincorse, scadenze o incastri di impegni: ci si può attardare a coccolare un cane per strada o a osservare un uccello sui rami, si può fare un pisolino e ci si può rilassare, ciascuno a suo modo, condividendo uno spazio che sa di cura e di tenerezza. Certo, quando mamma e papà escono da lavoro e arriva il momento di tornare a casa, è dura. Chi avrebbe voglia di dire “Arrivederci” a una compagnia così piacevole? E così Matilde si nasconde, tiene il muso, punta i piedi… per fortuna c’è il nonno che, con una sorpresa inattesa, sa addolcire il rientro a casa con piccoli ricordi di un tempo davvero felice.

Vincitore del Silent Book Contest 2021, Lo zainetto di Matilde è frutto di un lavoro a sei mani che ha visto impegnati due autori e un illustratore. Contraddistinto da colori accesi e figure minime, quasi abbozzate, il libro senza parole di Fabio Sardo, Silvia Del Francia e Luca Cognolato racconta una quotidianità autentica e dà risalto ai sentimenti attraverso gesti e azioni di grande complicità. L’affetto che lega Matilde e il nonno salta fuori con forza dalle pagine, senza che alcuna parola scritta si renda necessaria. Il racconto per immagini procede così lineare e liscio dettando un tempo ben scandito e riconoscibile dal lettore. I pochi e significativi dettagli inseriti in ogni quadro rendono dal canto loro abbastanza agevole seguire e decifrare la vicenda: compito, questo, supportato dalla scelta efficace di sfruttare le luci – di lampade, lampadari e lampioni – per mettere di volta in volta in evidenza gli elementi chiave del racconto.

La compagnia degli animali estinti

In un periodo storico in cui il tema dei cambiamenti climatici e della tutela dell’ambiente si fa sempre più urgente, un libro come La compagnia degli animali estinti lancia un monito importante e al tempo stesso omaggia il coraggio delle nuove generazioni, senz’altro più attente al rispetto del pianeta di quanto non lo siano quelle precedenti. Lo fa attraverso una storia avvincente in cui si mescolano realtà e sogno, enigmi e crucci familiari, vicende individuali e questioni di interesse collettivo.

Protagonista è Lucia, che alla soglia del suo nono compleanno riceve dal padre, lontano per lavoro, una misteriosa collana con dei pendenti a forma di animali. Apparentemente casuali, questi ultimi si rivelano in realtà scelti in base al comune e triste destino legato all’estinzione e i pendenti che li raffigurano mostrano presto dei poteri insoliti. Guidata da loro, in compagnia del fratello Tommaso e dell’amica Alessia, Lucia si lancia in una frenetica indagine che la porterà a cercare indizi, risolvere rompicapo e sfuggire a creature minacciose, nel tentativo di venire a capo della misteriosa e improvvisa scomparsa dalla terra di ogni creatura animale. La sua tenacia e il gioco di squadra con i suoi compagni di avventura saranno premiati con un’inattesa sorpresa ma anche con la solida consapevolezza che la salvaguardia dell’ambiente dipende delle nostre azioni più di quanto possiamo aspettarci.

Scorrevole e avventuroso, La compagnia degli animali estinti offre una lettura da cui farsi catturare. Forte di questa piacevolezza, oltre che delle apprezzabili caratteristiche di alta leggibilità e della presenza di fumetti che con regolarità si alternano al testo, riassumendone gli eventi salienti, il libro di Chiara Valentina Segré può rappresentare una proposta interessante e stimolante anche per giovani lettori che trovano difficoltà nei testi tradizionalmente stampati.

Tariq

Che brava, Alice Keller, con quella sua scrittura che ti prende allo stomaco e te lo stropiccia come fosse di tessuto. Quando accosta la penna agli adolescenti, sembra sappia captare i loro pensieri, anche quelli sommersi o che sbucano appena, e restituirli con una lingua che è loro fedelissima. Così, in una manciata di pagine, il lettore si trova catapultato in una dimensione che sembra proprio dargli del tu.

In Tariq, quella dimensione si fa largo tra i palazzoni di periferia, dove drammi e fragilità sono tanto comuni che quasi non ci si fa caso e dove la prospettiva del futuro tende a sagomarsi su necessità troppo impellenti e su orizzonti troppo chiusi. In questa cornice, quando il giovane Tariq decide di iscriversi al liceo linguistico – scelta quantomai rara tra coloro che gli vivono accanto – sono ben pochi a dargli credito. Ma come si fa a trovare la propria strada fuori dal sentiero battuto, se nessuno intorno sembra credere che quella strada esista?

E così, strattonato da una famiglia faticosa e affaticata, da un contesto che trova ordinari una pistola nello zaino, una gravidanza su un pianerottolo o uno skate park di lamiere, Tariq quella strada rischia di perderla di vista. Diventa Tariq il pazzo, quello che disturba le lezioni, che incute timore agli insegnanti, che “ne hai combinata un’altra delle tue?”. È un attimo che dalla scuola arriva una lettera di sospensione che per Tariq pesa davvero come un macigno. Di fronte allo sbriciolarsi delle sue deboli speranze, ci sono per il ragazzo lo spaesamento, la paura, la fuga. Ma poi ci sono anche sguardi e (poche ma significative) parole di cura, soprattutto da parte della sorella e della coetanea Jasmine che con lui condivide inciampi e desiderio di riscatto. Ed così che Tariq può forse pensare di riprender fiato e far ripartire quella sua vita rimasta in standby…

Coinvolgente da trattenere il fiato e travolgente da scorrer via in un lampo, Tariq è una lettura davvero interessante per ragazzi di scuola secondaria. La brevità e le caratteristiche di alta leggibilità con cui è proposto da Camelozampa lo rendono, inoltre, particolarmente intrigante anche per lettori un po’ refrattari o ostacolati dalla dislessia nell’approccio al testo.

 

L’albero, la nuvola, la bambina

Chiara Valentina Segré e Paolo Domeniconi – la cui sintonia felice avevamo già apprezzato in Lola e io – torna a toccare il lettore nel profondo con un nuovo albo che è una specie di sussurro, un invito quieto a confrontarsi con timori complessi, come quello della fine e della vita esposta al cambiamento.

Nel dialogo tra una bambina preoccupata per la sorte del fratello malato e un pruno ormai prossimo all’abbattimento, i due autori indagano il legame che ci avvicina alla natura, lo scarto tra ciò che scompare e ciò che resta con la morte, il valore della trasformazione e la varietà di forme che possono assumere la cura e il ricorso. Con uno stampo squisitamente metaforico, che vede i pensieri cupi farsi nuvola tempestosa o una prugna succosa rappresentare la memoria che dà frutto – l’albo edito da Camelozampa esplora temi tutt’altro che banali e offre al lettore una forma di poesia che prescinde da versi e rime.

L’autrice sceglie e inanella, infatti, con grande misura le parole che dicono preoccupazione e speranza mentre l’illustratore dà vita a tavole magnetiche in cui tutto – dalle inquadrature alle palette, dalle ombre ai riflessi – concorre a dare spessore e intensità al dialogo tra la bambina e l’albero.

L’albero, la nuvola e la bambina chiede silenzio e tempo per sedimentare e rimestare dentro, offrendo una lettura di una certa complessità, nonostante il numero ristretto di pagine che lo compongono. Il libro costituisce dunque un esempio perfetto di come l’albo illustrato possa prestarsi a raccontare storie tutt’altro che banali che chiamano a sé un pubblico non proprio inesperto, capace di leggere non solo le parole, ma anche le figure e l’intreccio tra i due linguaggi. Questo, unito alla scelta di caratteristiche di alta leggibilità, ne fanno un volume particolarmente appagante e fruibile anche per bambini e ragazzi con dislessia.

Un piano quasi perfetto

I bambini non leggono più e hanno occhi solo per gli schermi? No problem, da oggi c’è una soluzione! Con una grafica originalissima che trasforma ogni doppia pagina in un computer aperto, Un piano (quasi) perfetto fa della lettura un’esperienza sorprendente e diversamente tecnologica. Coloratissimo e dal tratto divertente, il libro scritto e illustrato da Silvia Baroncelli racconta di un coniglio di nome Cosimo che, vivendo lontano dai nonni, prova spesso una grande nostalgia per loro. Abituato a vederli e sentirli tramite computer (esperienza quanto mai comune di questi tempi!), Cosimo decide che per il suo compleanno vuole ricevere da loro un abbraccio vero e così organizza in gran segreto una spedizione per raggiungerli.

Per organizzare il viaggio servono intraprendenza e abilità con il computer che, non a caso, a Cosimo non mancano! E così, pagina dopo pagina, il coniglio mette a punto il suo piano sfruttando il computer di casa per cercare treni e strade: il tutto – data la segretezza dell’operazione – destreggiandosi e cercando di non farsi distrarre dalla ricerca di ricette e video rock per i famigliari. La missione si rivela così più complessa del previsto. Per fortuna ogni compleanno che si rispetti non manca di sorprese e – computer o meno – anche questo finirà per onorare la tradizione!

Molto accattivante grazie alle figure amichevoli e vivaci, alla struttura a pc che richiede una lettura in verticale e alla rivisitazione in chiave conigliesca di alcuni aspetti e dettagli del mondo umano, Un piano (quasi) perfetto si presenta come una lettura particolarmente originale per lettori alle prime armi, forte anche di un font e di caratteristiche tipografiche ad alta leggibilità, di testi minimi in maiuscolo (dialoghi) e in minuscolo, perfettamente inglobati nelle illustrazioni e di un apparato visuale che la fa nettamente da padrone. Difficile non provare curiosità di fronte a un libro così particolare e una volta aperto… bè, lì inizia davvero il viaggio!

Il nostro cane Max

Gli animali domestici sono, per tanti padroni e padroncini, autentici membri della famiglia. Con loro si condividono rituali, viaggi, esperienze, emozioni e così, quando muoiono, lasciano un vuoto grande e un segno indelebile. Proprio questa parabola esistenziale, tanto familiare a chiunque abbia posseduto e amato un cane o un gatto, trova posto tra le pagine de Il nostro cane Max.

Il libro scritto da Alessandra Bocchetti omaggia e ripercorre la vita del cane Max all’interno della famiglia che lo ha accolto quando era ancora piccolissimo e brutto. L’autrice racconta in particolar modo il rapporto speciale e unico che il cane instaura con i diversi membri della famiglia, dando un assaggio delle piccole gioie che, dal primo all’ultimo giorno, la sua presenza ha regalato. Fino a che la vecchiaia lo porta via, senza che tuttavia il suo ricordo svanisca. Tutt’altro: nel cielo, nelle rocce e persino nella forma di un’isola Max torna a far visita ai suoi padroncini, nel nome di un legame intenso e sempre vivo.

Lineare e senza particolari capriole narrative, Il nostro cane Max si presenta come un omaggio personalissimo a un cagnolino realmente esistito che suscita simpatia e affetto. Piacevole da leggere e commuovente nel finale, il libro fa parte della collana Minizoom di cui condivide tutte le apprezzabili caratteristiche di alta leggibilità.

Cipì

Piccolo, coraggioso, intramontabile Cipì! Alla soglia dei cinquant’anni, l’uccellino nato dalla penna di Mario Lodi e dei suoi alunni della scuola elementare di Vho torna a spiccare il volo in una veste nuova rispetto a quella consueta cartacea. Con un audiolibro nuovo di zecca fruibile tramite CD MP3 (12,90 euro) o file MP3 scaricabile (7,70 euro), Emons omaggia infatti il celebre racconto, nato dall’osservazione diretta fatta dai bambini di ciò che accade al di fuori della finestra della classe.

A dare voce alle avventure del giovane Cipì e dei suoi compagni di vita – la mamma e i fratelli, l’amata Passerì, l’amica Margherì e l’intera compagine di elementi naturali, dal sole ai fiori, dalle nuvole alle farfalle, che sono di fatto coprotagonisti del racconto – è Stefano Accorsi che interpreta con piglio pacato e intenso l’ampia gamma di sentimenti a cui la storia di Cipà dona spazio.

Sotto il tetto del palazzo, nella campagna tutt’intorno e nel cielo che la riveste, Cipì conosce infatti il pericolo e il sacrificio, l’amore e la solidarietà, la bellezza e la forza della natura. La sua storia, seppur insolita forse per il giovane lettore di oggi, è testimone schietta di un’esperienza pedagogica di grandissima attualità che merita di essere conosciuta e declinata nell’oggi e nel domani.

Una bottiglia nell’oceano

Sulle montagne venete di inizio ‘900 la vita dell’undicenne Emilio è dura, a tratti durissima. Nelle sue giornate, che pur non mancano di svaghi tra coetanei e giochi da scavezzacollo tra boschi e contrade, si avverte forte il peso della miseria, di un padre partito per l’America in cerca di fortuna, di un inverno che sembra non finire mai e di una scuola che riserva trattamenti diversi in base alla classe sociale di appartenenza. Emilio è un tipo tosto, però. Presi molto seriamente gli insegnamenti del padre e il ruolo di “uomo di casa” che questi gli affida alla partenza, l’undicenne non china il capo di fronte alle ingiustizie e si danna per trovare un modo di aiutare sua mamma e i suoi tre fratelli a sopravvivere. La sua è una ricerca costante di equilibrio tra lo spirito indomito del ragazzo e la responsabilità dell’uomo in formazione: una ricerca che lo porta a farsi molte domande, a cercare scampoli di speranza nelle sparute lettere che arrivano dal padre e a battersi senza risparmiarsi per un sacco di patate o un po’ di dignità. Fino a che dall’America arriva una lettera che preannuncia per lui e per il resto della famiglia la possibilità di raggiungere il padre. Il tempo dei saluti agli amici di sempre e a chi oltre alle montagne non vedrà probabilmente mai nulla, ed Emilio si imbarca su piroscafo diretto a New York: una nuova tappa, anch’essa non priva di incontri e imprevisti emozionanti, nel suo cammino per costruirsi un futuro senza subirlo soltanto.

Fresco vincitore del Premio Bancarellino, il libro di Cinzia Capitanio ha tutto ciò che serve per catturare il lettore: personaggi ben marcati, emozioni in cui specchiarsi, una storia di formazione incisiva. A tutto questo si aggiunge il merito di raccontare in maniera molto scorrevole e accattivante una parte di storia del nostro paese, cruciale ed eppure spesso trascurata a scuola, come quella dell’emigrazione di inizio secolo. Ultimo, ma non per importanza: Una bottiglia nell’oceano, così come tutti i titoli della bella collana Il parco delle storie, vanta caratteristiche tipografiche di alta leggibilità – dall’uso del font EasyReading su carta color crema alla spaziatura maggiore tra lettere, parole e righe, dalla sbandieratura a destra all’assenza di sillabazione – che ne favoriscono l’accesso anche a ragazzi con difficoltà di lettura legate alla dislessia.

Tonja Valdiluce

L’autrice norvegese Maria Parr ha un talento eccezionale nel creare personaggi (soprattutto femminili) dalla carica inesauribile, dallo schietto spirito libertario e dalla vitalità prorompente. Indomiti e mai immobili, nelle gambe e nel pensiero, questi abitano spesso luoghi immersi in paesaggi naturali che hanno un ruolo tutt’altro che marginale nelle loro dinamicissime avventure. Tipi irresistibili come Lena o Tonja sono le protagoniste di storie che turbinano a lungo e nel profondo di chi legge

Dieci anni quasi compiuti, Tonja vive in Valdiluce da quando è nata. I monti innevati fino a Pasqua, il villaggio a misura d’uomo e i sentieri d’acqua e terra fanno da cornice alle sue giornate in cui difficilmente mancano salti acrobatici con gli sci ed esplorazioni scatenate. Certo non si può dire che le sue occupazioni non generino un gioioso baccano, con buona pace di Klaus Hagen e del suo campeggio salutista child-free da cui vorrebbe tenere Tonja alla larga. In Valdiluce, Tonja è felice. Qui conosce tutti ma ha un rapporto speciale con il suo padrino Gunnvald: gigante buono, solitario e taciturno che condivide con lei l’amore per la montagna, per la cioccolata calda fatta con vere tavolette e per gli slittini che vanno velocissimi. Con Gunnvald, Tonja trascorre giornate intere, chiacchiere e silenzi, suonate di violino e storie. “Come faresti senza di me?”, gli chiede spessissimo, con una formula scherzosa che sfiora la verità più di quel che si potrebbe credere. Non a caso, quando a casa di Gunnvald piomba un donnone di nome Heidi che dice di essere sua figlia e minaccia di vendere la sua amata fattoria, Tonja si adopera senza risparmiarsi per evitarlo. I folli piani di sabotaggio che mette in piedi insieme al suo amico Ole danno certo una scossa alla situazione, ma sono soprattutto la sua cocciuta testardaggine, il suo innato senso della giustizia e la sua sincera capacità di parlare al cuore delle persone a rispolverare sentimenti sepolti e permettere finalmente a rapporti interrotti di riallacciarsi.

Irresistibile e incontenibile, Tonja detta il bolide della Valdiluce non lascia scampo e lascia il segno. La sua storia arriva dritta senza freni e si fa leggere con gusto. Avvolgente come una coperta calda, ha il potere magico di far risuonare sentimenti profondi senza stare a dare tante spiegazioni. Che poi è quello che fa la buona letteratura! Da leggere e rileggere senza stancare, Tonja Valdiluce è fortunatamente uno dei titoli che Beisler ha inserito nel suo progetto leggieascolta, rendendolo accessibile anche a chi non ama o fatica a seguire la storia sulla pagina. Grazie alla curata app leggieascolta, scaricabile gratuitamente per Android e Ios, la storia di Tonja, Gunnvald e tutti gli abitanti e avventori della Valdiluce può essere ascoltata con grande comodità semplicemente inquadrando il QR code che compare all’interno del libro. Intuitiva e funzionale, l’app consente di muoversi agilmente tra i capitoli del libro, sfruttando funzioni utili come la regolazione della velocità di lettura e i segnalibri.

Persi di vista

Se da adolescente ti aspetta una desolante estate in città, senza alcuna possibilità di svago e per di più con la fidanzata lontano, ecco che la prospettiva di tre pomeriggi a settimana, oltretutto pagati, a fare compagnia a una vecchia signora possono diventare allettanti. Cos’ha in fondo da perdere il giovane Sofiane, che si ritroverebbe altrimenti a ciondolare sotto casa, in attesa di veder tornare stanca e triste sua madre o, peggio, di prendersele da suo fratello? E così il giovane, che si presenta a casa dell’anziana Régine giusto per sostituire la sua fidanzata volata in Spagna, finisce per restarci più a lungo del previsto, trovando in quell’anziana sconosciuta un’amica inaspettata e un’occasione per dare una piega nuova alla sua vita. Da che doveva limitarsi a leggere ad alta voce per lei, resa ipovedente da un grosso trauma del passato, Sofiane si ritrova a condividere con lei esperienze nuove e a metterla a parte di racconti molto confidenziali. Dalla contaminazione tra i loro due mondi, fatti di rap e di arte, di lettura e di internet, di conversazioni erudite e linguaggio da strada, nasce un cocktail sorprendente che dona a entrambi una serenità perduta da tempo.

Anziana, ricca e colta lei, tutto il contrario lui, Régine e Sofiane si scoprono più simili di quel che si aspettano. A unirli, in una vicenda che ricorda la bella storia di Philippe e Driss del film francese Quasi amici, c’è soprattutto una comunione di sentimenti legati ai rapporti con le rispettive famiglie. Se Régine, nel tentativo di conquistare l’affetto del padre, ha perso da anni i contatti con i figli, Sofiane ha sempre erroneamente pensato di essere stato abbandonato dal padre. In un intreccio di relazioni familiari complicate e ambivalenti, i due protagonisti si sostengono a vicenda nel tentativo di ristabilire un minimo di ordine nei propri sentimenti. Rispecchiando l’una nell’altro il proprio rapporto tormentato con il passato, Régine e Sofiane imparano a guardarsi con occhi nuovi. Come il titolo anticipa bene, con il suo calzante gioco di parole, la loro è una storia che mostra bene come la capacità di vedere, fisicamente e metaforicamente, sia qualcosa che si può perdere, allenare e finalmente riconquistare.

Scritto in maniera molto scorrevole, forte di un gustoso contrasto tra il modo di parlare di Sofiane e quello di Régine, il romanzo di Yael Hassan offre una lettura sorridente e abbordabile anche da parte di giovani lettori con Disturbi Specifici dell’Apprendimento. La storia curiosa e i frequenti dialoghi si sposano felicemente, infatti, con le caratteristiche di alta leggibilità – dal font leggimi alla spaziatura maggiore, dall’impaginazione ariosa alla sbandieratura a destra – che rendono la pagina visivamente meno ostica.

Cuori di waffel

Quando un libro inizia con due bambini che costruiscono una precaria funicolare tra le rispettive finestre si può star certi che la lettura riserverà sorprese memorabili: Cuori di waffel ne è la dimostrazione lampante! Tra le sue pagine, la scatenata Lena e il timido Trille si lanciano ogni giorno in imprese stravaganti e azzardate, secondo una ferrea logica che segue i binari dell’immaginazione  ben più che quelli della sicurezza. L’estate dei due bambini, nelle cui vene scorre inconfondibile sangue nordico, procede così a gran ritmo tra una festa di mezza estate sommersa dal letame, il tentativo di far salire un sacco di animali su una moderna arca di Noé e il salvataggio di una vecchia giumenta a bordo di un traghetto. A star dietro a Lena e Trille servono polmoni buoni e nervi saldi perché le corse nel cassone di una motocicletta, le discese ripidissime in bob, i giri in elisoccorso e gli schianti in canotto sono all’ordine del giorno. Qualche commozione cerebrale (per loro) e tanta commozione e basta (per il lettore) vanno così di pari passo, in un romanzo che fa lo slalom tra guai divertentissimi ed emozioni profonde.

Già vincitore di numerosi premi, tra cui l’Andersen nel 2015, il libro di Maria Parr è un concentrato irresistibile di avventure a rompicollo e di personaggi cui affezionarsi in un istante. Pieni di vita e tratteggiati con cura, questi si muovono tra i fiordi della baia e della vita con una naturalezza e un’autenticità palpabili. E se l’inarrestabile Lena è al centro di ogni scena con un’energia che di rado lascia cose, personaggi e lettore incolumi, il vero e insospettabile eroe è forse il giovane Trille, che accoglie paziente l’irruenza e le  follie di Lena, dando voce a emozioni che entrambi provano ma che l’amica non sa esprimere che con l’irrequietezza.  Con il suo carico di sensibilità sincera, Trille cementa profondamente l’amicizia con Lena, apre a domande importanti e – non ultimo – restituisce una rappresentazione bellissima e fuori dagli stereotipi di un’infanzia al maschile.  In quell’estate unica che vede protagonisti i due bambini, trovano posto cose piccole e grandi, comprese quelle scomode come la morte, la genitorialità imperfetta o gli addii. Queste ultime, proprio come le gioie che costellano le giornate più luminose a Martinfranta, figurano tra le pagine di Cuori di Waffel con impeccabile leggerezza, finendo così per bussare all’immaginario del lettore senza gravosa invadenza.

Imperdibile per lettori dagli 8-9 anni, Cuori di Waffel è reso disponibile dall’editore Beisler anche in formato audio così che anche chi non ama o fatica a seguire la storia sulla pagina possa godersi le avventure di Lena e Trille. Grazie alla curata app leggieascolta, scaricabile gratuitamente per Android e Ios, il romanzo può essere ascoltato semplicemente inquadrando il QR code che compare sul risguardo di copertina. Intuitiva e funzionale, l’app consente di muoversi agilmente tra i capitoli del libro, sfruttando funzioni utili come la regolazione della velocità di lettura e i segnalibri.

Emme come. Il meraviglioso mondo di MAssimo

È dura esser bambini, quando gli adulti non sembrano voler fare la loro parte! Almeno, questa è l’esperienza dell’undicenne Massimo, le cui giornate sono un continuo confrontarsi con due genitori che litigano e lo mettono in mezzo senza troppe remore, con una scuola che non sempre valorizza i talenti degli alunni e con un carattere che non facilita la nascita di nuove amicizie. Timido, sensibile e curioso, Massimo cresce nel pieno degli anni ’80, chiedendosi senza posa come fare a essere felice. Presto fatto: non trovando supporto nei grandi, Massimo elabora una sua personalissima strategia di sopravvivenza e riscatto. Autoproclamandosi Illustre Imperatore dell’Universo, una carica che gli consente di scrivere una costituzione tutta sua, Massimo può infatti costruirsi una realtà in cui i desideri si avverano per decreto, le nonne non scordano di preparare torte, le emozioni possono manifestarsi senza timore e la fantasia è riconosciuta come valore. In questo modo, le relazioni che Massimo coltiva – con i familiari, con gli amici vecchi e nuovi, con i professori o con gli adulti del catechismo – prendono pian piano una piega nuova, più autentica e vitale.

Emme come. Il meraviglioso mondo di Massimo è uno dei primi titoli proposti a catalogo da Read Red Road, libreria romana che dal 2018 è diventata anche casa editrice. In virtù di una particolare attenzione alla questione dell’accessibilità, il volume è pubblicato con alcune caratteristiche di alta leggibilità, come il font EasyReading e una spaziatura maggiore tra lettere, parole e righe. Ulteriori vantaggi in termini di agio nella lettura potrebbero venire, sempre a livello tipografico, dal ricorso a un testo non giustificato e da una più marcata separazione tra paragrafi. D’altra parte, da un punto di vista sintattico, il testo si compone di frasi perlopiù brevi, paratattiche o con una sola subordinata, risultando così di più semplice lettura anche da parte di bambini con dislessia.

Il mago di Oz

Con i suoi audiolibri ad alto tasso di grazia, Locomoctavia ci ha abituati ad esperienze di ascolto davvero straordinarie. Da Pinocchio ad Alice, da Gianburrasca ad Augusta Snorifass, con la voce calda e versatile di Daniele Fior diversi classici della letteratura per l’infanzia (ma anche qualche chicca meno nota, come Il drago di K e altre fiabe polacche) hanno trovato una nuova rispettosa veste, oltre che una via piacevolissima per arrivare a chi fatica a confrontarsi con la pagina scritta. Se possibile, però, Il mago di Oz – l’ultimo titolo aggiunto a catalogo dalla piccola casa editrice udinese – stupisce ancor di più dei precedenti, per il curato e curioso percorso attraverso il quale è stato confezionato.

Rilasciata alla fine del 2020, questa versione tutta da ascoltare del libro di L. Frank Baum coinvolge un numero consistente di attori (ben 16!), la più piccola dei quali aveva all’epoca della registrazione solo 5 anni. Le voci registrate sono tutte ben cucite sulle rispettive parti e risultano molto variegate: aspetto, questo, non trascurabile sia dal punto di vista della gradevolezza dell’ascolto, sia da quello della fruibilità, soprattutto per chi fatica a seguire e a orientarsi in mezzo a storie molto articolate. Capaci di rendere con puntualità la moltitudine e l’assortimento di personaggi che contraddistingue il viaggio verso e dalla Città di Smeraldo, le diverse interpretazioni sono accompagnate da sottofondi sonori suggestivi, catturati durante un viaggio lungo lo Stivale.

Al gusto di una storia ricchissima, proposta come sempre in versione integrale, si aggiunge quindi il fascino di una narrazione che sfrutta minimi intramezzi musicali e che trasforma i suoni della natura e della città in puntelli acustici all’immaginazione del lettore. L’abbaiare di un vero cane che dà voce a Toto, il cinguettio degli uccellini che spesso cantano lungo il percorso di Dorothy, le campane che suonano in lontananza mentre il pallone del mago si solleva in volo: la minuzia con cui queste tracce ambientali vengono raccolte e inserite nel racconto contribuisce a fare di quest’ultimo un’immersione profonda nel meraviglioso regno di Oz.

Disponibile sia su Cd (13 €) sia in versione scaricabile (7,99 €), Il mago di Oz è inoltre fruibile come gli altri titoli Locomoctavia, tramite un’apposita app (Locomoctavia audiolibri) messa a punto dalla stessa casa editrice e scaricabile gratuitamente da App store. Estremamente interessante in termini di accessibilità, l’app sfrutta un particolare sistema di scroll (già attivo per i titoli precedenti e presto disponibile anche per Il mago di Oz) che evidenzia cromaticamente le diverse frasi del testo nel momento esatto in cui vengono pronunciate. La corrispondenza tra testo e audio risulta molto fluida e puntuale e l’app fa avanzare automaticamente l’audio se il lettore fa scorrere velocemente in avanti il testo. L’esperienza di lettura e ascolto risulta, così, piacevole e tutt’altro che macchinosa.

Il lettore può in questo modo godere della cura e della bellezza delle registrazioni proposte e al contempo seguire più agevolmente il testo su schermo. Egli può disporre cioè di un ampio ventaglio di strumenti e possibilità di lettura, perfettamente integrate tra loro, tra cui destreggiarsi sulla base delle sue esigenze specifiche: un’opportunità preziosa per sostenere soprattutto quei bambini e quei ragazzi che, a causa di disturbi come la dislessia, si tengono alla larga dai libri non per disamore delle storie ma per l’enorme fatica che la lettura tradizionale di queste ultime può implicare ai loro occhi.

Il bambino che faceva le fusa

Gatta curiosa e intraprendente, Pepe vive in una palazzina di città con i suoi due padroni (Mamma e Papi) e il loro bambino (Tato). Sui tetti, in cortile e dalla sua finestra al secondo piano, interagisce con diversi vicini a due e quattro zampe – l’odioso cane Crostino e il furbo piccione Nerone,  per esempio – e osserva molte cose con occhio attento. È lei, non a caso, la prima ad accorgersi che da pochi mesi al quarto piano abitano una donna e un bambino. Nessuno a parte lei, sembra averlo notato: la donna si vede poco e il bambino è sempre chiuso in casa. La faccenda ha un che di misterioso e il bambino un che di affascinante, così Pepe si convince ad andare in esplorazione per saperne di più. Le sue spedizioni al quarto piano gli rendono chiaro che il bambino ha un modo tutto suo di comunicare: un modo che gli altri umani spesso travisano o non colgono per nulla, costringendolo di fatto a una vita solitaria e reclusa. Pepe, che invece sembra riconoscerne facilmente intenzioni e sentimenti, mette  in atto un ingegnoso piano per consentire al bambino, da lei soprannominato No, a uscire e socializzare. Saranno necessari molti alleati, molta pazienza e molta inventiva ma alla fine il piano di Pepe si rivela efficace e l’intero condominio si ritrova coinvolto in una missione ad alto contenuto di fusa!

Gabriele Clima, che già con Roby che sa volare e con Il sole fra le dita  aveva felicemente e coraggiosamente portato la disabilità tra le pagine destinate ai bambini e ai ragazzi, trova anche qui un espediente interessante per raccontare l’autismo ai più piccoli senza trasformare la storia in un piccolo trattato didascalico. Facendo leva sull’idea che trovare la giusta chiave di comunicazione possa fare la differenza nel costruire relazioni autentiche e possibilità di incontro tra persone neurotipiche e persone neurodivergenti, l’autore racconta una storia ispirate a persone realissime (la sua famiglia e i suoi vicini di casa!) a cui il gatto Pepe aggiunge un tocco fantastico e un punto di vista originale.

Il bambino che faceva le fusa si distingue per un’attenzione particolare all’inclusione non solo da punto di vista contenutistico ma anche da quello formale: il libro è infatti stampato con caratteristiche di alta leggibilità quali il font leggimi, la spaziatura maggiore tra lettere, parole, righe e paragrafi,  la sbandieratura a destra e l’assenza di sillabazioni, ed è fruibile con le medesime caratteristiche anche in formato ebook (costo: 2,99 euro). Come il libro in questione, diversi altri titoli della collana Il battello a vapore di Piemme, in tutte le sue serie – bianco, azzurro, arancio e rosso – presentano gli stessi accorgimenti tipografici, resi riconoscibili fin dalla copertina grazie al bollino “alta leggibilità”.

Veglia su di me

Ci sono voci, come quella di Matteo Corradini, che sono un’autentica carezza. Nei suoi libri, le parole scelte con cura e le vicende profondamente umane, sanno come risuonare a lungo nel lettore. Veglia su di me, che del suonare e del risuonare fa elementi particolarmente significativi, non fa eccezione.

Protagonista del racconto è Dora, ragazzina cresciuta tra le note, contagiata nell’amore per la musica dai suoi genitori: l’uno pianista e l’altra cantante. Come una sorta di lessico famigliare, certe canzoni accompagnano la sua quotidianità e i momenti speciali di una esistenza senza troppi fronzoli e per molti versi originale. Basti pensare a quella volta in cui Dora accettò per denaro di fingersi pazza, per far sì che la sua classe fosse meno numerosa e ricevesse, quindi, un’istruzione migliore. Dora è felice della sua vita e della famiglia che le è toccata in sorte, anche se la mamma da qualche tempo è lontana, impegnata in un tour importante. Il papà, dal canto suo, si occupa di lei con grande dedizione, nonostante il lavoro al locale jazz che lo tiene impegnato fino a tardi. Ognuno a suo modo, i genitori di Dora crescono in lei un felice immaginario legato alla musica. Grande, grandissima è dunque la sua delusione  quando per caso scopre la verità sul mestiere del padre e sul motivo di assenza della madre: due non detti troppo ingombranti per la  ragazzina, che suonano stonatissimi e che la gettano in uno smisurato sconforto. Saranno l’amicizia e la saggezza del signor Vladimiro, vicino di casa noto a tutti come formidabile pianista, a permettere a Dora di guardare le cose dalla giusta prospettiva e di mettere in piedi un piano tenero e coraggioso per ricomporre una volta per tutte i pezzi della sua vita.

Delicatissimo e profondo, il racconto di Matteo Corradini, edito dall’Accademia Nazionale di Santa Cecilia in collaborazione con Edizioni Curci, dà voce a un’idea di cura  che non è mai unilaterale e di famiglia come luogo in cui si cullano i desideri. La musica ha qui un ruolo centrale, non solo perché permea le vite dei protagonisti, nutrendo i loro sogni più profondi, ma anche perché suona in quel modo specialissimo che l’autore ha di scrivere. Splendida, dunque, è la possibilità che il testo di Veglia su di me possa essere ascoltato oltre che letto, grazie all’audiolibro scaricabile gratuitamente tramite un codice stampato sulla copia cartacea. Interpretato da Amanda Sandrelli, il libro nella sua versione per le orecchie è piacevole e avvolgente, arricchito com’è dalle musiche curate da Orazio Sciortino, che in qualche modo trasferiscono su pentagramma l’intensità delle illustrazioni di Lucia Scuderi.

La signora Lana e il segreto degli ombrellini cinesi

Quella che vede protagonisti i due fratelli Merle e Moritz è una trilogia avvincente che prende forma in un mondo misterioso in cui reale e fantastico si fondono con sapienza. Dopo La signora Lana e il profumo della cioccolata, Beisler pubblica ora il secondo titolo della trilogia intitolato La signora Lana e il segreto degli ombrellini cinesi e lo inserisce tra i titoli fruibili dal lettore anche in formato audio, grazie all’applicazione gratuita leggieascolta.

In questo secondo episodio, troviamo i due fratelli ancora intenti a interrogarsi sulla vera identità della misteriosa signora Nuvolana Wolkenstein, che da qualche mese fa loro da bambinaia e su cui a scuola circolano inquietanti voci. Al centro delle loro indagini c’è inoltre l’inspiegabile scomparsa dalla biblioteca di casa del raro libro “La signora Lana e il gran teatro del mondo” che alla bambinaia, in qualche modo, sembra essere legato.

Come se non bastasse il loro compagno di classe Sebastian scompare misteriosamente nel nulla ed è mettendosi sulle sue tracce che Merle e Moritz si lanciano in una avventurosa operazione di salvataggio, facendo ritorno a Fanciullopoli. Anche in questo caso il mondo fantastico di cui  il papà  ha tanto ha parlato loro si apre e si chiude ai loro occhi in maniera enigmatica, popolandosi di creature insieme familiari e sfuggenti: aiutanti buoni come la giraffa di legno Fidibus o la volpe Lacrima d’argento, personaggi ambigui come la gatta voltagabbana e esseri insospettabilmente malvagi come gli gnomi Zannaguzza. In mezzo a loro si districano i due bambini, con l’aiuto di strumenti magici sorprendenti come gli ombrellini cinesi sistemati da Nuvolana Wolkenstein sulle loro cioccolate ghiacciate proprio qualche giorno prima. Che ruolo abbia precisamente Nuvolana nei misteri che travolgono Merle e Moritz e nelle loro spedizioni a Fanciullopoli non è ancora dato saperlo: sarà necessario, per il lettore, attendere il terzo e ultimo capitolo della saga per ricomporre un puzzle decisamente coinvolgente.

Avventuroso e con un tocco da brivido che lo rende particolarmente intrigante, La signora Lana e il segreto degli ombrellini cinesi offre una lettura molto avvincente per bambini coraggiosi e amanti delle storie fantastiche. Alla trama suggestiva e alla scrittura calibrata di Jutta Richter si uniscono le illustrazioni dai toni scuri di Günter Mattei, che amplificano l’atmosfera al contempo attraente e inquietante che pervade l’intero libro.

Quest’ultimo va, dal canto suo, ad arricchire l’interessante progetto leggieascolta di Beisler che prevede l’unione della versione cartacea e della versione audio di alcuni titoli. La versione audio è ascoltabile tramite l’app gratuita leggieascolta, messa a punto dallo stesso editore e disponibile per dispositivi Android e iOS. Inquadrando il QRcode che compare sul risguardo di copertina l’app apre infatti l’audiolibro, all’interno del quale il lettore può muoversi con grande libertà. A sua disposizione ci sono in particolare i tasti per scegliere il capitolo da leggere, per far avanzare la lettura di 60 secondi in 60 secondi, per accelerare o rallentare la velocità di lettura, per inserire dei segnalibri o prestabilire un tempo dopo il quale l’audiolibro si spegna automaticamente.

Molto intuitiva nell’uso e curata nella registrazione, l’app che rende disponibile la versione audio del libro segna un passo importante nel lavoro che pian piano alcune lungimiranti case editrici stanno facendo in favore dell’accessibilità. Mettere infatti il giovane lettore nella condizione di poter accedere al testo attraverso porte diverse, che sarà lui a scegliere a seconda delle necessità personali e del momento, concorre in maniera non indifferente a rendere la lettura più agevole e dunque più piacevole.

Granpà

Christoph Léon è un narratore di razza: sa come tirare il lettore al cuore delle storie e come dipanare temi potenti senza che questi gravino sulla pagina come una zavorra. Accade sulla lunga come sulla corta misura, come ben dimostra Granpà, racconto breve recentemente uscito per Camelozampa.

In una manciata di pagine (poco più di settanta), Léon mette in piedi un appassionante racconto di vita, che attraversa tre generazioni e in cui echeggiano questioni importanti come il rapporto tra uomo e natura e lo scarto spesso esistente tra legge e giustizia. Protagonisti, che ci pare dopo poche pagine di conoscere a fondo, sono il giovane John e suo nonno Granpà. I due si aggirano furtivi per l’America dell’Ovest, intenti a sabotare gli impianti dell’Arizona Oil Company che con i suoi pozzi per l’estrazione del petrolio sta distruggendo opere millenarie della natura ed espropriando per pochi spicci i possedimenti di intere famiglie. Granpà ha già subito questo destino una volta ed è disposto a tutto, ora, pur di difendere la sua terra e i suoi ideali di tutela dell’ambiente. A un certo punto, però, la spedizione si mette male e John è costretto a separarsi dall’amato nonno  in un epilogo intensissimo, che è insieme straziante e pieno di speranza.

Ricercato ma molto fruibile, anche grazie alle scelte orientate all’alta leggibilità compiute dall’editore Camelozampa, Granpà offre ai ragazzi dalle medie in su una lettura densa e appassionante, che rifugge la banalità delle forma e della sostanza, senza per questo risultare ostica. Il racconto si legge infatti con piacere e con deciso coinvolgimento, come immersi nelle calde e polverose notti del Colorado.

Una specie di scintilla – audiolibro

Che tosta, Addie! 11 anni, autistica, appassionata lettrice, amante degli squali e testarda battagliera per le cause in cui crede, la protagonista di Una specie di scintilla è un personaggio a cui ci si affeziona subito e che si dimentica con difficoltà. La sua vita si svolge nella placida cittadina scozzese di Jupiter, dove nulla di eclatante pare mai accadere, dove la comunità si riunisce ancora periodicamente per prendere decisioni collettive e dove tutti sembrerebbero più interessati a difendere il buon nome del villaggio che a permettergli di essere ricordato per qualcosa di davvero buono.

E così, quando durante una lezione di Miss Murphy, Addie scopre che in passato, proprio a Jupiter, diverse donne sono state pretestuosamente condannate a morte perché ritenute streghe, inizia una determinata battaglia affinché un memoriale cittadino renda loro omaggio e ricordi a tutti gli effetti nefasti e senza tempo a cui possono condurre l’ignoranza e la paura della diversità. Addie si deve però scontrare non solo con il bigottismo che impera in paese ma anche con una insopportabile forma di bullismo e discriminazione in ambito scolastico, perpetrata da una compagna particolarmente ostile, da una classe odiosamente indifferente e da una professoressa abiettamente incapace di fare il suo mestiere.

Umiliata e trattata da inetta da chi dovrebbe saperne piuttosto cogliere bisogni e talenti, Addie trova conforto e supporto in una nuova compagna sensibile e leale e in una famiglia presente e attenta. Il rapporto con sua sorella maggiore Keedie, anche lei autistica e apparentemente più capace e avvezza a dissimulare la sua neurodiversità, costituisce in particolare per Addie un aiuto prezioso per capire che cosa accade dentro e fuori di lei, per conoscere il prezzo di un mascheramento forzato e per trovare il coraggio di portare fino in fondo la sua importante e simbolica battaglia.

Incredibilmente incisivo, Una specie di scintilla è il pluripremiato romanzo d’esordio della giovane scrittrice scozzese Elle McNicoll. La sua forza sta senz’altro in una serie di personaggi indelebili, di fronte ai quali è impossibile mantenere una posizione neutra, e nella capacità di raccontare ciò che la protagonista prova e pensa con chirurgica efficacia e assenza di retorica. L’autrice, che è a sua volta autistica, non ha infatti remore o difficoltà a spazzare via tanti luoghi comuni sulla sindrome che la contraddistingue – luoghi comuni legati, per esempio, all’intelligenza, all’autonomia, all’empatia o alla capacità di costruire legami – mettendo bene in chiaro che ci sono tanti modi di essere neurodivergenti e che tentare di inquadrare in maniera unica e stereotipata tutti coloro che rientrano nello spettro non ha dunque alcun senso. Nel solco di Temple Grandin, che echeggia chiaramente in quel “L’oceano ha bisogno di tutti i tipi di pesci, proprio come il mondo ha bisogno di tutti i tipi di mente” pronunciato da Keedie, Elle McNicoll fa del suo punto di vista interno una chiave efficacissima per offrire una lettura nuova e meno rigida dell’autismo, in cui multisfaccettatura e complessità trovino finalmente il loro posto.

Oltre a raccontare con grande chiarezza e semplicità cosa provano Addie o Keedie in determinate situazioni (per esempio di eccessivo affollamento, rumore o luminosità) e quanto per loro possa essere faticoso mascherare il proprio disagio per rispondere il più possibile alle aspettative dei neurotipici, la sua scrittura schietta ci mette costantemente nella condizione di chiederci come noi stessi ci poniamo di fronte a chi percepisce, registra e affronta la realtà in modo diverso da noi. In questo modo, a dispetto di tanta comunicazione e letteratura che tende a dipingerla in bianco e nero come una tragedia assoluta o come una superdote tout court, la neurodiversità viene piuttosto dipinta, con una fitta serie di sfumature, come una specie di scintilla.  “Il mio autismo – dice Addie durante un toccante discorso all’assemblea cittadina – non è sempre un superpotere. A volte è problematico. Ma nei giorni in cui sento l’elettricità nelle cose, quando vedo dettagli che altri potrebbero non vedere, mi piace molto.”

Una specie di scintilla è disponibile in una duplice versione: cartacea e audio. La prima è curata da Uovonero con caratteristiche di alta leggibilità. La seconda è invece proposta da Fabler audio, una nuovissima casa editrice specializzata in audiolibri. Nata nel 2020 per iniziativa di Carlotta Brentan che da anni, l’Italia e gli Stati Uniti, si occupa di teatro, cinema e doppiaggio, Fabler propone libri da ascoltare molto curati sia a livello di qualità della registrazione sia a livello di piacevolezza dell’interpretazione. Una specie di scintilla è il primo titolo per ragazzi inserito in catalogo.

Hank Zipzer. Su il sipario, giù i calzoni

Hank Zipzer torna sulla scena. Letteralmente! Nell’undicesima avventura che lo vede protagonista, il giovane personaggio creato da Lin Oliver ed Henry Winkler si trova infatti alle prese con lo spettacolo teatrale della scuola: esperienza tanto emozionante quanto impegnativa per chi, come lui, non va proprio a nozze con copioni da leggere e battute da imparare a memoria. Non solo: a complicare la faccenda sopraggiunge anche un certo patto che Hank stringe con il papà. Se non riuscirà a prendere almeno nove nel compito di matematica sulle divisioni lunghe, può dire addio al palcoscenico, alla recitazione e alla parte di re del Siam che si è talentuosamente conquistato.  E così non gli resta che accettare il tutoraggio alla pari offerto da miss perfettina Heather Payne. Contro ogni aspettativa, la motivazione di Heather ad avere successo con il suo allievo la spinge a trovare metodi di insegnamento alternativi che valorizzano l’intelligenza visiva di Hank. Quella che si apre di fronte al ragazzo è così una possibilità del tutto nuova di fare un pochino amicizia non solo con i numeri ma anche con qualcuno che credeva diversissimo e incompatibile con lui.

Spassoso e godibile come i dieci titoli precedenti, Hank Zipzer. Su il sipario, giù i calzoni mette in azione la consolidata schiera di personaggi che animano la scuola SP 87 – dall’inflessibile signorina Adolf ai fidatissimi Ashley e Frankie, dall’arrogante McKelty all’originale famiglia Zipzer – a cui il lettore è probabilmente già affezionato e da cui dipendono meccanismi narrativi ben rodati. Davvero apprezzabile il fatto che nonostante la collana dedicata ad Hank abbia ormai raggiunto il titolo numero 11, l’ironia che la contraddistingue non sia venuta meno così come la capacità di rendere i Disturbi Specifici dell’Apprendimento del protagonista parte integrante dell’avventura e non mero tema didascalico. L’attenzione alla dislessia viene inoltre confermata a livello grafico e tipografico, dal momento che il volume presenta le consuete e funzionali caratteristiche di alta leggibilità quali un font privo di grazie, una spaziatura maggiore, una sbandieratura a destra e l’uso di una carta color crema.

 

A Said piaceva il mare

C’è Said, che nel mare vedeva un amico rassicurante e una possibilità di futuro nuova. C’è Andrea che, ispirato dal giovane Holden, decide di mettersi alla ricerca di sé stesso. C’è Gabriele che ha un segreto che lo divora dentro fino a che non incontra qualcuno con cui condividerlo. C’è Rico che trova il coraggio di ribellarsi all’imposizione di un sogno che non gli appartiene. E c’è Maya che scova la bellezza nei cambiamenti e la immortala con la sua fotocamera. Said, Andrea, Gabriele, Rico e Maya: tuti loro abitano, ciascuno con la propria storia, la raccolta di racconti inediti firmata da Roberto Parmeggiani e intitolata A Said piaceva il mare. I racconti sono brevi e scivolano via veloci ma sedimentano con calma nel lettore, come sassi nelle tasche. Perché Roberto, che ha una lunga esperienza come educatore, i ragazzi li conosce bene e li sa raccontare da vicino, vicinissimo. Le emozioni contrastanti dei protagonisti, le loro passioni, i loro crucci, la loro quotidianità che si apre al futuro sono qualcosa di vivo e tangibile e in essi è bello e facile ritrovarsi anche se, come lettori, non si porta sulle spalle una storia specifica di emigrazione, di omosessualità o di trascuratezza familiare. Perché questo, in fondo, fanno le storie: farci sentire più simili di quel che crediamo, grazie a ciò che ci unisce davvero come i sentimenti e le relazioni.

A Said piaceva il mare è il quarto volume della collana Parimenti, proposta da la meridiana e realizzata in collaborazione con il Centro Documentazione Handicap di Bologna e con l’associazione Arca Comunità l’Arcobaleno di Granarolo. A differenza dei precedenti volumi, che presentano adattamenti di romanzi o racconti preesistenti come Il diario di Anna FranK, Dracula o Novelle fatte a macchina, A Said piaceva il mare presenta storie inedite che più facilmente, forse, possono incontrare il favore di giovani lettori con abilità diverse. Proprio come i precedenti volumi, invece,  A Said piaceva il mare abbraccia la significativa scelta di raccontare storie da grandi con una forma comunicativa – quella dei simboli della CAA – che troppo spesso l’editoria riserva ai piccoli lettori. Parimenti è infatti ad oggi la sola collana in simboli pubblicata in Italia per un pubblico di adolescenti e anche per questo merita di essere conosciuta. Il volume è in particolare realizzato secondo il modello inbook e presenta pertanto simboli WLS in bianco e nero, riquadrati insieme all’elemento alfabetico corrispondente, riferiti ai singoli elementi della frase e corredati di qualificatori per esempio di genere, numero e tempo verbale. I testi sono composti ricorrendo a strutture sintattiche lineari e non troppo complesse. Ciononostante essi non risultano per nulla banali e possono agevolmente soddisfare lettori anche lettori senza difficoltà comunicative o cognitive. Il volume è arricchito infine da un’immagine per ogni racconto contenuto. Firmate da Attilio Palumbo, le illustrazioni aggiungono una nota suggestiva e pensosa, in piena sintonia con il tono della narrazione.

A Said piaceva il mare è reso disponibile dalla casa editrice anche in formato ebook, con le medesime caratteristiche compositive della versione cartacea. Sulle principali piattaforme è inoltre proposto in formato audio. In questo senso, l’impegno della casa editrice la meridiana in favore dell’accessibilità e 360° si conferma particolarmente forte e scrupoloso.

Tess e la settimana più folle della mia vita

Le vacanze più insospettabili possono riservare delle autentiche sorprese, anche quando si svolgono su un’isola remota e tuo fratello si rompe una caviglia durante un’esplorazione solitaria. Certo, perché una sorpresa degna di nota possa avere luogo e risollevare le sorti di un soggiorno piuttosto deludente, può rendersi necessario un incontro straordinario, come quello con Tess, per esempio. Ragazzina intraprendente e socievole, amante dichiarata delle cose strambe, Tess intercetta per la prima volta Samuel mentre questi attende che il dottore dell’isola visiti suo fratello, appena infortunatosi. L’approccio è a dir poco sui generis e comprende nel giro di pochi minuti una sessione di valzer in un parcheggio e l’organizzazione del funerale di un canarino. Ma anche Samule è a suo modo un culture della stramberia perciò ballo e cerimonia non lo scompongono di un millimetro. Allo stesso modo, il fatto di trovarsi in quattro e quattr’otto a far parte del piano di Tess per conoscere e conquistare il padre che non ha mai incontrato prima, gli appare più che normale.  E così i due neo-amici si buttano a capofitto in un folle ma minuziosissimo piano che cambia senz’altro la vita di Tess ma lascia anche una traccia indelebile nei ricordi e nel modo di Samuel di approcciarsi alle cose.

Avventuroso, divertente e popolato da personaggi indelebili, Tess e la più folle settimana della mia vita è un romanzo che coinvolge e sorprende, facendosi leggere davvero di gusto. Tra le dune dell’isola di Texel, al fianco di Samuele e Tess, il lettore non si fa solo travolgere da un incalzante susseguirsi di imprevisti, ma è portato a confrontarsi con questioni toste come la morte, l’assenza, la scelta e la responsabilità. Il tutto con una leggerezza profonda che rende la penna di Anna Wolz particolare e intrigante.

Grazie all’iniziaitva di Beisler, che del romanzo è l’editore italiano, Tess e la più folle settimana della mia vita rientra inoltre nell’interessante progetto Leggieascolta che prevede l’unione del testo cartaceo e del relativo audiolibro. Quest’ultimo è ascoltabile tramite l’app gratuita leggieascolta, disponibile per dispositivi Android e iOS. Inquadrando il QRcode che compare sul risguardo di copertina, l’app apre infatti l’audiolibro corrispondente al volume, all’interno del quale il lettore può muoversi con grande libertà. A sua disposizione ci sono in particolare i tasti per scegliere il capitolo da leggere, per far avanzare la lettura di 60 secondi in 60 secondi, per accelerare o rallentare la velocità di lettura, per inserire dei segnalibri o per stabilire un tempo predefinito dopo il quale l’audiolibro si spegna automaticamente.

Molto intuitiva nell’uso e curata nella registrazione, l’app che rende disponibile la versione audio del libro segna un passo importante nel lavoro che alcune attente case editrici stanno pian piano facendo in favore dell’accessibilità. Mettere infatti il giovane lettore nella condizione di poter accedere al testo attraverso porte diverse, che sarà lui a scegliere a seconda delle necessità personali e del momento, concorre in maniera non indifferente a rendere la lettura più agevole e dunque più piacevole.

Una specie di scintilla

Che tosta, Addie! 11 anni, autistica, appassionata lettrice, amante degli squali e testarda battagliera per le cause in cui crede, la protagonista di Una specie di scintilla è un personaggio a cui ci si affeziona subito e che si dimentica con difficoltà. La sua vita si svolge nella placida cittadina scozzese di Jupiter, dove nulla di eclatante pare mai accadere, dove la comunità si riunisce ancora periodicamente per prendere decisioni collettive e dove tutti sembrerebbero più interessati a difendere il buon nome del villaggio che a permettergli di essere ricordato per qualcosa di davvero buono.

E così, quando durante una lezione di Miss Murphy, Addie scopre che in passato, proprio a Jupiter, diverse donne sono state pretestuosamente condannate a morte perché ritenute streghe, inizia una determinata battaglia affinché un memoriale cittadino renda loro omaggio e ricordi a tutti gli effetti nefasti e senza tempo a cui possono condurre l’ignoranza e la paura della diversità. Addie si deve però scontrare non solo con il bigottismo che impera in paese ma anche con una insopportabile forma di bullismo e discriminazione in ambito scolastico, perpetrata da una compagna particolarmente ostile, da una classe odiosamente indifferente e da una professoressa abiettamente incapace di fare il suo mestiere.

Umiliata e trattata da inetta da chi dovrebbe saperne piuttosto cogliere bisogni e talenti, Addie trova conforto e supporto in una nuova compagna sensibile e leale e in una famiglia presente e attenta. Il rapporto con sua sorella maggiore Keedie, anche lei autistica e apparentemente più capace e avvezza a dissimulare la sua neurodiversità, costituisce in particolare per Addie un aiuto prezioso per capire che cosa accade dentro e fuori di lei, per conoscere il prezzo di un mascheramento forzato e per trovare il coraggio di portare fino in fondo la sua importante e simbolica battaglia.

Incredibilmente incisivo, Una specie di scintilla è il pluripremiato romanzo d’esordio della giovane scrittrice scozzese Elle McNicoll. La sua forza sta senz’altro in una serie di personaggi indelebili, di fronte ai quali è impossibile mantenere una posizione neutra, e nella capacità di raccontare ciò che la protagonista prova e pensa con chirurgica efficacia e assenza di retorica. L’autrice, che è a sua volta autistica, non ha infatti remore o difficoltà a spazzare via tanti luoghi comuni sulla sindrome che la contraddistingue – luoghi comuni legati, per esempio, all’intelligenza, all’autonomia, all’empatia o alla capacità di costruire legami – mettendo bene in chiaro che ci sono tanti modi di essere neurodivergenti e che tentare di inquadrare in maniera unica e stereotipata tutti coloro che rientrano nello spettro non ha dunque alcun senso. Nel solco di Temple Grandin, che echeggia chiaramente in quel “L’oceano ha bisogno di tutti i tipi di pesci, proprio come il mondo ha bisogno di tutti i tipi di mente” pronunciato da Keedie, Elle McNicoll fa del suo punto di vista interno una chiave efficacissima per offrire una lettura nuova e meno rigida dell’autismo, in cui multisfaccettatura e complessità trovino finalmente il loro posto.

Oltre a raccontare con grande chiarezza e semplicità cosa provano Addie o Keedie in determinate situazioni (per esempio di eccessivo affollamento, rumore o luminosità) e quanto per loro possa essere faticoso mascherare il proprio disagio per rispondere il più possibile alle aspettative dei neurotipici, la sua scrittura schietta ci mette costantemente nella condizione di chiederci come noi stessi ci poniamo di fronte a chi percepisce, registra e affronta la realtà in modo diverso da noi.

In questo modo, a dispetto di tanta comunicazione e letteratura che tende a dipingerla in bianco e nero come una tragedia assoluta o come una superdote tout court, la neurodiversità viene piuttosto dipinta, con una fitta serie di sfumature, come una specie di scintilla.  “Il mio autismo – dice Addie durante un toccante discorso all’assemblea cittadina – non è sempre un superpotere. A volte è problematico. Ma nei giorni in cui sento l’elettricità nelle cose, quando vedo dettagli che altri potrebbero non vedere, mi piace molto.

L’assiduo impegno della casa editrice Uovonero nel promuovere la conoscenza e il rispetto della diversità e nel facilitare processi di inclusione e partecipazione attraverso il potente strumento del libro trova in questa pubblicazione una delle sue manifestazioni più riuscite. Perché non solo Una specie di scintilla è un romanzo bellissimo e forte, ma anche perché prova a raggiungere quanti più lettori possibili grazie a caratteristiche tipografiche di alta leggibilità – con font testme, sbandieratura a destra, spaziatura maggiore – e alla possibilità di godere della storia anche in formato audio. In contemporanea all’uscita del romanzo in formato cartaceo è infatti previsto il rilascio della versione audiolibro, pubblicata dalla casa editrice indipendente Fabler Audio (scaricabile al costo di 13,99 € dal sito della casa editrice): una scelta, questa, che presenta almeno altre due implicazioni interessanti. Da un lato essa riflette anche nella forma l’attenzione di Uovonero alle diverse caratteristiche di bambini e ragazzi e dall’altro essa mette in pratica quello che è già un principio chiave del progetto I libri di Camilla, ossia che l’accessibilità più ampia non deve in alcun modo compromettere la qualità del prodotto e che, per garantire entrambe, spesso può essere necessario e utile mettere insieme le forze e collaborare con altre realtà. Anche questo, in fondo (ma non troppo), significa valorizzare la diversità.

Prima che sia notte

Ci sono libri che, solo a parlarne, si ha paura di sciuparli. Preziosi e densissimi, contengono tante gemme che ci si ritrova disorientati nel tentativo di restituirne a pieno la ricchezza. Prima che sia notte di Silvia Vecchini è proprio uno di quegli scrigni: 128 pagine per un racconto lungo di grande intensità che alterna con sapienza prosa e versi.

Protagonisti sono Emma e Carlo, due fratelli legatissimi. Carlo è sordo e cieco da un occhio ed è principalmente attraverso la LIS che comunica con il mondo esterno, famigliari in primis. Emma, dal canto suo, carica questa lingua di un valore affettivo straordinario: per lei non è solo una possibilità comunicativa tra le molte che sente proprie e che ama sperimentare, ma è la lingua più preziosa, quella che tiene aperte le maggiori possibilità di contatto e condivisione con Carlo e di cui, per questo, sente di non poter proprio fare a meno. Grande è dunque il suo timore quando il residuo visivo di Carlo peggiora, rendendo necessario un ennesimo intervento e tangibile la possibilità che anche la vista, così come già l’udito, venga persa del tutto dal fratello. Ma la forza di Emma è palpabile tra le pagine, così nel viaggio che porta Carlo oltre il mare, nei giorni del suo ricovero e nei mesi che seguono pregni di incertezza, lei gli è accanto. Come gli Hansel e Gretel protagonisti della poesia dell’autrice contenuta in In mezzo alla fiaba (Topipittori, 2015), Carlo ed Emma attraversano letteralmente e metaforicamente la notte, il momento buio per eccellenza, in cui chiunque ha bisogno di fidarsi di qualcuno. Ma chi di loro aiuta l’altro? In una vicinanza che dona sostegno a entrambi, si scopre una reciprocità tanto inattesa quanto commuovente. E intanto la vita intorno ai due ragazzi non si ferma: c’è la scuola, con enormi lacune e insperate sorprese come quella legata all’arrivo di un Maestro con la M maiuscola, ci sono le passioni, ci sono gli amici, ci sono gli amori.

Ecco allora che il cuore del libro si svela poco a poco ma in maniera evidente: per quanto abbia un ruolo narrativo di primissimo piano, non è la disabilità di Carlo ad essere al centro del racconto. Sono le emozioni, piuttosto, a condurre le danze, a dominare la scena e a tratteggiare il vero tema del romanzo. La paura, il senso di impotenza, la speranza, la rabbia, la gioia, il conforto: messi a nudo e a fuoco, questi risuonano profondissimi nel lettore, che si trova così a sperimentare una grande empatia verso i personaggi che si muovono tra le pagine. Carlo ed Emma esistono davvero, la loro è una storia reale che l’autrice conosce bene e racconta da vicino – questo si avverte con chiarezza man mano che la lettura avanza – ma è soprattutto la capacità di Silvia Vecchini di coglierne e restituirne gli aspetti più vicini a tutti noi, a renderla così vera e palpitante.

Insegnamenti e moniti sulla disabilità e su come comportarsi di fronte ad essa sono qui del tutto assenti (evviva!) e questa scelta, tanto apprezzabile quanto rara nel panorama della letteratura per ragazzi che alla disabilità dona spazio, amplifica la capacità del romanzo di risuonare autentico e forte dentro il lettore. Le parole misurate dell’autrice preferiscono in questo senso lasciare spazio a sentimenti riconoscibili da ciascuno, smuovendo pensieri individuali rispetto a tanti temi importanti, uno su tutti quello del bisogno innato e fortissimo di comunicare. Emma e Carlo trovano i loro modi per farlo, alcuni più codificati come la LIS altri più intimi e personali come i messaggi scritti a macchina ma senza inchiostro: ciascuno ha il suo ruolo e richiede un diverso grado di coinvolgimento e intenzionalità per essere colto.

Emma, poi, scova una lingua tutta sua per esprimere ciò che ha dentro, una lingua che la stessa Silvia Vecchini frequenta assiduamente e definisce una lingua sorella della LIS: è la poesia. Densa e potente, questa è per la protagonista come un modo di mettere la testa sott’acqua e guardare sotto la superficie. È una strada per dire l’indicibile – che nella disabilità, non a caso, trova ampio spazio – consentendo di pescarlo dal profondo, districarlo e tradurlo. Con i versi i pensieri assumono un nuovo ritmo e un nuovo punto di vista.

La storia, perlopiù narrata dall’esterno, assume infatti lo sguardo di Emma quando il racconto si fa poesia. Anche il font cambia in contemporanea, restituendo così all’occhio quello scarto narrativo che la mente e la pancia percepiscono altrimenti. Secondo un analogo principio di mutevolezza, quando il rischio di cecità totale si fa concreto per Carlo ossia nel momento più buio della storia, il libro sostituisce le pagine bianche a scritte nere con pagine nere a scritte bianche: una trasformazione grafica che corre in parallelo a quella emotiva e fisica, con un effetto tutt’altro che trascurabile sul lettore.

Da qualunque lato lo si guardi, insomma, Prima che sia notte rivela una preziosa cura compositiva, che investe tanto la forma quanto il contenuto e che lo rende un piccolo gioiellino. Quanto bisogno c’è, per i ragazzi e per gli adulti, di libri così: libri che sono insieme un balsamo e una scossa per l’animo, che aprono spiragli e talvolta vere e proprie finestre su realtà che spesso scorgiamo solo da lontano e che invece, attraverso le parole giuste, possiamo riconoscere, dire e sentire un poco nostri.

Golfo

Quando nasce Andy, suo fratello Tom è così felice da sentire di non aver più bisogno del suo inseparabile amico immaginario Figgis e così, da quel momento, Figgis diventa il nomignolo con cui Tom chiama affettuosamente Andy. Molto legato e protettivo nei confronti del piccolo, Tom si gode fino all’adolescenza la tranquillità di una vita normalissima in una normalissima famiglia inglese. La mamma – accudente, attiva e impegnata nel sociale – e il papà – ammirato imprenditore e giocatore di rugby – si spendono molto per crescere i figli in maniera serena. Ma, c’è un ma. Capita infatti di tanto in tanto che Figgis complichi la quotidianità familiare con quelle che tutti chiamano “le sue fisse”: momenti in cui si immedesima così tanto nei protagonisti di notizie sentite in tv o lette sul giornale, da non riuscire a far altro che pensarvi per giorni e giorni. Questione di empatia, un’empatia fortissima e del tutto fuori dal comune. Nella maggior parte dei casi le fisse portano un forte disagio in Figgis e un grande scompiglio in famiglia ma si risolvono abbastanza rapidamente. Purtroppo lo stesso non si può dire dell’ultima, sorta con l’inizio della guerra del Golfo. All’improvviso e sempre più spesso Figgis inizia ad assentarsi mentalmente pur senza muoversi da casa, a vivere la notte in una sorta di trance, a parlare arabo, a comportarsi in modo strano e a pronunciare con insistenza il nome di un certo Latif. Ricoverato in una clinica specializzata, Figgis finisce per non riconoscere più i suoi familiari, assorbendo a tal punto il dolore e la paura di un giovane soldato iracheno da vivere nei suoi panni 24 ore al giorno. Insieme al lungimirante direttore della clinica sarà proprio Tom, mai rassegnato, a intuire cosa stia davvero capitando nella testa del fratello e a stargli testardamente accanto fino a che questi non riesce, nel bene e nel male, a liberarsi dal suo incubo.

Intenso e coinvolgente, Golfo è un romanzo breve dal grande spessore narrativo. Scritto nel 1992, dedica attenzione a una guerra lontana nello spazio e nel tempo come quella del Golfo, ma la racconta in una maniera tale da farla suonare familiare anche a chi può essere nato una ventina di anni più tardi. Perché ben più di Saddam Hussein e degli attacchi in Iraq, al centro di questa storia coraggiosa e densa c’è il nostro modo di porci di fronte a notizie terribili. Quanto riusciamo a lasciarci toccare? Quanto ci sentiamo davvero implicati? E quanto riteniamo giusto attivarci per non lasciarci semplicemente scivolare addosso gli avvenimenti del nostro tempo? Robert Westall porta queste domande a ronzare insistentemente nella testa del lettore, senza fornire mai una semplicistica risposta. Sta a ciascuno di noi, in qualche modo, capire in che maniera e in che misura un po’ di Figgis possa dimorare dentro di sé.

Imperdibile per offrire una lettura forte e non scontata a ragazzi dai 12 anni in su, Golfo viene proposto da Camelozampa in una snella e maneggevole edizioni tascabile che mette in campo alcuni accorgimenti di alta leggibilità quali il font EasyReading, la spaziatura maggiore tra lettere, parole e righe e la sbandieratura a destra.

 

Le catastrofi del giorno

Non è facile affrontare le giornate quando i pericoli – dall’inquinamento agli incidenti aerei, dai malintenzionati ai cibi poco sani – sembrano nascondersi minacciosamente dappertutto e diventano un chiodo fisso. Così è per la dodicenne Majken che, con fare più vicino a quello di un’anziana che non a quello di una ragazzina, formula pensieri molto maturi e nient’affatto privi di allarmismo. Nella sua vita non c’è spazio – sembrerebbe – per frivolezze preadolescenziali, amicizie del cuore e pomeriggi spensierati: tutte cose che poco le interessano e che giudica per di più sciocche. Questo suo modo di porsi di fronte al mondo, che agli occhi del lettore e dei coetanei oscilla tra lo strambo e l’assillante, preoccupa non poco la madre, con la quale Majken vive sola e che un giorno, per convincerla a uscire, a distrarsi e a socializzare, le regala un cagnolino di cui occuparsi. È un cane bruttarello e indisciplinato, Blunder, ma il suo arrivo segnerà una svolta nella vita della ragazzina, consentendole di fare incontri preziosi e di incrinare la solida gabbia emotiva dentro la quale si è da tempo rinchiusa.

Con una narrazione che, seguendo il filo dei pensieri di Majken, dipinge il mondo con un filtro diverso da quello comune, Cilla Jackert ci fa affezionare, spesso scuotere la testa, talvolta chiedere “ma come ti viene in mente?” di fronte a una protagonista tanto bizzarra. Fino all’ultimo capitolo, dove un finale liberatorio, tanto per Majken quanto per chi legge, ci conduce nel passato della ragazzina, offrendoci uno spiraglio di comprensione ed empatia per quella sua interiorità tanto tormentata. Senza alcuna pretesa né attitudine prescrittiva, la storia di Majken ci illumina su cosa possano portare con sé un lutto e il dolore che ne consegue e su quanto valga la pena interrogarsi su ciò che si nasconde dietro un atteggiamento strano o persino respingente.

In Le catastrofi del giorno si ritrova e si riconosce il piglio schietto e a tratti cinico dell’autrice e la sua radicata familiarità con la città di Stoccolma, di cui pare di percorrere strade e quartieri, percepire odori e rumori, respirare la cultura, proprio come accadeva in Ci si vede all’Obse, altro bel romanzo di Cilla Jackert pubblicato nel 2018 da Camelozampa. Anche qui la stampa presenta font EasyReading e spaziatura maggiore che rafforzano la leggibilità del libro anche da parte di ragazzi con dislessia. Una più ariosa distribuzione del testo, per esempio con paragrafi distanziati e pagine meno piene, potrebbe consolidare ulteriormente l’accessibilità del volume.

I tre funerali del mio cane

A scrivere con ironia e garbo una storia che pone al centro un lutto, mica son tutti buoni. Guillaume Guéraud però lo è: il suo I tre funerali del mio cane è infatti un delizioso racconto in cui la morte di una creatura cara, come può essere un animale domestico, diventa il fulcro narrativo intorno a cui orbitano dialoghi autentici, piccole disavventure di cui sorridere e un’ampia gamma di sentimenti veri: il tutto senza quasi spostarsi dal giardino di casa dove il protagonista, sua sorella e i suoi amici decidono di seppellire il povero Babino, dopo che è stato malauguratamente investito da un’auto.

Alla serietà delle intenzioni e delle emozioni dei giovani personaggii fanno da contraltare una serie di piccoli imprevisti logistici e la spontaneità con cui Babino viene affettuosamente ricordato. Il racconto mescola così, senza soluzione di continuità, aneddoti buffi e schietta tenerezza. E alla morte, lungi da essere un tema su cui dissertare, viene restituito il ruolo di cosa della vita con cui prendere le misure tra una partita di calcio, uno scherzo tra amici e una corsa in un prato di tulipani.

Divertente e delicato, I tre funerali del mio cane è proposto da Biancoenero all’interno della bella collana Maxizoom dedicata a giovani lettori a cavallo tra la scuola primaria e la scuola media. Come gli altri volumi della collana, il libro vanta dunque un’impaginazione ariosa, una spaziatura maggiore, un font ad alta leggibilità e una stampa su carta color crema che ne agevolano l’accesso anche a bambini con dislessia. A tale scopo concorrono inoltre in misura non meno significativa anche scelte sintattiche e lessicali orientate alla linearità, oltre che una storia coinvolgente che sa parlare la lingua dei bambini.

Broncio e Coda

libro Quando desideri un animale da compagnia ma cani e gatti, per i tuoi genitori, sono fuori discussione, i pesci rossi possono essere un ottimo ripiego! È così che Broncio e Coda – muso lungo il primo, coda appariscente il secondo – entrano a far parte della famiglia di Teresa il giorno del suo compleanno.

Sistemati nella loro vaschetta nuova di zecca, i due pesci diventano presto degli insostituibili confidenti per la protagonista che, incuriosita dalle loro qualità e abitudini, ne trae sovente sagge lezioni di vita. Perché i pesci come Broncio e Coda saranno pure muti come si usa dire ma possono insegnarci molte cose: che addomesticare animali e persone non è affar scontato, per esempio, o che ci si può sentire soli anche quando si vive vicino a qualcuno. Come una sorta di filtro silenzioso attraverso il quale Teresa osserva le piccole e grandi cose della sua quotidianità, Broncio e Coda diventano parte integrante di una famiglia in cui nessuno resta del tutto immune al fascino dei pinnati e in cui le relazioni, soprattutto tra fratelli, si nutrono di piccoli screzi e rappacificamenti.

Proprio quelle relazioni, in cui – pesci rossi o no – non sarà difficile per il lettore riconoscersi, sono al centro del libro di Silvia Nalon, con le briose illustrazioni di Martina Motzo.

Più ricco di pensieri che di peripezie, Broncio e coda offre un’occasione di lettura quieta e piacevole in cui immergersi. Inserito nella collana leggimi di Sinnos, il libro presenta inoltre tutte le caratteristiche di alta leggibilità che agevolano la lettura anche in caso di dislessia.

Charlie e il misterioso professor Tiberius

Le giornate di Charlie si svolgono nel segno della regolarità: regolarità nel vestire (rigorosamente magliette neutre, felpe larghe, Crocs blu per stare in casa, nere per stare fuori), regolarità nel mangiare (preferibilmente se non esclusivamente nuggets di pollo), regolarità nel lavarsi le mani (né più né meno che 12 serie di insaponamento e risciacquo, una per ogni suo anno di vita), tanto per fare qualche esempio. Non sarà dunque difficile comprendere il tornado emotivo che investe Charlie quando suo papà, giornalista di guerra, torna ferito dall’Afghanistan e necessita di cure specifiche dall’altra parte degli Stati Uniti. In pochissimo tempo le routine e la rassicurante quotidianità di Charlie saltano e, come se non bastasse, sua sorella Davis, adolescente ribelle, convince lui e i gemelli Joel e Jake, pestiferi decenni, a mettersi in macchina per raggiungere la clinica in cui il papà è ricoverato.

Sarà un lungo e avventuroso viaggio quello che aspetta i quattro fratelli, accompagnati da una giovane di nome Ludmila il cui passato in Bosnia e il cui legame con il papà dei ragazzi si vela di mistero fino all’arrivo. Charlie accetta suo malgrado di partecipare alla spedizione, perlopiù motivato dalla possibilità di visitare i luoghi natali del professor Tiberius Shaw, ornitologo di cui è grandissimo estimatore e di cui possiede, per fortuite circostanze, un prezioso manoscritto. Non solo: quel viaggio di chilometri e chilometri attraverso montagne, foreste e pianure americane è per Charlie l’occasione perfetta per avvistare gli esemplari della Lista degli Uccelli da Vedere Prima o Poi che ha compilato tempo prima con il papà e a cui si aggrappa con tutte le sue forze nella convinzione che spuntarli tutti possa significare la guarigione del genitore. Un modo tutto suo, insomma, per tenere a bada le preoccupazioni e dimostrare un affetto che solo apparentemente non si manifesta.

Con il suo interesse spasmodico per gli uccelli, i suoi comportamenti bizzarri e la sua totale insofferenza verso norme sociali di dubbio senso, Charlie ricorda un poco Ted, il protagonista della serie Netflix Atypical, che condivide con il romanzo di Sally J. Pla una schiettezza ironica rispetto al tema della neurodiversità. Al seguito di Charlie e della sua sgangherata famiglia ci inoltriamo su territori che per la gran parte di noi risultano sconosciuti e sono resi insidiosi da pregiudizi e visioni stereotipate. Siamo portati a conoscere, per esempio, l’oppressione fisica che determinate sensazioni e situazioni generano in Charlie e lo sfiancante contrasto tra la sua difficoltà a esprimere sentimenti e la sua attitudine a provarli, ritrovando oltre che una storia appassionante e avvincente, anche un ritratto palpitante di cosa significhi interagire con il mondo e interpretarlo secondo schemi differenti.

Semplice la felicità

Il giorno del suo diciottesimo compleanno Chris si sveglia, trova la casa stranamente ordinata e si scopre improvvisamente solo: sua mamma se n’è andata. Per Chris, che cerca disperatamente di dare una giustificazione a questa scelta, inizia un percorso tutto nuovo in cui riscoprirsi inaspettatamente abile a cavarsela da solo, a trovare i suoi spazi, a coltivare le sue relazioni e a prendere in mano la sua vita. Non sarà facile perché, come lui stesso dice, “è un ragazzo in ritardo con la testa” perciò certe cose arranca ad afferrarle, ma con le mani ci sa fare e proprio da qui parte il suo riscatto. Assunto come portinaio e tuttofare dalla proprietaria del suo condominio, che per lui ha sempre avuto un occhio di riguardo, Chris inizia a destreggiarsi tra riparazioni e lavori di bricolage: mansioni che finiscono per assumere un ruolo quasi marginale in un percorso di crescita disseminato di avventure a dir poco rocambolesche.

Semplice la felicità del canadese Jean-François Sénéchal segue questo percorso dal punto di vista dello stesso Chris, che lo racconta come fosse in costante dialogo con la mamma. È dalle sue parole dunque che veniamo messi a parte delle tante domande che Chris si pone e delle risposte che prova a darsi, che ci facciamo strada nel suo groviglio di emozioni – che esser in ritardo con la testa non vuol dire affatto non provarne – e che conosciamo il variegato universo di personaggi che entrano a far parte della vita del ragazzo: dalla fidanzata Chloé con cui diventa a suo modo un imprenditore di successo, alla bella e impossibile Jessica che scopre in lui un cavaliere coraggioso; dall’amico e capo Joe che gli insegna a fare le riparazioni e che a Chris toccherà tirar fuori da un bel guaio, al papà mai conosciuto che a un certo punto spunta dal passato; dal prepotente Luc Boutin che bullo era da adolescente e bullo rimane da adulto, alla signora Sylvester, proprietaria di casa, che sa bene come la famiglia possa assumere molte forme. All’interno di questa rete di legami che piano piano si tesse, Chris è parte attiva, dà e riceve, in una costante rimodulazione del concetto di normalità.

La disabilità si fa qui filtro narrativo e motore degli eventi, molti dei quali certo accadono per l’ingenuità di Chris, ma è ben lungi dal monopolizzare il romanzo. L’abbandono, l’accettazione di sé e degli altri, la delusione e il riscatto, il rapporto con i genitori che ahinoi non si scelgono ma vanno accettati così come arrivano (interessante cambio di prospettiva!) sono in qualche modo temi ben più centrali e viscerali di Semplice è la felicità, e in questo sta forse il segreto della suo catturare il lettore e farlo sentire vicinissimo al protagonista. Quello di Chris è un racconto dannatamente irresistibile, in cui si ride e si piange, a volte anche nello stesso momento, perché ironia e sentimento vanno a braccetto senza esitazioni. E alla fine di quel ragazzo in ritardo con la testa ci si sente quasi orgogliosi, proprio come fosse uno di famiglia, e salutarlo a pagina 259 riesce davvero difficile.

Giacomo di Cristallo e altre storie

Tutti gli usi della parola a tutti, scriveva Rodari, non perché tutti siano artisti, ma perché nessuno sia schiavo. A cent’anni dalla nascita dello scritto di Omegna la casa editrice la meridiana trova un ottimo modo per omaggiare questo credo ancora attualissimo dell’autore: proporre una versione di alcune delle sue fiabe con i simboli della Comunicazione Aumentativa e Alternativa.

Terzo titolo della collana Parimenti, Giacomo di cristallo e altre storie declina in maniera molto concreta l’importanza di allargare l’accesso alla parola anche a chi normalmente ne viene escluso, e non lo fa solo diversificando i linguaggi con cui il lettore può accedere al testo ma anche privilegiando la traduzione di racconti dalla forte valenza civile.

Quello di Giacomo di Cristallo, per esempio, che anche rinchiuso in prigione ispira i suoi concittadini con trasparenti pensieri di protesta contro le ingiustizie della dittatura. Quello de La casa di tre bottoni, che pur essendo piccina piccina riesce a ospitare 13 persone e un cavallo, perché fatta con il cuore. Quello de La principessa allegra che vede le persone e le loro storie come unica possibilità di capire e compatire davvero i drammi della guerra. Quello di Re Mida e il brigante Fifone in cui la rinuncia all’oro porta a ricchezze ben più preziose. E quello di Teresin che non cresceva a causa del dolore ma che l’amore riesce a far diventare grande e che per amor di giustizia diventa persino una gigantessa.

Le storie contenute nel volume sono cinque e sono di diversa lunghezza. Tutte condividono una spiccata attenzione ai valori della solidarietà, dell’amore e della giustizia: caratteristica questa che le rende ideali per innescare una riflessione individuale e condivisa sulla storia e sull’attualità a misura non solo di bambino ma anche e soprattutto di lettore con qualche anno in più. I sentimenti positivi e negativi, le ingiustizie e il loro riscatto, la dittatura e il buon governo, la ricchezza e la povertà, solo per fare qualche esempio, sono infatti affrontati da Rodari con grande schiettezza e ben si prestano a solleticare l’immaginario e il pensiero di giovani adulti. Ecco dunque che l’inserimento di queste storie apparentemente semplici all’interno della collana Parimenti, che si rivolge principalmente ai preadolescenti e agli adolescenti e il cui sottotitolo è non a caso “Proprio perché cresco”, appare tutt’altro che stonata.

Come per i precedenti titoli, anche qui il testo è oggetto di una rielaborazione mirata a rendere alcune frasi più lineari, a esplicitare alcuni elementi sottintesi o metaforici e a contestualizzare alcuni dettagli: tutti accorgimenti che non intaccano la freschezza del racconto e la sua indole profondamente schierata. La linearità e la semplicità narrativa che sono proprie di Rodari, d’altro canto, si prestano con naturalezza a un lavoro di semplificazione e simbolizzazione che consenta l’accesso al testo anche da parte di lettori con autismo o difficoltà di comunicazione. La ricchezza del testo, dal canto suo, viene mantenuta grazie all’utilizzo della collezione di simboli letterariamente più versatili – quella dei simboli WLS – e alla scelta di simbolizzare tutti gli elementi della frase (compresi per esempio pronomi, articoli, preposizioni) e di inserire i qualificatori di tempo e plurale.

Il risultato è un volume che sposa semplicità narrativa ed espositiva e complessità di pensiero: un’ottima miscela per giovani lettori esigenti e curiosi.

Giacomo di cristallo e altre storie è reso disponibile dalla casa editrice anche in formato ebook, con le medesime caratteristiche compositive della versione cartacea.

Le parole scappate – nuova edizione

Due patologie differenti: Alzheimer e dislessia. Due età opposte: un’anziana e un bambino. Due difficoltà distinte: decifrazione e ricordo. Mariadele e suo nipote sembrerebbero aver poco in comune. Eppure…

Con Le parole scappate, Arianna Papini immagina e fa immaginare come possano convergere storie apparentemente diverse e prive di un binario condiviso. Attraverso un racconto poetico ed essenziale e illustrazioni dal tratto marcatamente sospeso, le parole si scoprono infatti elemento di incontro tra una nonnaa che difetta nella memoria e un ragazzino che stenta a leggere correntemente.

In entrambi i casi le parole si fanno protagoniste di perdite, di mancanze e talvolta di autentiche forme di sofferenza, ma diventano al contempo anche stimolo e strumento di riscatto. La narrazione, verbale e più genericamente artistica, diventa in effetti una possibilità di contatto attraverso la quale nonna e nipote trovano una personale e comune strada per l’accettazione di sé.

Ripubblicato a quasi dieci anni di distanza dalla prima edizione (quando Coccole books si chiamava ancora Coccole e Caccole!), Le parole scappate trova ora un nuovo formato, leggermente più ampio e con copertina rigida, ma anche una nuova grafica interna che valorizza figure e capitoli, che così proposti paion quasi poesie. Niente di più azzeccato: la mano di Arianna Papini, quando scrive e quando dipinge, ha infatti una grazia poetica di fronte alla quale è difficile restare indifferenti.

Il cavaliere saponetta e la terribile strega

L’avevamo lasciato al termine di una avventurosa caccia al drago, più lindo e scintillante che mai, ed ora eccolo di nuovo qui, il lustro e illustre Cavaliere Saponetta! Innamorato della sua Lucy, disordinata quanto basta per mettere alla prova la sua insofferenza per la confusione, il Cavaliere più pulito del reame è diventato papà. La faticosa e itinerante vita da paladino, tuttavia, lo ha tenuto a lungo fuori casa e lontano dal piccolo Max che nel suo ingenuo immaginario altro non è che un galantuomo in miniatura. Grande è, dunque, il suo sconcerto quando Lucy parte per il tradizionale Ballo delle dodici principesse e lui, rimasto da solo ad occuparsi del pargolo, scopre la vera natura del suo pupetto. Quel poppante non sa mangiare con le posate, pulirsi la bocca col tovagliolo, dire pardon quando gli scappa un ruttino né lavarsi con il sapone! Per non parlare dell’odore insopportabile che con frequenza lo avvolge: per il Cavaliere Saponetta è davvero troppo e così si convince a cercare l’aiuto di una strega. Scoperto, però, che questa intende recarsi al Ballo delle dodici principesse per avvelenarne almeno una e prenderne il posto, il Cavaliere rivede le sue priorità, si carica il puzzolente figliolo a cavallo e insieme al fido apprendista Elmo parte all’inseguimento della strega. Segue un’incalzante catena di tallonamenti, travestimenti e rivelazioni che fino all’ultima riga fa fare al lettore il pieno di risate.

Con questa nuova avventura dedicata al paladino della pulizia, intitolata Il Cavaliere Saponetta e la terribile strega, Mattia de Leeum si conferma abilissimo nel tessere trame tutto sommato semplici ma dal ritmo galoppante e dallo spirito irriverente. Stare al passo del Cavaliere Saponetta significa lasciarsi travolgere da imprevisti spassosi e situazioni buffe che rovesciano il côté più prevedibile delle fiabe pur conservandone ambientazioni, personaggi e motivi. Con un effetto divertente e spiazzante, l’autore riesce a mettere in discussione alcuni cliché di genere, ma più in generale sociali, tenendosi però alla larga dalla pesantezza delle storie a tema così come dal rischio di trasformare il rovesciamento di uno stereotipo in uno stereotipo nuovo, solo di segno opposto. E questo accade perché le sue sono prima di tutto buone storie con ottimi personaggi: tutto il resto viene dopo, di conseguenza. Anche per questa ragione il libro scorre così liscio e piacevole, solleticando anche chi della lettura proprio non vuole saperne.

Sinnos, che di solletico al lettore se ne intende eccome, lo colloca non a caso tra I narratori a colori, una collana che propone storie spigliate e ricche di immagini, oltre che stampate con font leggimi e con caratteristiche tipografiche di alta leggibilità. Il lettore a cui Il Cavaliere Saponetta e la terribile strega idealmente si rivolge, che potrebbe essere un bambino dagli 8 anni in su che con la lettura inizia a prendere dimestichezza ma che può ancora facilmente inciampare, viene così stuzzicato con una storia di un certo corpo ma al contempo rassicurato con un’impaginazione gradevolissima e incoraggiante. Perché diventare genitori è un’impresa epica (che si sia o meno Cavalieri Saponetta), ma crescere lettori può non essere da meno!

Il mare non serve a niente

Dalla finestra di camera sua, in un palazzo di cento piani, la piccola Anna coltiva un desiderio: vedere il mare. Con questo riempie giorno dopo giorno le sue fantasie e i suoi sogni, che si popolano così, ininterrottamente, di onde e di pesci. I suoi genitori si mostrano però sordi alle sue insistenti richieste: il mare è pericoloso, lontano e freddo, dicono. Il mare non serve a niente. Ma Anna è testarda e non molla, nemmeno quando i suoi genitori le regalano un pesce rosso nel tentativo di addomesticare il suo sogno e placare la sua insistenza. Con lui – che non a caso si chiama Moby Dick – Anna compirà un viaggio fantastico sulla scia di una balena. Sarà per lei la prova che una sedia rotelle non può porre limiti ai desideri e che una buona dose di coraggio e perseveranza, può far prendere loro il largo.

Il mare non serve a niente è un albo scritto da Michele Rossi e illustrato da La Bigotta.  Le sue ampie pagine bianche su cui si stagliano figure dai tratti metaforici che giocano con linee di vario spessore ed effetti puntinati, sono piacevoli e suggestive. Ad esse si affiancano testi asciutti, che privilegiano il dialogo e non mancano di esplicitare il preciso messaggio del volume: l’importanza di credere sempre ai propri sogni perché in qualche modo volere è potere. Un po’ scivolosa dal punto di vista retorico e non di rado battuta nei libri per bambini che approcciano il tema della disabilità, quest’idea viene qui sviluppata sottolineando il ruolo che l’immaginazione (anche coltivata attraverso i libri) e il coraggio di buttarsi (in tutti i sensi) possa giocare nel far sì che limiti e difficoltà non ostacolino a prescindere e senza fondamento il diritto di ciascuno di vivere i propri desideri e le proprie passioni.

Non è colpa della pioggia

Cape cod è una tranquilla località di villeggiatura balneare, uno di quei luoghi che stagionalmente cambia volto, i cui residenti si riconoscono dal modo di parlare e dalle caffetterie frequentate. Dalsie, gambe veloci e grande passione per i temporali, è una di loro: vive qui da sempre, cresciuta dai nonni fin da quando, piccolissima, la madre l’ha abbandonata per motivi di dipendenze. In un quartiere in cui tutti si conoscono e le cui storie familiari si intrecciano, Dalsie abita con la nonna e la aiuta con le pulizie alberghiere: lavoro che consente loro di vivere dignitosamente ma non senza qualche preoccupazione. Ogni anno la ragazzina attende con trepidazione l’estate che porta con sé la sua amica storica Brenda con cui da tempo immemore condivide piccoli riti, passioni e giochi.

Un anno, però, Brenda arriva e a sorpresa appare diversa, comportandosi in modo strano: i loro segreti sembrano non interessarle più e alla compagnia di Delsie preferisce quella di una nuova ragazza di nome Tressa tanto sicura di sé quanto prepotente. Dopo qualche goffo e doloroso tentativo di ritrovare il feeling perduto, Delsie fa i conti col fatto che esistono amicizie solide ed altre meno affidabili ma questo scombussolamento emotivo porta a galla altri tormenti interiori, fino ad allora sopiti: quello per l’abbandono della madre, in primis. Sarà l’incontro con un ragazzo nuovo del posto – Ronan – e la rete di sicurezza tessuta negli anni dalla famiglia di Delsie ad accompagnarla nell’occhio di questo ciclone emotivo fino a farle ritrovare una nuova prospettiva da cui godere di un tempo finalmente sereno.

Capace di scavare nei sentimenti con precisione chirurgica ed empatia rara, Lynda Mullaly Hunt ci offre un nuovo romanzo in cui la vita vera scalpita. Dentro Non è colpa della pioggia ci sono infatti le tante sfumature dell’amicizia, la fatica di crescere, i legami di sangue e quelli elettivi: temi cari all’autrice che già vi aveva dedicato attenzione in Una per i Murphy. Ci sono le mancanze e i “cosa avrebbe potuto essere se…”, il coraggio di essere quello che si è e la consapevolezza che non sono gli errori a definirci ma ciò che decidiamo di fare di loro. Quello edito da Uovonero è, insomma, un libro denso e avvincente, con tante cose da dire. Qui si affollano molti interrogativi e qualche risposta in cui i giovani lettori possono trovare rispecchiamento e forse conforto. L’autrice prende infatti di petto questioni che li toccano da vicino, qualunque sia la loro storia, e sa parlare loro con una schiettezza pacata che fa leva su immagini e metafore di grandissima efficacia. Questo, unito alle caratteristiche di alta leggibilità con cui il libro è stampato, ne fa una proposta di grande valore e appeal anche per quei ragazzi che dalla lettura faticano maggiormente a lasciarsi coinvolgere.

Io non sono sola

Giulia ha poco più di una manciata d’anni ma di una cosa è già più che certa: “Quando i grandi vi rispondono “Vediamo”, stanno solo prendendo tempo prima di rifilarvi un bel… NO”. La convinzione, maturata nel tempo a suon di cuccioli e maschere di carnevale richiesti e mai ottenuti, attende l’ennesima scontata conferma ora che Giulia ha appena avuto una sorellina – Anita – e che tutta in famiglia sembra ruotare intorno a lei. “Vediamo”, è infatti la risposta della mamma quando Giulia le chiede speranzosa se per Natale andranno comunque in montagna, come di consueto, insieme a Giulia, a Toni e alle loro famiglie. È un appuntamento che Giulia aspetta tutto l’anno ma… Vediamo, perché la mamma deve riposare, Anitina ha un mucchio di esigenze, in montagna fa troppo freddo per un neonato… insomma, la solfa è nota. E così Giulia, indispettita da questa prospettiva, inizia a vedere non troppo di buon occhio quella sorellina inattesa, complici anche tutti quegli adulti che non la piantano di ripeterle quanto debba essere contenta di non sentirsi più sola. Sarà un Vediamo dall’esito insospettabile ad aprire, per Giulia, una possibilità di considerare la piccola Anitina con sguardo più conciliante e di scoprire che per apprezzare la compagnia di qualcuno non si ci deve necessariamente prima sentire soli.

Io non sono sola è un racconto breve adatto a bambini che iniziano a mollare un po’ da soli gli ormeggi della lettura. Ironico e a tratti impertinente, il testo di Mila Venturini risulta godibile ben al di là della questione della nascita di un fratellino che più che un tema appare qui come un motore narrativo. Supportato da illustrazioni frequenti, sorridenti e capaci di restituire la disordinata complessità di pensiero e di azione dell’infanzia, Io non sono sola può contare inoltre su caratteristiche di alta leggibilità che lo rendono una lettura più amichevole anche in caso di dislessia.

Cibo, ragazze e tutto quello che non posso avere

Se l’estate dei suoi 15 anni avessero detto a Andy che giusto qualche mese più tardi sarebbe diventato un campione popolare di football, circondato di amici e capace di chiedere a una ragazza di uscire, a stento avrebbe potuto crederci. Abituato a fare di tutto pur di non farsi notare – cosa piuttosto difficile visti i suoi 140 kg – e a mantenere un basso profilo per evitare prese in giro e bullismo, il protagonista del bel romanzo di Allen Zadoff si considera lontano anni luce dalla possibilità di cambiare il suo modo di guardarsi e di essere guardato. E invece qualcosa di inaspettato succede nella sua vita, scolastica e non. Complici il desiderio di far colpo su April e un posto vacante nel ruolo di centro nella squadra della scuola, Andy inizia ad allenarsi con O. e gli altri ragazzi del football, sperimentando la carica dello spirito di squadra, l’ebrezza della notorietà e il coraggio che può venire dalla loro combinazione E poco importa se una serie di incontri e opportunità apparentemente fuortuiti si rivelano essere precise mosse di un piano di cui Andy non è che una pedina. A lui spetterà comunque il guadagno più grande: la spinta necessaria a uscire dalla propria comfort zone, una maggiore capacità di ascoltarsi e una consapevolezza del tutto nuova di sé. Esattamente quello che gli serve per chiedersi chi davvero voglia essere e come possa diventarlo.

Straordinariamente vicino alle frequenze adolescenziali, Cibo, ragazze e tutto quello che non posso avere è un romanzo young adult che sa muoversi con grande naturalezza tra la leggerezza frivola di questa età e la pesantezza granitica dei cambiamenti che essa reca con sé.  Molto credibili nei pensieri e dei dialoghi, Andy e i personaggi che lo circondano – dai genitori in crisi, alla sorella con abitudini alimentari opposte alle sue, dall’amico storico con cui condivide le simulazioni ONU alla variegata gamma di compagni di scuola – danno vita a una storia tanto coinvolgente quanto capace di sedimentare. Scorrevole e ben ritmato, oltre che stampato con le caratteristiche di alta leggibilità che contraddistinguono la produzione di Biancoenero, il romanzo di Allen Zadoff sembra cucito apposta per incentivare la lettura anche da parte dei ragazzi meno motivati o con difficoltà legate alla dislessia. Carta vincente, in questo senso, è l’invidiabile ironia che l’autore regala al suo protagonista, rendendolo immediatamente familiare e capace di restituire vissuti complessi senza cedere di un millimetro al vittimismo.

Madelief. I grandi, buoni giusto per farci il minestrone

Avevamo lasciato la vulcanica Madelief, al termine del volume Madelief. Lanciare le bambole, in procinto di salutare la sua casa e i suoi amici e di traslocare in un’altra città con la mamma. E proprio in questa nuova città la ritroviamo ora, all’inizio del secondo volume che la vede protagonista, intitolato Madelief. I grandi, buoni giusto per farci il minestrone.

Senza i suoi compagni storici di giochi – Roos e Jan-Willem – e nel pieno della chiusura della scuola, Madelief rimugina sull’ingiustizia di quel trasferimento e si guarda intorno alla ricerca di qualche appiglio che restituisca alle sue giornate vuote una parvenza di normalità. Impegnata più del solito nel suo lavoro, la mamma di Madelief è particolarmente assente e, nonostante sia affidata per alcune ore al giorno a una giovane tata di nome Mieke, la bambina lamenta con insistenza questa assenza ai suoi occhi ingiustificata.   Animata da un sentimento di incomprensione e di insofferenza verso il mondo degli adulti, così ottusi e noiosi, Madelief allarga il raggio delle sue esplorazioni e si spinge fino a una casa abbandonata: un rifugio misterioso, un luogo perfetto per starsene in pace e coltivare una nuova amicizia con un bambino da poco conosciuto di nome Robbie. Con lui Madelief condivide segreti, scorribande e sentimenti contrastanti: piccoli avvenimenti ordinari che, grazie al talento inestimabile di Guus Kujer, dipanano un fluire narrativo che sembra di poter toccare e vivere da dentro.

Stampato con caratteristiche di alta leggibilità, proprio come l’episodio precedente, Madelief.  I grandi, buoni giusto per farci il minestrone si caratterizza però per una struttura leggermente differente. Mentre nel primo volume, infatti, ogni capitolo proponeva un’avventura quasi a sé stante, qui i capitoli risultano più legati tra loro a formare un’unica vicenda. Rimane invariata, tuttavia, la loro brevità che ne agevola l’approccio anche da parte di bambini che percepiscono il testo scritto come un possibile ostacolo con cui cimentarsi.

 

 

 

 

 

 

Vi stupiremo con difetti speciali

Proposto con un titolo ad effetto (Vi stupiremo con difetti speciali), pubblicato e promosso da una grande casa editrice (Giunti) e fortemente voluto da un papà (Luca Trapanese) recentemente divenuto noto per una vicenda ampiamente coperta dai media (l’adozione di una bambina con Sindrome di Down di nome Alba), il libro scritto da Patrizia Rinaldi e illustrato da Francesca Assirelli arriva circondato da altissime aspettative. Aspettative che, malgrado l’eccellenza del progetto, finiscono però per risultare deluse a lettura compiuta.

Si avverte un gusto dolceamaro, in effetti, tra le pagine di questo libro perché, a fronte di vicende fortissime a cui con coraggio viene dedicata attenzione e di illustrazioni che non mancano di tocchi poetici, non si può fare a meno di percepire un marcato e mai nascosto intento pedagogico, di vedere quelle vicende perdere per strada la loro qualità di Storie con la S maiuscola e di sentirsi smarriti di fronte a un testo che vorrebbe parlare la lingua dei bambini (accogliendo in questo senso anche espressioni semplici o colloquiali ma ampiamente discutibili in un’ottica di rispetto della disabilità come per esempio “bimba Down”) ma che si rivolge in realtà, nel contenuto, prettamente ad adulti.

E così, della storia di Alba che, nonostante o proprio grazie alla sua Sindrome, trova l’amore incondizionato di un papà; di Akin che fa dono agli adulti della sua fiducia grazie alla quale si risolleva – fisicamente e simbolicamente – da una situazione di grave svantaggio; e di Huang che viene dato dai medici per inadatto alla vita ma poi sorprende tutti con un canto solo suo, si coglie solo una flebile traccia, resa sfocata dalla folta schiera di riflessioni filosofiche che l’accompagnano e che forse poco si prestano a fare del libro uno strumento incisivo per consentire alla disabilità di entrare nell’immaginario dei più piccoli e arrivare, così, a dialogare con loro su di un tema così delicato e potenzialmente distante dalla loro esperienza quotidiana.

Petit Penguin est dans la lune (Francia)

Routine e incombenze di ogni giorno portano via una sacco di tempo prezioso alla quotidianità più piacevole e affettuosa di una famiglia e così mamme e papà – umani o pinguini che siano – si trovano frequentemente a sollecitare i loro cuccioli affinché si sbrighino ad alzarsi, far colazione, lavarsi o correre a scuola, dando luogo a un carico emotivo che può essere difficile gestire per i piccoli. Così accade a Petit Pengouin che, strigliato e rincorso, si ritrova spesso in lacrime e finisce per pensare che i suoi genitori non gli vogliano più bene. Ma è davvero così? La rivelazione di mamma e papà porterà una nuova inattesa luce sui frequenti rimbrotti.

Contraddistinto da illustrazioni tenere in cui il piccolo lettore può facilmente immedesimarsi e da un racconto lineare e piacevolmente ricorsivo, Petit Pingouin est dans la lune racconta una storia di emozioni quotidiane attraverso il testo alfabetico e una sua particolare conversione in LSF (Langue des Signes Française), chiamata Français signé (francese segnato) in cui i segni si modulano sulla sintassi del francese scritto. Quella proposta dal volume non è dunque una vera e propria traduzione in Lingua dei Segni, rispettosa delle peculiarità sintattiche e compositive di quest’ultima, quanto piuttosto un adattamento che favorisce un primo avvicinamento (tanto per i bambini sordi quanto per i loro compagni) alla comunicazione propria di una parte della comunità non udente.

Se la conversione non è dunque (consapevolmente) rigorosa, la rappresentazione grafica dei segni è davvero molto precisa e capace di indicare in maniera piuttosto chiara i movimenti che occorre riprodurre, anche quando è prevista una sequenza complessa. L‘invito a cimentarsi con una narrazione gestuale  – per chi la conosce, così come per chi ne è totalmente digiuno – si fa così particolarmente irresistibile e accessibile. Il libro si presenta in definitiva come un supporto prezioso non tanto per consentire di godere direttamente della storia in LFS quanto per familiarizzare con quest’ultima modalità comunicativa, grazie anche alla chiara descrizione dei diversi segni che si trova in chiusura del volume.

Il volo di Nura

Con Il volo di Nura, racconto illustrato dal sapore antico, le Edizioni Terra Santa inaugurano una collana interessante, intitolata Gli Aquiloni e contraddistinta da veste grafica molto curata e da caratteristiche di stampa ad alta leggibilità. Insieme al libro di Paola Caridi e Maria Teresa de Palma, vi si trovano da gennaio 2020 anche le Favole di pace di Mario Lodi e figureranno a breve due titoli dalle firme significative quali quelle di Daniela Palumbo e Roberto Piumini.

Il volo di Nura, dal canto suo, anticipa bene le qualità della collana, presentandosi come un volume raffinato dalla copertina rigida, dall’impaginazione ariosa e dalle illustrazioni suggestive. La storia che contiene è quella della giovane Nura, amante del racconto orale e animata da un sentimento misto di incanto e timore nei confronti dello zio Abu-Elias da tutti apprezzato come cantastorie. Anche Nura vorrebbe seguire le sue orme ma la tradizione non prevede una simile carriera per le donne. A trasformare il sogno della bambina in una realtà adatta a tempi moderni, sarà l’incontro onirico con un personaggio misterioso e un po’ inquietante: un baffo parlante di Abu Elias. In sua compagnia, Nura compie un viaggio notturno sulla città di Gerusalemme scoprendone da una prospettiva insolita bellezze e ferite e trovando nella cultura profonda che la città custodisce l’ispirazione necessaria per seguire il suo destino.

Suggestivo ma non immediatissimo, per via di una narrazione riflessiva più che votata all’avventura e di una profonda ricchezza di riferimenti alla storia e alla cultura araba, il racconto di Paola Caridi propone una lettura sospesa tra dimensione reale e dimensione onirica, la cui commistione viene amplificata dalle affascinanti e armoniche illustrazioni di Maria Teresa de Palma. Se può risultare un po’ ostico, soprattutto se proposto a lettori che vedono nel libro un potenziale scoglio, Il volo di Nura si presta però bene a offrire uno spunto intrigante per approfondire insieme ai giovani lettori  la complessità della cultura racchiusa in una città straordinaria come Gerusalemme.

Shotaro. Il bambino che voleva diventare samurai

C’è il fascino dell’antica cultura giapponese. C’è il brivido della battaglia e dello scontro senza concessioni. C’è una bella riflessione sui limiti e sul loro superamento, per nulla appesantita da moralismo spicci. E c’è il calore dell’amicizia e dell’affetto più profondi. Tutto questo c’è in Shotaro, il bambino che voleva diventare samurai, avvincente romanzo per ragazzi e ragazze coraggiosi e prima prova d’autore della scrittrice umbra Maria Giulia Cotini.

Protagonista è un ragazzo di nome, per l’appunto, Shotaro. Nato in una famiglia di samurai molto nota e rispettata, Shotaro desidera con tutte le sue forze seguire le orme del padre. Nessuno intorno a lui sembra però credere che possa riuscirci. Shotaro presenta infatti una disabilità motoria che gli rende difficoltoso camminare e reggersi in piedi e questo sembrerebbe impedirgli una carriera da guerriero e destinarlo piuttosto a quella da monaco. La determinazione di Shotaro, la guida di un saggio abate e l’incontro decisivo con alcuni coetanei e maestri rimescolano però le carte in gioco, costringendo tutti a rivedere i propri pregiudizi.

Al monastero in cui viene accolto Shotaro arrivano infatti un giorno un ronin, ossia un samurai disonorato, di nome Kenwa  e suo figlio Akira. Ripudiati dalla comunità, i due ricevono comunque la fiducia dell’abate e vengono da questi incaricati di addestrare i giovani del villaggio, così che possano essere pronti a difendere la comunità dall’imminente attacco di un dispotico signore feudale. La condizione posta dall’abate è che anche Shotaro riceva gli insegnamenti e da qui, per il ragazzo, inizia un percorso del tutto inatteso che lo porterà a imparare tecniche di combattimento adatte alle sue abilità, riconoscendo e sfruttando i suoi punti di forza, a frequentare la più prestigiosa accademia per Samurai della zona, resistendo a prove durissime e sfidando con coraggio bulli e prepotenti, e infine a prendere parte a un piano rischiosissimo da cui dipenderà la salvezza del padre e la libertà del villaggio.

Bellissima e significativa, in particolare, la scena in cui Shotaro incontra per la prima volta Akira. Qui emerge infatti l’indole tenace di chi cerca di sfuggire al proprio destino, quell’indole che unisce nel profondo i due personaggi nonostante la loro apparente diversità e che fa la differenza nel portare il racconto verso un lieto fine: un lieto fine avventuroso e travolgente in cui Shotaro si mostra in tutta la sua forza, senza mai tuttavia sposare l’idea che nulla sia impossibile. L’idea che permea l’intero romanzo è infatti che i limiti non siano necessariamente superabili ma piuttosto che ciascuno debba avere l’opportunità di sfidarli.

L’uovo azzurro

Ohibò, un uovo azzurro a Boscoscuro è un’autentica novità. Di chi può essere? Cosa ne uscirà? Sarà pericoloso? Questi e altri interrogativi impellenti si diffondono tra alberi e tane, dopo che LeprotTina e ZamPaolo incappano per caso nell’insolito uovo e lo portano alla conoscenza della comunità del bosco. A nulla servono i consigli della saggia TalpAnna: a Boscoscuro si crea un gran scompiglio mentre confusione e timore spianano la strada a pregiudizi e ostilità nei confronti del diverso. E così, la generosa disponibilità di Zampacorta, che si offre di covare l’insolito uovo, viene accolta dagli altri abitanti con disprezzo e ostilità, costringendo il tosto coniglietto a mettere in campo affetto incondizionato e determinazione per portare a termine il suo impegno. Ed eppure, alla fine, sarà la sua tenacia gentile ad averla vinta e a dare tutto Boscoscuro una preziosa lezione di accoglienza.

L’intenzione di lanciare un messaggio forte al lettore in favore dell’apertura e del rispetto della diversità – sia essa fisica, legata alla provenienza o di qualunque altro tipo – traspare in maniera piuttosto esplicita all’interno del testo che in certi punti risulta, per questa ragione, un po’ appesantito. Per il resto il racconto si popola di numerosi personaggi del bosco che incarnano qualità positive o negative del tutto ravvicinabili a quelle umane. L’uovo azzurro si presenta infine con caratteristiche di stampa ad alta leggibilità quali il font Easyreading, la spaziatura maggiore tra lettere, parole e righe (ma non tra paragrafi) e la sbandieratura a destra, intendendo così rivolgersi a un pubblico che non escluda i giovani lettori con dislessia.

Mi chiamo Nina e vivo in due case

Trovare il modo di raccontare ai bambini un’esperienza delicatissima come la separazione dei genitori e di far capire loro che l’amore per i figli non ne esce in alcun modo sminuito o snaturato non è cosa facile. Eppure quell’esperienza è reale e diffusa. Ben venga allora il supporto che può fornire un libro come Mi chiamo Nina e vivo in due case, che al tema dedica parole e figure ricercate con cura.

La storia e la voce sono quelle di Nina che mette subito a parte il lettore della sua situazione abitativa: “Papà vive in una casa. Mamma in un’altra. Io vivo in due case”. Quando incontriamo Nina, cioè, la separazione dei suoi genitori è già avvenuta e il tempo in cui baci affettuosi e abbracci a sandwich erano un affare a tre, fa già parte del passato. In mezzo c’è stata la tempesta, fatta di brutte parole scambiate tra i grandi e ascoltate di nascosto dalla piccola, di decisioni drastiche e di quotidianità scombussolate: una tempesta che non cessa di colpo ma che continua ad avere degli strascichi, per esempio nei pensieri nebulosi degli adulti che appaiono meno attenti, presenti e severi. E tuttavia dalla tempesta si può uscire e questo accade più facilmente se mamma e papà sono i primi a ricercare un nuovo equilibrio in cui le parole e i baci possono tornare a scorrere, anche se a due invece che a tre, e in cui il vivere in due case diverse si trasforma in qualcosa che è strano sì, ma non è poi così male.

Mi chiamo Nina e vivo in due case si presenta insomma come un libro il cui tema è netto ed esplicito e il cui obiettivo è quello di dare una rappresentazione a quel turbinio di sentimenti spesso contrastanti che una separazione reca con sé. Lo fa con parole dirette che non nascondono la difficoltà, la nostalgia e il risentimento (ma che non li lasciano soli) e con illustrazioni delicate e particolarmente attente alle espressioni del corpo e del viso dei personaggi.

A catalogo per Clavis dal 2009, il libro viene ora ripubblicato, a distanza di dieci anni, anche in una versione in simboli. Realizzata secondo il modello inbook, con simboli WLS e nel rispetto di un processo di simbolizzazione che non tralascia alcun elemento della frase, questa versione del libro di Marian De Smet e Nynke Talsma sottolinea l’importanza di fornire strumenti utili per esplorare sentimenti e cambiamenti importanti anche a bambini che manifestano difficoltà comunicative: bambini che non di rado presentano anche marcate difficoltà ad accettare piccole e grandi modifiche alle proprie abitudini di vita.

Che bambino fortunato!

Parlare di fortuna in relazione alla disabilità può portare qualunque discorso, letterario e non, su di un terreno molto molto sdrucciolevole. Il rischio di scivolare dentro una vuota idealizzazione o di inciampare sul politically correct è infatti elevato. Quel rischio, l’albo illustrato Che bambino fortunato! se lo accolla con coraggio, camminando pagina dopo pagina lungo un crinale impervio su cui però mantiene sempre un certo equilibrio.

Come ci riesce? Probabilmente mettendo in scena dei personaggi credibili e una quotidianità concreta che permette a un cambio di prospettiva di fare capolino tenendo però i piedi ben piantati a terra. Protagonista e voce narrante del libro di Lawrence Schimel e Juan Camillo Mayorga è un bambino vivace che ama i soldatini, le storie e gli animali.  Queste passioni le condivide in parte con il suo amico Carlo, con cui conduce per interi pomeriggi battaglie da salotto ed esplorazioni preistoriche, e in parte con il fratello Davide, non vedente, con cui si immerge in appassionanti letture serali e da cui si lascia conquistare a suon di invenzioni fantastiche. Ma i rapporti si nutrono di differenze oltre che di somiglianze e così, nel suo racconto, il bambino sottolinea non solo ciò che lo avvicina anche ciò che lo distingue da Carlo – che per esempio ha un’iguana, può lasciare i soldatini in giro per casa, è figlio unico e deve rifarsi il letto ogni mattina – e da Davide – che non prende parte alle battaglie ma che ha potuto avere una cane tutto suo senza nemmeno chiederlo, dispone di una memoria eccezionale e può leggere anche quando la luce viene spenta. Nella vita di Davide, così come in quella di Carlo e in quella del protagonista, insomma, la fortuna non manca: semplicemente assume forme differenti che in fondo consentono a quel titolo spiazzante – Che bambino fortunato! – di potersi attagliare ugualmente a ciascuno di loro.

Nel caso di Davide, in particolare, la fortuna non ha a che fare in senso lato con la sua disabilità: non è la cecità in sé, cioè, ad essere una fortuna ma il fatto che, in parte a causa o in virtù di essa, il bambino abbia sviluppato qualità (come la memoria) e disponga di possibilità (come il possesso di un animale domestico) che il protagonista invidia. Il senso di questa fortuna non sta dunque in astruse e pseudoliriche interpretazioni della disabilità (non infrequenti anche nei libri per l’infanzia) che vogliono mostrarla a tutti i costi come un dono o addirittura come un superpotere, ma nell’apprezzamento di quanto di buono e di bello essa rechi con sé. La forza di Che bambino fortunato! sta proprio in questo: nel cogliere un bicchiere mezzo pieno a misura di bambino, un bicchiere fatto di cose concretissime come una lettura prolungata e proibita sotto le coperte o una memoria portentosa, funzionale al bisogno di muoversi in sicurezza e autonomia per casa o per strada.

Peraltro, pur acquisendo uno spazio centrale all’interno della storia, la disabilità di Davide non viene mai esplicitata a parole ma viene pian piano svelata e resa evidente dal contesto e dalle illustrazioni, queste ultime particolarmente gustose e fresche, nel loro tratto dinamico che ricorda un po’ Serge Bloch. Quegli occhi che Mayorga disegna sempre chiusi e che inizialmente potrebbero parere segno di immersione nella musica o assaporamento di una bevanda fresca, divengono cioè segno di una differenza fisica solo dopo un po’, quando gli indizi disseminati qua e là iniziano ad accumularsi e la personalità di Davide ha avuto modo di farsi apprezzare dal lettore senza pregiudizi. Davvero efficace, in questo senso, è la sinergia narrativa che si instaura tra testo e immagini che dialogano senza risultare mai le une una mera ripetizione dell’altro (e viceversa) e senza lasciare che l’intento didascalico prenda il sopravvento sul desiderio di raccontare una bella storia di amicizia e fratellanza.

Ad arricchire il volume, già di per sé interessante, la presenza tra le pagine di un brevissimo testo in Braille che offre al lettore l’occasione di scoprire e sperimentare questa scrittura.

Buon compleanno!

Storysign è un’app straordinaria lanciata nel 2018 da Huawei e sviluppata in collaborazione con numerosi partner tra cui l’Unione Europea dei Sordi e la British Deaf Association. L’applicazione, scaricabile gratuitamente e disponibile sia per Android sia per iOS, consente di arricchire alcuni libri cartacei di una simultanea traduzione in Lingua dei Segni condotta da un avatar di nome Star. Avviando l’applicazione sullo smartphone e inquadrandovi la pagina di uno dei libri a catalogo, si avvia infatti un video in cui Star interpreta il testo in Lingua dei Segni.

Ciò che rende davvero nuova questa proposta è il fatto che il video si attiva solo nel momento in cui lo smartphone inquadra la pagina corrispondente. Esso inoltre non solo restituisce la traduzione in Lingua dei Segni ma ne sottolinea anche la puntuale correlazione con il testo originale grazie a un efficace sistema di evidenziazione cromatica. Quella che si innesca così tra libro cartaceo e tecnologia digitale è una necessaria e funzionale sinergia che, valorizzando e intersecando le specificità di ciascun mezzo, migliora concretamente le possibilità di lettura dei bambini con disabilità (uditiva in questo caso).

Tra i primi titoli resi disponibili in LIS dall’app Storysign c’è Buon compleanno!, ispirato a una delle storie originali di Beatrix Potter. Protagonista è il più noto dei personaggi creati dall’autrice britannica: Peter Coniglio. Indispettito dal fatto che nessuno sembra prestargli attenzione proprio nel giorno del suo compleanno, questi non ha alcuna voglia di festeggiare. Le sue sorelline – Mopsy, Flopsy e Cottontail – declinano l’invito a giocare con lui, dichiarandosi molto molto indaffarate. Il cugino Benjamin, intento a trafficare con un arnese e un pezzo di legno, salta via prima ancora che Peter possa rivolgergli la parola. E la mamma, solitamente molto disponibile, è tutta presa in cucina tra utensili e fornelli. A Peter pare proprio che quello possa essere il peggior compleanno della sua vita ma, attirato in giardino da voci e rumori imprevisti, sarà travolto da un’inattesa sorpresa che vede coinvolti tutti i suoi cari.

Cole Tiger e l’esercito fantasma

Da quando la famiglia di Cole Tiger si è trasferita a Everseen, lui ed Aquima sono diventati grandi amici. Molto diversi nell’aspetto – carnagione chiara e vistosi capelli rossi lui, carnagione scura ed evidenti lineamenti indiani lei –  i due condividono una certa solitudine legata al pregiudizio e alla diffidenza che la cittadina riserva a chi viene percepito come diverso. Lo stesso trattamento – scopriranno – ha toccato due ragazzi come loro di nome Aylen e Samuel, vissuti molti anni prima. Le loro storie non sono solo simili bensì destinate a intrecciarsi strettamente. Vittime di una maledizione, Aylen e Samuel necessitano, infatti, dell’aiuto dei due ragazzi per romperla e liberarsene per sempre. Questo, però, non si scopre che alla fine. In mezzo è tutto un tumulto di misteri, inseguimenti, tracce e rivelazioni che coinvolgono non solo i famigliari (anche quelli più insospettabili!) di Cole Tiger e Aquima ma anche personaggi straordinari dai caratteri sovrannaturali. La vicenda accelera quindi progressivamente il ritmo fino a culminare in uno scontro accesissimo, in cui le vere qualità di ciascun personaggio non mancano di venire a galla.

Il racconto scritto da Federica D’ascani è avvincente e coinvolgente. L’intreccio tra presente e passato, in particolare, richiede un po’ di abitudine a destreggiarsi all’interno di narrazioni complesse, ma offre al lettore una sfida di lettura intrigante. A rendere quest’ultima più fruibile anche a bambini con dislessia, interviene la consueta attenzione di Sinnos a proporre caratteristiche di stampa ad alta leggibilità, quali la font specifica leggimi, l’uso accorto di colori, grassetti e maiuscolo, la spaziatura maggiore, la carta color crema e la sbandieratura a destra.

Il giornalino di Gianburrasca

Continua l’affascinante viaggio di Locomoctavia attraverso i classici della letteratura per ragazzi, riproposti in una versione estremamente curata che al rispetto dei testi – sempre offerti in versione integrale e/o in traduzione di pregio – sposa una ricerca musicale mai scontata e sempre calzante.

Così è stato per i primi titoli come Alice nel Paese delle Meraviglie e Pinocchio, e così non manca di essere anche per  il più recente Il Giornalino di Gianburrasca. Fedelissimo nello spirito all’indole indomita di Giannino Stoppani, novenne votato alla monelleria come pochi altri, l’audiolibro restituisce con gusto e perizia i guizzi, le imprese, i guai e i pensieri scarmigliati del protagonista. Lo fa soprattutto attraverso un’interpretazione movimentata, quale quella offerta da Daniele Fior, e da un accompagnamento incalzante quale quello di Tommaso Rolando al contrabbasso. Entrambe sottolineano, infatti, l’irrequietezza del racconto, la gioia delle marachelle, il loro effetto a sorpresa e l’immancabile senso di ingiustizia della sopraggiunta punizione.

Il rispetto del testo originale, oltre a garantire l’incontro del lettore con una straordinaria varietà di personaggi e invenzioni narrative, gustose pur nei loro 110 anni e più, offre un vantaggio interessante anche in un’ottica di accessibilità, peraltro già notevole dato il tipo di supporto scelto. La funzionale divisione in capitoli corrispondenti ai giorni del diario, così come previsto dal testo a stampa di Vamba, mette infatti il lettore di fronte a un numero cospicuo di tracce audio dalla durata circoscritta, cosa che ne agevola la fruizione e il godimento, anche laddove l’attenzione fatichi a essere mantenuta a lungo sul racconto.

 

Il Giornalino di Gianburrasca , così come gli altri pregiati audiolibri proposti da Locomoctavia, è fruibile anche tramite un’apposita app (Locomoctavia audiolibri) messa a punto dalla stessa casa editrice e scaricabile gratuitamente da App store.

Si tratta di una proposta estremamente interessante in termini di accessibilità. L’app sfrutta infatti un particolare sistema di scroll che evidenzia cromaticamente le diverse frasi del testo nel momento esatto in cui vengono pronunciate. La corrispondenza tra testo e audio risulta molto fluida e puntuale e l’app fa avanzare automaticamente l’audio se il lettore fa scorrere velocemente in avanti il testo. L’esperienza di lettura e ascolto risulta, così, piacevole e tutt’altro che macchinosa.

Il lettore può in questo modo godere della cura e della bellezza delle registrazioni proposte e al contempo seguire più agevolmente il testo su schermo. Egli può disporre cioè di un ampio ventaglio di strumenti e possibilità di lettura, perfettamente integrate tra loro, tra cui destreggiarsi sulla base delle sue esigenze specifiche: un’opportunità preziosa per sostenere soprattutto quei bambini e quei ragazzi che, a causa di disturbi come la dislessia, si tengono alla larga dai libri non per disamore delle storie ma per l’enorme fatica che la lettura tradizionale di queste ultime può implicare ai loro occhi.

La voce

Da qualche giorno la mamma di Tobia non è a casa perché ricoverata in ospedale. Tobia resta con il papà, poco pratico in cucina ma molto affettuoso e amorevole. Nonostante le sue coccole e gli strappi alla regola del dormire da soli, l’assenza della mamma si fa sentire forte per Tobia. Ogni sera la stanza del bambino pare trasformarsi in una caverna popolata da mostri e una voce misteriosa lancia messaggi spaventosi. Non sarà facile, dunque, per Tobia affrontare il buio e le sue creature più terrificanti. Le cure comprensive del papà, i racconti sollevanti della nonna e, infine, il ritorno a casa della mamma lo aiuteranno tuttavia a fare pian piano i conti con i suoi timori e a ritrovare una serenità che pareva smarrita.

La voce, scritto da Luisa Carretti, è tratto da una raccolta precedentemente pubblicata per gli stessi tipi di Storie Cucite. Nato per affrontare con i più piccoli il tema della paura, il racconto viene qui reso in simboli così da poter raggiungere un più ampio bacino di lettori, compresi quelli che beneficiano di una narrazione supportata visivamente. Come da modello inbook, il testo viene integralmente simbolizzato, il che concorre a rendere la lettura in simboli molto ricca ma anche la pagina piuttosto affollata. Accompagnato da illustrazioni a matita molto delicate e rassicuranti, La voce si presta a una lettura condivisa con bambini la cui dimestichezza con i simboli WLS e con racconti di un certo corpo sia già consolidata.

AFK

AFK, titolo dell’ultimo romanzo di Alice Keller uscito per Camelozampa, è una sigla probabilmente familiare solo ai ragazzi pratici di videogiochi online. Sta per Away From Keyboard e significa quindi impossibilitato a giocare (perché, per l’appunto, lontano dalla tastiera). Lontano dalla tastiera si ritrova infatti il protagonista della storia, Gio, quando sua sorella Emilia decide di trascinarlo con sé nella sua fuga da casa, dopo aver scoperto di essere incinta. E non è affar di poco conto, quella lontananza, perché Gio da due anni non esce di casa, vive attaccato e letteralmente immerso nei videogiochi online e non intrattiene pressoché relazioni sociali, nemmeno con i genitori. Dopo anni di (in)sofferenza e prese in giro, Gio ha infatti deciso di chiudersi in un mondo tutto suo in cui i 130 chili che ormai appesantiscono il suo corpo non possano essere motivo di scherno, in cui i tratti autistici che lui stesso spesso cita non devono riguardare nessun altro all’infuori di lui e dove le minacce e le reazioni fuori controllo che in passato lo hanno visto protagonista gli consentono finalmente di essere lasciato in pace. È una pace quasi catatonica, la sua: uno stato di simil-incoscienza in cui il giorno e la notte sono intercambiabili e nulla conta di più che portare a termine battaglie virtuali. Per questo la fuga quasi imposta da Emilia, che per una volta e di colpo esce dal suo ruolo di sorella perfetta mostrando fragilità e debolezze, scuote Gio come un terremoto, costringendolo a prove e decisioni complesse che non districano senz’altro la matassa emotiva che lo lega (anzi!) ma che forse schiudono in lui qualche prospettiva nuova.

Spiazzante, fuori dagli schemi e diretto come un pugno, AFK mette il lettore davanti a una bella sfida. Snello nell’aspetto, ma densissimo nella sostanza, il romanzo trascina letteralmente il lettore in quel mondo virtuale – pressoché sconosciuto agli adulti, a dirla tutta – che plasma visioni e abitudini. Alice Keller, che indiscutibilmente ha un dono raro per la scrittura, riesce a costruire un racconto che ha il ritmo di un videogioco, la stessa fulminea e rimbombante cadenza. E così par davvero di entrare nella testa di Gio, in quei meandri intricati e impastati di disagio, da cui il lettore si sente avvinghiato e quasi soffocato. La lettura diventa così una corsa a perdifiato in cerca di una via d’uscita, per il protagonista così come per chi lo segue tra le pagine. Ciliegina sulla torta: la stampa del volume ad alta leggibilità – abitudine ormai consolidata, peraltro, in casa Camelozampa – che lo rende ancora più prezioso nell’ottica di promuovere ad ampio raggio letture davvero vicine e a misura di ragazzi.

Un compleanno fantastrofico

Teresa vuole, fortissimamente vuole, una festa di compleanno per i suoi imminenti 9 anni. A casa sua le feste non sono però ben viste: troppo impegnative, troppo caotiche, troppo fuori moda, per la sua inconsueta famiglia. Ma Teresa quest’anno è disposta a tutto pur di avere una festa come Dio comanda e per ottenerla si chiude a chiave nella legnaia. Ottenuto con scarso entusiasmo il sì dei famigliari, per Teresa iniziano i preparativi: ha una settimana davanti per rendere tutto perfetto. Le aspettative della bambina sono infatti altissime poiché da quella festa dipende la possibilità per lei di farsi conoscere meglio e apprezzare dai suoi compagni. Considerata un po’ strana per il suo modo di vestire e per i suoi interessi, Teresa ha infatti un solo vero amico mentre viene tenuta in disparte da tutti gli altri bambini. Inaspettatamente, saranno proprio imprevisti e stramberie di famiglia, nel giorno speciale della sua festa, a rimettere le carte in gioco e dare nuove chances ad amicizie apparentemente impossibili.

Scritto con piglio vivace, con grande empatia e con il coraggio di non zuccherare in eccesso la storia narrata, Un compleanno fantastrofico è un libro piacevole e capace di mescolare sentimenti realissimi con un pizzico di eccentricità. Pubblicato all’interno della serie azzurra de Il Battello a vapore, il racconto di  Annalisa Strada presenta caratteristiche di alta leggibilità che lo rendono più facilmente fruibile anche in caso di dislessia.

 

Ada al contrario

Mangiare, bere, camminare, leggere e disegnare: non c’è azione quotidiana che Ada compia in maniera convenzionale. Fin da quando è nata e i suoi primi vagiti sono stati “èèèu, èèèu” in luogo di “uèèè, uèèè”, la bambina protagonista di quest’albo si è distinta per un modo di comportarsi del tutto inusuale. Non che la cosa la turbi, anzi: in quel suo fare le cose a modo suo Ada ritrova una forma di vitale libertà che è fonte preziosa di benessere. E ciononostante gli adulti che le sono cari – mamma e papà in primis – faticano a cogliere quel benessere, annebbiati dall’idea che tanta stramberia non vada proprio bene. Saranno necessari il consiglio di uno psicologo esperto e la scaltrezza di un’insegnante empatica per tranquillizzare i due genitori, così intimoriti da tanta esuberante diversità, e per permettere ad Ada di vivere con leggerezza la sua travolgente unicità.

Indomita, irresistibile e colma di energia, Ada è una paladina del diritto a essere sé stessi ma anche un simbolo di quell’infanzia che non di rado deve mostrare più cura e buonsenso degli adulti stessi. Ecco allora che il suo mondo ci appare al contrario non tanto o non solo perché fuori dagli schemi ma anche e soprattutto per questo rovesciamento di ruoli in cui la capacità di accogliere e assecondare modi diversi di stare al mondo viene coltivata e insegnata dai piccoli più che dai grandi.

Capace di evocare alcuni tratti caratteristici della Sindrome di Asperger, Ada al contrario è un libro che dice molto della disabilità senza nemmeno nominarla e che riesce in questa acrobazia tutt’altro che banale grazie a un uso sapiente dell’ironia – tanto nel testo quanto nelle illustrazioni – e grazie a un focus mirato sulle emozioni dei protagonisti invece che su presunte verità rispetto a ciò che la disabilità è o richiede. Così a emergere con forza dalle pagine di Ada al contrario sono soprattutto il senso di libertà che invade la protagonista quando sente di poter seguire la sua naturale indole, la difficoltà che la lega quando si sforza di aderire ad un modello che non le appartiene, o la sua soddisfazione nell’apprendere modalità di relazione nuove con i suoi cari. Al centro dell’obiettivo c’è dunque la questione della felicità – fragilissima e misteriosa, che tutti ma proprio tutti ci accomuna – e di come ciascuno abbia il diritto di coltivarla: a passo d’uomo, di lucertola o di granchio, sta a lui deciderlo.

Il giorno del nonno

Quando i miei genitori lavorano, sto dai nonni. Sono molto carini, ma a casa loro mi annoio da morire. Non c’è internet, non c’è la televisione, ci sono solo tre fumetti un po’ ammuffiti e tutt’intorno nient’altro che campi di mais. Dentro casa c’è odore di cavolfiore vecchio e di caccole di mosca.

Voilà, un incipit spassoso al punto giusto è bell’e servito! Difficile, una volta letto, immaginare che in quella casa in cui noia e muffa la fanno da padrone non stia per succedere qualcosa di straordinario e che Simone, lo sbuffante protagonista e narratore, non sia pronto a raccontarcelo con piglio ironico e divertente. Niente di più vero. Da lì a poco Simone scopre infatti che il nonno, apparentemente “alle fragole” e dalla memoria zoppicante, viene come attivato alla vista di particolari oggetti (una lente di ingrandimento, una spada di legno, una corona di cartone, una ventosa fluorescente…) che lo portano a raccontare storie passate a dir poco incredibili. Storie in cui il nonno arrestava il famigerato Jo Patatina, si faceva chiamare Pirata Barba-fifa, dava ordini da re o curava intestini pigri di extraterrestri: storie che mescolano realtà e fantasia, trasformando il mercoledì, il giorno in cui Simone va a trovare i nonni, nel giorno più atteso della settimana. Così Simone inizia a cercare oggetti via via più suggestivi da sottoporre al nonno e porta i suoi amici ad assistere allo show infrasettimanale, divenuto ormai ambitissimo e leggendario. Fino a quando, un mercoledì come tanti, il nonno non si fa stranamente trovare a casa: sarà quello, con la triste e realistica visita in ospedale che toccherà a Simone, il momento in cui il bambino parteciperà a un simbolico passaggio di consegne e allo svelamento di un segreto più che speciale.

Stampato con alcune caratteristiche di alta leggibilità (font specifico, spaziatura maggiore), Il giorno del nonno è un libro godibilissimo di Emmanuel Bourdier, capace di unire efficacemente divertimento e tenerezza. Contraddistinto da dialoghi serrati e descrizioni che sposano un punto di vista squisitamente bambino, il racconto è accompagnato dalle illustrazioni ironiche e buffe di Laurent Simon che ne sottolineano il tono brioso.

Hotel Bonbien

Un albergo a conduzione familiare su una strada di passaggio nella Marna: questa è la casa di Siri, la giovane protagonista e narratrice del romanzo. Qui la bambina vive con la mamma, impetuosa addetta alla cucina, il papà, remissivo addetto ai conti e alle reception, e il fratello Gilles, adolescente aspirante filosofo e cultore dell’hard rock. Le cose non vanno proprio a gonfie vele all’Hotel Bonbien: gli affari non decollano, i soldi scarseggiano, gli arredi iniziano a risultare datati e, soprattutto, a causa di tutto ciò mamma e papà litigano spessissimo a suon di piatti rotti e urla furibonde. Così Siri, tra un’amicizia volante con gli ospiti dell’albergo, qualche osservazione silenziosa di cuccioli di tasso e qualche coccola alle galline del pollaio, inizia a preoccuparsi che la famiglia possa sfasciarsi, complice anche la recente separazione dei genitori della sua più cara amica Sylvie. E come spesso accade ai bambini della sua età con famiglie in crisi, si sente in dovere di fare qualcosa, di trovare una soluzione. La soluzione sembra letteralmente cascare dal cielo, quando una brutta caduta da un albero dona a Siri una memoria prodigiosa: il fratello Gilles pensa infatti di sfruttarla per tirare su un bel bottino e risolvere così i problemi dei genitori. Inizia a quel punto un rocambolesco viaggio di famiglia verso un concorso di memoria con un bel gruzzolo in palio, che porterà a un inatteso lieto fine in cui i soldi hanno in realtà un ruolo più che marginale.

Con uno stile fresco e ironico, Enne Koens racconta l’anno di svolta di Siri (quello del suo decimo compleanno), mettendo bene in luce i crucci che possono accompagnare una crisi famigliare e il modo in cui possano amplificarsi entrando nella testa di un bambino. Lo fa con leggerezza, costruendo una cornice – quella dello scalcinato Hotel Bonbien e di tutte le figure che vi abitano o vi passano – animatissima e brulicante in cui è difficile annoiarsi e in cui gli imprevisti sono all’ordine del giorno. Il romanzo solletica insomma il lettore con una costante e delicata vivacità che ben si accompagna al tono sorridente delle illustrazioni schizzate di Katrien Holland che tanto ricordano il maestro Quentin Blake. Scrittura ritmata, personaggi a cui ci si affeziona presto, pensieri in cui ci si può riconoscere e piccole avventure quotidiane a filo di pagina rendono Hotel Bonbien un romanzo delizioso che più facilmente di altri può accogliere anche lettori con difficoltà legate per esempio alla dislessia o alla disabilità visiva, anche grazie all’impegno profuso dalla casa editrice Camelozampa nel rendere il testo disponibile in molteplici formati: a stampa ad alta leggibilità, audiolibro, ebook e audioebook.

Sei unico

La Filastrocca di ciò che non sei è una di quelle che Bruno Tognolini chiama rime d’occasione, composte su richiesta di qualcuno: in questo caso la richiesta è arrivata da una mamma preoccupata per l’accoglienza che il nuovo ambiente e i nuovi compagni avrebbero potuto riservare a suo figlio, ragazzino con Sindrome di Down in procinto di iniziare la scuola media. È une filastrocca accorata che arriva diretta come una freccia ai grandi (a cui in effetti l’autore si rivolge in primis) ma che, forte della sua schietta semplicità, sa raccontare anche alle orecchie più piccole il valore della diversità e i legami strettissimi che essa può generare.

Poesia simbolo di un evento organizzato dalla splendida libreria per bambini Mio nonno è Michelangelo a Pomigliano d’Arco, con ospite lo stesso Tognolini, la Filastrocca di ciò che non sei ha dato vita all’albo edito da Salani Sei unico. Qui, interpretate dalle illustrazioni visionarie di Christophe Mourey, le parole di Tognolini si amplificano e sembrano poter risuonare ancora più vicine al sentire bambino. L’artista francese sceglie infatti un protagonista che ha i tratti di un pulcino nero dal cuore grande (tu non sei abile però sei buono) e dalle zampe che paiono corone (tu non sei abile, però sei nobile): un collage di sottili tratti scuri e di colorate forme geometriche che esprime con efficacia il concetto di unicità. Affiancato poi a una fitta schiera di esseri dall’aspetto bislacco, il pulcino di Mourey invita l’occhio del lettore a riconoscere tra di essi le spiccate differenze ma anche a cogliere qualche più sottile somiglianza, in un inno all’unicità fatta di cose che ci distinguono ma anche di cose che ci rendono inequivocabilmente e ugualmente umani.

Il mistero del London Eye – audiolibro

In questo libro ci sono: una città multiculturale e caotica, un ragazzino scomparso in un pomeriggio come tanti, una famiglia allargata che a tratti alterni si frammenta e si rinsalda e una ruota panoramica che sembra inghiottire la gente. E poi c’è Ted, il giovane protagonista, che mette insieme tutti questi elementi, trovando una soluzione al Mistero del London Eye. È un giallo ben congegnato, insomma, quello messo a punto da Siobhan Dowd, ma è anche un racconto straordinario che sa di vita quotidiana, di adolescenza e di affetti.

Con uno stile ironico e spigliato e una tecnica narrativa appassionante e sapiente, l’autrice del bel libro già vincitore del prestigioso Premio Andersen nel 2012 (miglior libro oltre i 12 anni) racconta infatti come Ted, grazie al suo modo strambo di ragionare, riesca a capire come il cugino Salim sia potuto salire sul London Eye senza apparentemente ridiscendervi e a ritrovarlo prima che possa fare la peggiore delle fini.

Affetto da Sindrome di Asperger, il protagonista ha difficoltà a interpretare tutte quelle espressioni – linguistiche o corporee – non univoche ma manifesta uno spiccato e non comune senso deduttivo. Il suo fiuto tutto basato sull’oggettività delle cose si mescola, dunque, a un’insormontabile difficoltà relazionale, a un’insolita passione per la meteorologia e a una curiosa incapacità a dire le bugie: quel che ne esce è un ritratto pertinente e intrigante della realtà Asperger, ben calata nelle dinamiche famigliari e nei contesti sociali che vi echeggiano intorno. La strada aperta ormai qualche anno fa dall’originale Strano caso del cane ucciso a mezzanotte trova qui, dunque, nuova polpa, grazie a un libro che sa fare magistralmente dell’ironia e dell’intrigo narrativo la chiave per sbucciare temi spinosi come la disabilità e la differenza.

Portato in Italia da Uovonero nella sua versione cartacea, il romanzo di Siobhan Dowd è ora reso disponibile in versione audiolibro da Emons, con la coinvolgente voce di Pietro Sermonti (che ne ha anche realizzato un buffo trailer in dialetto romanesco, alla maniera di Stanis La Rochelle della serie Boris): una coedizione, questa, particolarmente gradita poiché allarga le possibilità di fruizione di una delle storie più apprezzate dai ragazzi negli ultimi anni.

La voce del branco

La scrittura di Gaia Guasti ha, su tutte, due caratteristiche che la rendono notevole: è incisiva come poche e sa scavare nell’animo degli adolescenti con una minuzia chirurgica. Forte di questi due tratti, il suo ultimo romanzo La voce del branco trascina letteralmente il lettore tra le pieghe più profonde dell’animo di Mila, Ludo e Tristan, tre ragazzi che dall’oggi al domani si trovano a fare i conti con una misteriosa metamorfosi e con l’ineludibile richiamo di una natura selvaggia tutt’altro che umana.

Amici fin dalla primissima infanzia ma progressivamente allontanatisi con la scelta di scuole superiori diverse, i tre si ritrovano ogni anno lo stesso giorno – il 15 novembre – nello stesso posto – la sorgente ai piedi del Picco delle anime – per festeggiare i loro compleanni. È una sorta di rito segreto il loro, un momento a cui nonostante le differenze sempre più marcate tra le loro vite non riescono a rinunciare. È sempre stato così ma qualcosa di inatteso, un 15 novembre diverso dagli altri, accade: i tre ragazzi, appena riunitisi, vengono  infatti attaccati da un branco di lupi. Non è un attacco mortale e non è un attacco casuale, quello che li coinvolge: dal momento in cui vengono morsi, Mila, Tristan e Ludo avvertono un cambiamento progressivo, apparentemente inspiegabile e senza dubbio spaventoso, che mescola la loro identità umana a quella di lupi. In maniera sempre più insistentemente, la loro nuova natura ferina si fa spazio e li chiama a gran voce, imponendo loro di abbracciare una vita via via più selvaggia e di imparare a misurarsi con istinti e bisogni mai sentiti prima. Perché questo, in fin dei conti, esige il destino da licantropi che il morso dei lupi ha disegnato per loro: mettere “a tacere la mia coscienza umana per scoprire un altro corpo, un altro passo, un altro sguardo sul mondo?”, come spiega bene Mila verso la metà del racconto.

E il lettore che fa? Travolto da una narrazione incalzante, segue i tre ragazzi nelle loro successive trasformazioni, nella paura di essere scoperti da familiari e amici, nella caccia spietata che una sinistra lupa rossa dà loro e nel tentativo di fare luce sulle inquietanti morti che hanno accompagnato la metamorfosi. Lo fa col fiato corto e il cuore in gola perché il ritmo che l’autrice riesce a imprimere alla narrazione aderisce come una seconda pelle ai sussulti emotivi e ai minimi cambiamenti che i ragazzi percepiscono nel loro essere, rendendoli tangibili all’immaginazione di chi scorre le pagine. È così che la metamorfosi si svela poco a poco, tra aspetti oscuri e verità che man mano prendono forma, proprio come accade ai protagonisti del romanzo. Nel cuore delle avventure e delle prove che Mila, Tristan e Ludo si trovano ad affrontare, si va delineando in maniera sempre più netta e distinta la forza protettiva, rassicurante e persino curativa dell’amicizia, chiarissima forse solo a chi – come i bambini e gli animali – sperimenta senza alcuna remora una vicinanza – fisica ed e motiva – quasi istintiva, con l’altro. In un crescendo di tensione ed emozione, il romanzo si chiude con una fuga nel bosco dei tre protagonisti che alimenta come un mantice la curiosità del lettore verso il seguito della saga (in uscita a novembre): un ingrediente da non sottovalutare, questo, che insieme alla scelta di Camelozampa di impiegare caratteristiche di stampa ad alta leggibilità, può fare la differenza nell’ardua sfida di solleticare anche lettori meno propensi a frequentare i libri o con maggiori difficoltà ad affrontare la lettura.

 

Ninna nanna per una pecorella

C’è una storia piccola piccola di lupi e pecorelle che sa emozionare anche dopo dieci, venti, cinquanta riletture. È una storia di paura e consolazione, che usa figure care e familiari all’immaginario infantile e che sceglie e dispone le parole con cura minuziosa per cullare con garbo le orecchie e i sogni di chi vi si immerge. Così l’avventura della pecorella smarrita che affronta la notte buia e solitaria prima di essere accolta e adottata dalla più inaspettata delle mamme, diventa una coccola da ascoltare e riascoltare, godendo al contempo di illustrazioni che fanno dei contorni spessi e dei colori pieni la chiave per un’ipnotica attrazione nei confronti dei più piccoli. Nel tratto netto e inconfondibile di Massimo Caccia c’è infatti una capacità ammirevole di togliere, togliere, e ancora togliere ciò che non serve, lasciando all’essenziale la misura che merita e costruendo efficaci rimandi tra le pagine basati su forme, linee e tonalità.

A dieci anni dalla sua pubblicazione per i tipi di Topipittori, Ninna nanna per una pecorella va oggi ad arricchire la collana de I libri di Camilla, nata su iniziativa di Uovonero per rendere finalmente accessibili anche a bambini con difficoltà comunicative e di decodifica del testo alfabetico alcuni degli albi più belli e apprezzati dai giovani lettori. La delicata ninna nanna di Eleonora Bellini, dal canto suo, offre una sfida interessante per la simbolizzazione, perché si inoltra in punta di piedi sul terreno della poesia, ancora piuttosto inesplorato non solo dai libri di Camilla ma in generale dal panorama dei libri in simboli. Non mancano quindi strutture sintattiche non lineari (per esempio: Incontra la pecorella una mamma lupo) o figure raffinate (come Ti sarò mamma, casa e sentiero / ti darò sogni di erba e trifoglio / sonno di latte, letto di figlia) che tuttavia mantengono una certa chiarezza e decifrabilità, anche grazie al supporto di una costruzione testuale essenziale e ricca di anafore.

L’intero libro, inoltre, per come è concepito e strutturato – con le ampie illustrazioni a doppia pagina in alto e il testo regolarmente piazzato nella striscia più bassa – ben si presta a un lavoro di adattamento che non ne snaturi l’armonia compositiva grafica. Il risultato è un albo che mantiene la finezza della versione originale, proponendo un’occasione di lettura ricercata e senz’altro fuori dagli schemi a bambini cui spesso vengono proposti solo testi più immediati e piatti: una proposta coraggiosa, insomma, e anche per questo preziosissima, che celebra con forza il diritto di tutti non solo a leggere ma anche a sperimentarsi e a crescere come lettori.

Farfariel

Farfariel è il titolo di un romanzo insolito e coraggioso pubblicato da Uovonero nel 2018 per un pubblico di lettori forti. È insolito e coraggioso perché racconta di un luogo e di un tempo distanti dal presente (eppure da questo per nulla scissi) quale la campagna abruzzese del periodo fascista, e lo fa scegliendo una lingua fedelissima al quadro scelto, in cui dialetto e italiano si fondono e si contaminano profondamente.

La storia narrata è quella di Micù, bambino tenace e intelligente a cui la poliomielite ha lasciato in eredità una costituzione gracile, una salute instabile, una statura ridotta e una gamba zoppa: caratteristiche che segnano profondamente la sua quotidianità, tra dolori fisici, prese in giro malevole e stupidi pregiudizi dettati dalla credenza popolare. Ma Micù è forte di spirito e questi ostacoli impara a saltarli col suo personalissimo passo, soprattutto quando l’arrivo di un diavolo impertinente di nome Farfariel lo costringe a mettersi sulle tracce di un libro misterioso che condizionerà radicalmente la sua vita e il suo modo di affrontarla.

È una vita tutt’altro che in discesa, quello di Micù, costretto a fare i conti con un periodo storico molto duro e un contesto socio-culturale molto arretrato e povero. Qui la distanza tra signorotti e braccianti è netta e apparentemente incolmabile, ben rappresentata da personaggi ben definiti e capaci di portare con sé una precisa visione dell’esistenza. Intorno a Micù si muove infatti una moltitudine di personaggi che incarnano valori molto diversi tra loro: due su tutti il papà di Micù, lavoratore infaticabile e a tratti violento che a testa china si rassegna al suo destino sottomesso e che in esso proietta anche il destino del figlio, e il nonno Tatà che, forte di un passato avventuroso in America (o per meglio dire, lamerica, di cui reca traccia la sua lingua misteriosa e affascinante), porta avanti e trasmette a Micù l’idea di un necessario e giusto  riscatto sociale.

Densissimo e ricco di memoria, Farfariel non è un libro immediato o leggero. La sua lettura – vuoi per la lingua impastata di dialetto, vuoi per le vicenda che affondano in un contesto sopito – mette il lettore di fronte a una sfida consistente e impegnativa ma che, se accolta e affrontata con determinazione, può offrire un bagaglio prezioso di spunti e nondimeno un certa ironia.

Un lupo nella neve

Ci sono un lupo e una bambina dalla mantella vermiglia, nel libro di Matthew Cordell ma – attenzione! – la storia narrata non è affatto quella di Cappuccetto Rosso (per quanto questa echeggi senza dubbio). Qui il lupo e la bambina non sono infatti nemici ma diventano piuttosto complici in una situazione di comune difficoltà.

La protagonista dal cappuccio rosso viene presentata dall’autore all’uscita di scuola quando, sorpresa da una tormenta di neve, perde la strada di casa e si trova smarrita. La stessa sorte capita in contemporanea a un cucciolo di lupo che finisce per restare indietro rispetto al suo branco e a ritrovarsi solo in mezzo alla bufera. Superato il timore del primo incontro, i due decidono di affrontare insieme l’ignoto nel tentativo di ritrovare le rispettive famiglie, condividendo la preoccupazione, la paura e la difficoltà di procedere in una situazione ostile. Sarà proprio quella condivisione a renderli più forti di quel che paiono di fronte a ostacoli pericolosi e a riportarli sani e salvi sulla via di casa. Rintracciata mamma lupo, infatti, anche la bimba potrà godere della gioia del ricongiungimento con i suoi cari grazie all’intervento  riconoscente del branco del suo nuovo amico.

Come la più classica delle fiabe, Un lupo nella neve accompagna il lettore a esplorare i sentimenti più bui e quelli più luminosi del suo essere umano. Lo fa con una forza e una semplicità di grandissimo impatto, soprattutto se si considera che la storia procede interamente per immagini: caratteristica, questa, che rende il lavoro di Matthew Cordell ancora più interessante, perché ne consente la piena fruizione anche da parte di giovani lettori con difficoltà di lettura legate per esempio alla sordità o alla dislessia.

Le piccole vittorie

Le piccole vittorie è un racconto autobiografico a fumetti in cui l’autore, il canadese Yvon Roy, offre al lettore la sua personalissima esperienza di papà di un bambino con autismo. La graphic novel ripercorre infatti la storia della sua famiglia alla luce di quella diagnosi che ne ha fortemente segnato lo sviluppo. Dalla nascita di Olivier all’accettazione del suo peculiare modo di stare la mondo, dalla rottura della coppia genitoriale agli sforzi per mantenere comunque sereni i rapporti famigliari, dall’iniziale incomprensibilità di una diversità inattesa alla messa a punto di strategie creative per costruire un rapporto padre-figlio unico e solido. Yvon non fa mistero, infatti, dello spiazzamento che la diagnosi di autismo di Olivier ha portato nella sua vita e delle amorevole soluzioni che di giorno in giorno sperimenta per farlo crescere, per dimostrargli il massimo supporto e per consentirgli di affrontare con successo limiti e sfide che talvolta parrebbero (o verrebbero presentate come) insuperabili. Così Yvon si ingegna, per esempio, per accompagnare Olivier a fronteggiare piccole grandi paure, per accogliere cambiamenti dentro e fuori casa e per sperimentare nuove abilità, in un cammino che non manca di cadute ma nemmeno di possibilità di rialzarsi. Il risultato è un racconto vivo, forte ed emozionante, che mette in luce l’importanza di un ruolo spesso trascurato quale quello paterno  nella costruzione di un percorso di vita pieno da parte di bambini e ragazzi con disturbo dello spettro autistico.

Schiettissimo e disposto a soffermarsi anche su sfaccettature intime o dolorose di una vita famigliare segnata da una diagnosi complessa, Le piccole vittorie si rivolge soprattutto ai lettori adulti e condivide alcune profonde riflessioni con un altro bellissimo e recente fumetto sulla genitorialità, con un punto di vista squisitamente paterno, quale quello di Fabien Toulmé uscito per Bao Publishing con il titolo Non è te che aspettavo. Anche Yvon Roy, come il collego francese, rivendica la scelta di raccontare una storia personalissima che non pretende di offrire ricette, verità o rappresentazioni universali, ma prova piuttosto a condividere un percorso di vita particolare nel quale ci si possa riconoscere o si possa trovare un sostegno e un incoraggiamento.

Una giornata di sole

Una giornata di Sole è una raccolta di microstorie quotidiane che vedono protagonista un cane di nome Sole. Pelo chiaro ed energia da vendere, Sole si trova ad affrontare diverse situazioni per lui perlopiù nuove – dall’incontro con il gatto neo-inquilino di casa al primo pomeriggio senza la sua padrona, dalla rottura del pupazzo preferito ai tuffi nel fiume – e le emozioni che da esse derivano. Attraverso ciò che accade al cucciolo peloso – soggetto capace di suscitare grande interesse e di rivelarsi familiare a numerosi bambini – il libro offre semplici e spendibili spunti anche per riflettere e riconoscere le emozioni umane. Non a casa al termine del volume si trovano alcuni suggerimenti di attività che genitori e insegnanti possono proporre sul tema ai loro bambini.

Pubblicato da Homeless Book in simboli WLS, Una giornata di Sole presenta un testo lineare ma non minimale, composto perlopiù di frasi brevi o coordinate e contraddistinto da un lessico quotidiano. Le illustrazioni semplici ma attente soprattutto a rendere con precisione le emozioni dei protagonisti – vero focus del libro – aiutano a rafforzare l’aggancio con il racconto il quale, grazie a una struttura frammentata in tante piccole storie, si presta agevolmente anche a una lettura in più momenti.

Il nonno bugiardo

Ne racconta di storie, il nonno di Andonis! E il nipote, comprensibilmente, si chiede di continuo se siano vere o meno. Racconta storie quando banalmente arriva in ritardo, nonno Marios, ma anche quando, più sentimentalmente, evoca il suo passato da giramondo. Attore di teatro esiliato durante la dittatura greca, il nonno ha vissuto sulla sua pelle grandi eventi come il ‘68 parigino, eventi che nei suoi racconti restano sospesi tra il reale e l’immaginario, sicché il decenne Andonis oscilla tra il fascino che emana un passato avventuroso  e il timore che qualcosa gli venga costantemente tenuto nascosto. Come tutto ciò che riguarda la nonna, per esempio, di cui nessuno in famiglia parla. Chi era? Dove è finita? Perché tutti tacciono quando viene citata? E così silenzi e  mistero alimentano una visione talvolta distorta e talvolta surreale della storia famigliare fino a quando, una serie di viaggi in cui il nonno porta con sé Andonis, gli consentono di ritrovare i pezzi mancanti a una visione d’insieme. Quei viaggi saranno l’occasione per conoscere direttamente alcune tracce di quel passato favoloso narrato dal nonno e per  rafforzare il legame che lo lega a quest’ultimo: un legame che si alimenta di esperienze sui generis, citazioni di classici, conversazioni da grandi e che rivela forse tutta la sua intensità proprio quando il nonno viene a mancare.

Scritto da una delle più affermate autrici greche, Il nonno bugiardo è un libro dall’andamento perlopiù placido (ma mai stagnante!) e capace di un’accelerata sul finale, quando i tasselli del puzzle famigliare vengono a ricomporsi. Animato da personaggi ben caratterizzati e da una capacità rara di intrecciare la Storia e le storie, il romanzo di Alki Zei invita il lettore a una lettura sorniona, resa più fruibile non solo da una stampa ad alta leggibilità nella versione cartacea ma anche dalla possibilità di optare per soluzioni variegate – ebook (in formato epub o mobikindle, 7.90 €), audiolibro (8.90 €) e una combinazione dei due (9.90 €) – che dimostrano ancora una volta la grande sensibilità dell’editore Camelozampa per la questione dell’accessibilità della lettura.

Ridere come gli uomini

Fabrizio Altieri, autore e insegnante pisano, ha scritto un libro per ragazzi molto coraggioso. È un libro ambientato durante la seconda guerra mondiale e dell’orrore che questa ha recato con sé è da capo a fine pienamente intriso. Avanzando nella lettura, si piange, si ha paura e ci si chiede senza posa come sia stato possibile ciò che è accaduto, il che non è cosa da poco. Non ha avuto timore, lo scrittore, di mettere i giovani lettori di fronte alle numerose sfaccettature del dolore che hanno caratterizzato l’occupazione nazifascista, comprese quelle legate alla morte. Lo fa attraverso una storia che mescola abilmente verità storica e avventura, seguendo il tentativo di due fratelli di mettersi in salvo da un inseguimento nazista.

Uscito per fare delle commissioni insieme alla sorella Donata, Francesco trova infatti al suo ritorno i genitori impiccati dai nazisti. Francesco si rende allora conto di non essere più al sicuro e da lì inizia la fuga dei due fratelli per oltrepassare l’Arno e raggiungere la riva controllata dagli americani. Ma il viaggio a piedi è lungo e Donata, nata con la Sindrome di Down e proprio per questo perseguitata dalla SS che dà il tomento a lei e Francesco, rallenta un poco il cammino e lo rende talvolta più difficoltoso. Come quando si impunta per restare accanto ad ogni costo a Wolf, un cane lupo addestrato dalle SS e ad esse ribellatosi, che inizia a seguirli nel loro pericoloso viaggio. Sarà proprio Wolf, con il suo fiuto eccezionale e la sua profonda conoscenza del nemico, a proteggere i due protagonisti in più di un’occasione finendo per trovare in loro dei compagni affezionati e fedeli pienamente ricambiati. Quello del cane, peraltro, è uno dei punti di vista che l’autore assume per narrare la storia, creando un significativo effetto di risonanza agli eventi narrati e soprattutto ai pensieri che da essi possono scaturire.

Con una tensione narrativa mai smorzata, frutto di un periodo che davvero fu latore di pericoli e timori difficili da scacciare, Ridere come gli uomini riunisce intorno a una vicenda di fantasia numerosissimi spunti reali che, pur non essendo trattati nel dettaglio ma in qualche modo solo abbozzati in virtù di incontri più o meno fugaci, lasciano un segno nel lettore  e senz’altro concorrono a gettare in lui il seme della curiosità. Così, lungo il loro percorso Francesco e Donata incappano nelle SS, in un gruppo di anarchici generosi,  nei partigiani, nei disertori, nei fascisti di fede e in quelli per convenienza, nei contrabbandieri e negli alleati. Fanno esperienza diretta o vengono a conoscenza dei campi minati, delle rappresaglie, dei rischi corsi dai giusti come chi nascondeva gli ebrei e i perseguitati. Incontrano insomma a distanza ravvicinatissima tutto il male, anche il più irrazionale, che il conflitto mondale portò con sé, ma anche il bene che nonostante tutto trovò il mondo restare vivo. Il coraggio, la solidarietà, la pietà e la fiducia sono valori fortissimi che Francesco e Donata imparano presto a cogliere e condividere. La loro diventa così una storia singola che si fa anche storia plurale, capace inoltre di dare voce a una persecuzione poco sbandierata ma dolorosissima come quella operata dal nazismo nei confronti delle persone con disabilità.

Ci si vede all’Obse

Non è un’estate facile quella che aspetta Annika. Non è un’estate facile né tantomeno prevedibile. Proprio quando la partenza per la casa di campagna si fa imminente, infatti, alla mamma di Annika si rompono le acque e un’inattesa corsa in ospedale si rende necessaria, tra lo spavento e la concitazione del momento. Annika ne è molto scossa e per un po’ cerca il più possibile di evitare casa sua, dove ancora il sangue della mamma lascia traccia e tutto sembra parlare di un evento che dovrebbe essere lieto e che invece è iniziato malissimo. Sono giorni  confusi, tormentati e solitari quelli che seguono la nascita del fratellino, giorni in cui la ragazzina alterna momenti in compagnia dell’affezionato nonno e momenti in compagnia di un improvvisato gruppo di amici conosciuto all’Obse, il parco dell’osservatorio astronomico di Stoccolma.

Sono amici strani – Kaja, Tubbe, Foglia, Biscotto e Finnico – amici che condividono i pomeriggi tra ozio, bravate e autentici atti vandalici in un tempo che scorre pigro e quasi sospeso. Il gioco più frequente è obbligo o verità, senza però la possibilità di scegliere la seconda opzione: perché la storia che ognuno di loro porta sulle spalle è a suo modo dolorosa e il tacito accordo su cui si regge il gruppo è che nessuno sappia nulla degli altri. Annika dal canto suo si adegua, mettendo a frutto la sua rinomata predisposizione a raccontare bugie e mostrando un lato di sé in cui lei stessa fatica a riconoscersi. Fino a quando le cose in ospedale prendono rapidamente una piega inaspettata, il gruppo trova abbastanza forza da concedere spazio a una condivisione più profonda e la verità si fa troppo pressante per essere tenuta dentro.

Disincantato e schietto, a tratti crudo e stridente, Ci si vede all’Obse offre un ritratto della preadolescenza tutt’altro che consueto. Con coraggio e autenticità fa emergere il lato più buio e doloroso dell’essere ragazzi, quando la vita ti mette davanti a situazioni difficili senza averti ancora fornito tutti gli strumenti per affrontarle. Che sia per una vita che rischia di spegnersi appena nata, una quotidianità povera, una situazione famigliare agiata ma con adulti ben poco presenti o un fatto che ti fa smettere di credere in Dio, poco importa: la sofferenza covata e irrisolta lascia strascichi evidenti e trova talvolta espressione  e sollievo in atti e vicinanze apparentemente inopportune ma forse vitali. Cilla Jackert questo lo rende molto bene, offrendo al lettore soprattutto di scuola media una lettura che scuote e anima, e forsanche turba, nel profondo. La consueta attenzione dell’editore Camelozampa a rendere la narrazione fruibile anche a giovani lettori con difficoltà legate a una disabilità o a un Disturbo Specifico dell’Apprendimento trova qui espressione non solo nell’apprezzabile stampa del volume ad alta leggibilità ma anche nella possibilità offerta di godere del racconto in formato audio mp3 (8,90 euro), audio ebook (9,90 euro) o ebook epub o mobikindle (7,90 euro)

Zucchero filato

Ci sono estati ed estati: quelle spensierate, che semplicemente attraversano un tempo sospeso tra la fine di un anno scolastico e l’inizio del successivo, e quelle decisive, che non solo segnano passaggi critici di crescita ma portano anche con sé cambiamenti inaspettati. Ecco, l’estate raccontata da Derk Visser in Zucchero filato rientra decisamente nel secondo tipo. Non solo la protagonista Ezra si accinge a iniziare la scuola superiore ma nella sua famiglia accade qualcosa di inatteso: il rientro dalla guerra del papà, infatti, non è affatto come nelle aspettative – gioioso e con la prospettiva di andare ad abitare in una casa più grande – bensì tutto il contrario – cupo e potenzialmente capace di distruggere l’unità famigliare.

Profondamente segnato dall’esperienza del fronte vissuta sulla propria pelle, il papà di Ezra appare il fantasma di sé stesso: paranoico, con la testa sempre altrove, depresso e inspiegabilmente aggressivo. Basta un petardo o la visione di una divisa per far scattare qualcosa di oscuro nella sua mente e fargli avere reazioni del tutto imprevedibili. E questo non è facile da accettare per nessuno, tantomeno per una ragazzina come Ezra alle prese con una fase delicatissima della vita come l’adolescenza.

Così Ezra si ritrova suo malgrado a farsi grande prima del previsto, prendendosi cura di quel papà così incapace di badare a sé stesso e alla sua famiglia. Lo fa anche quando questi passa il segno e aggredisce la mamma, costringendola a rifugiarsi presso una casa di accoglienza insieme a Zoe, la sorella minore di Ezra. Ma Ezra no. Lei gli rimane accanto fino a che è possibile, fino a quando non è costretta dai servizi sociali a raggiungere la mamma, nell’attesa che un periodo di cura porti un po’ di serenità tra le mura di casa.

Ostinata e risoluta, Ezra si mostra come un pendolo che oscilla tra il bisogno di sentirsi accudita e protetta e la necessità di tenere insieme la famiglia con tutte le sue forze, anche mostrandosi dura e sfrontata all’occorrenza. Accanto a lei, la sorellina di otto anni Zoe: la personificazione dell’ingenuità proiettata talvolta in un mondo adulto che non dovrebbe riguardarla. Come quando Ezra la porta con sé al centro commerciale per rubare un top da un negozio, scatenando una guerra di sfide e ricatti con una commessa meschina. Ma anche in quel caso è proprio Zoe, con il suo sguardo ancora inesperto sulle cose, a  mantenere Ezra aggrappata a una dimensione in cui il gioco, il sogno e la speranza possono ancora trovare spazio.

Il loro è un rapporto profondamente vitale, capace di offrire rifugio reciproco da una realtà – la famiglia che si disgrega, il quartiere disagiato, i guai quotidiani, il diventare grandi che entusiasma e spaventa- che talvolta si fa opprimente. Ecco allora che gli incalzanti dialoghi tra le due sorelle, intorno ai quali ruota l’intera narrazione, si fanno specchio efficace e ben riuscito di una realtà multisfaccettata e travolgente, anche per il lettore che si trova dall’altra parte della pagina. Con un racconto forte e schietto, Derk Visser propone una lettura tutt’altro che scontata e capace di lasciare un segno. La stampa ad alta leggibilità per cui opta l’editore Camelozampa – con font Easyreading e impaginatura più ariosa – offre dal canto suo un ultimo e significativo incentivo per il lettore, anche con difficoltà legate ai DSA, a immergersi in una storia che parte dai margini per mettere l’adolescenza al centro.

Teo e Leo

Teo e Leo sono fratelli, gemelli per la precisione. Si assomigliano molto (ma non del tutto!) e vivono questa loro affinità a tratti con favore e a tratti con avversione. Nella prima storia che li vede protagonisti (Gemelli quasi uguali), per esempio, i due si divertono al parco giochi in modi non convenzionali che avranno conseguenze un pochino dolorose, a suon di bernoccoli e denti dondolanti, ma che offriranno loro l’inattesa occasione di distinguersi l’uno dall’altro. Nella seconda storia (Voglio la febbre!), invece, i due si trovano forzatamente separati poiché Leo si ammala e Teo no, il primo resta quindi a casa mentre al secondo tocca andare a scuola. Invidiosi l’uno dell’altro e desiderosi di godere dei privilegi altrui, i due gemelli si inventano fantasiosi stratagemmi fino a scoprire che ciò che rende speciale lo stare a casa o a scuola dipende in gran parte da chi si ha accanto.

Vivaci e scanzonati Teo e Leo sono due personaggi divertenti, resi particolarmente simpatici da un approccio sorridente alla quotidianità delineato dall’autrice Sara Stangherlin e dal tratto fumettistico dell’illustratore Fabio Santomauro.

 

LA COLLANA TANDEM

Teo e Leo fa parte della collana Tandem, la cui idea di base è sfiziosa: due storie indipendenti ma comunque legate tra loro, l’una più breve, semplice, stampata in maiuscolo e composta di frasi perlopiù essenziali; l’altra più lunga, più articolata, stampata in minuscolo e composta da frasi non prive di subordinate. La lettura della prima, più agevole e a misura di principiante, crea le condizioni e gli incentivi (conoscenza dei personaggi e della situazione di partenza, voglia di scoprire cosa succede in seguito, sfida a mettersi alla prova con un testo adatto a lettori un pelo più arditi) per affrontare la seconda nonostante il livello di difficoltà maggiore. Entrambe, poi, sono stampate dall’editrice Il Castoro rispettando criteri di alta leggibilità grazie a una font specifico denominato Sassoon e a una sbandieratura a destra. Ulteriori accortezze potrebbero venire dall’uso di una carta non lucida come quella attuale e da una più ampia spaziatura.

Clown

La caccia appassionata di Camelozampa a chicche editoriali del passato da proporre (o riproporre) in Italia ci ha regalato in poco tempo libri pazzeschi e per questo non smetteremo facilmente di dire un sentito grazie all’editore di Monselice. Un grazie che si fa ancor più accorato ora che i suoi tipi hanno reso disponibile anche nel nostro paese quel capolavoro silenzioso firmato da Quentin Blake che è Clown.

Pluripremiato, anche con il Bologna Ragazzi Award nel lontano 1996, Clown è un albo senza parole ormai più che trentenne che avrebbe potuto esser creato l’altro ieri. Nelle avventure del pagliaccio pupazzo in cerca di una casa per sé e per i suoi amici gettati nell’immondizia da una risoluta donna – madre, nonna, governante o chi lo sa? –, si ritrova infatti una visione d’infanzia puntuale e una rappresentazione del mondo adulto, capace di mettere in luce, con tutte le sue ombre, l’attualissima tendenza a controllare, strattonare, mettere in mostra e sterilizzare, letteralmente e metaforicamente parlando, i bambini e il loro mondo.

Dal bidone della spazzatura in cui viene buttato insieme ad altri giocattoli, il clown di Quentin Blake esce con una caduta rocambolesca che è anche, significativamente, l’inizio di una rimessa in piedi. Da qui, dopo aver trovato le scarpe giuste – un paio di buffi scarponcini malconci – questi inizia a rincorrere e interpellare una serie di bambini nel tentativo di farsi adottare, insieme ai suoi compari di sventura. La risposta è sempre positiva ma tra chi viene trascinato via distrattamente con una sorta di guinzaglio e chi viene allontanato dal pagliaccio presumibilmente perché zozzo, la ricerca di un nuovo compagno di giochi si fa più ardua del previsto. Fino all’incontro – al volo, è il caso di dirlo – con una bambina in una situazione di disagio famigliare il quale, pur costringendola a farsi grande più in fretta del necessario, non annichilisce la sua capacità di stupirsi, godendo di piccole magie quotidiane e rendendole forse apprezzabili anche a qualcuno dei grandi che girano nei paraggi.

Lo stile di Quentin Blake è come sempre freschissimo, irriverente e dinamico, al punto che vien da chiedersi se possa esistere un personaggio che meglio di un clown – sempre in movimento, a tratti goffo e con il suo carico di malinconica ironia – vi trovi espressione. Forse no. E forse anche per questo quest’albo che proprio un clown rende protagonista ci appare così stupefacente. Capace di coniugare uno sguardo sorridente e un grande rispetto per i temi e le vite ritratte, con i loro più o meno superficiali aspetti di povertà, Clown mette a nudo vizi e debolezze caratteristici dei grandi, rivelandone tutta la miopia dello sguardo, soprattutto quando rivolto ai piccoli.

Inimitabile nella capacità di far avanzare una narrazione  e di darle spessore emotivo affidandosi a dettagli minimi e minuziosi, Quentin Blake propone qui una storia non solo indomita – nel senso e nel ritmo – ma anche largamente accessibile. All’assenza di testo – ossia di quell’elemento che spesso preclude la possibilità di godere appieno di un bel racconto, soprattutto in caso di dislessia o sordità – si aggiunge qui una costruzione per immagini che richiede sì alcune inferenze ma che dissemina la pagina di indizi utili a compierle e che perlopiù immortala frammenti narrativi che accompagnano per mano il lettore nella decodifica dell’accaduto. Questa modalità a tratti cinematografica fa sì che al lettore si offra una certa libertà interpretativa – quella peraltro caratteristica dei silent book – senza che passaggi troppo ostici o oscuri facciano inciampare il lettore il quale dunque, anche in caso di lievi difficoltà, può godere di una performance narrativa degna di un grade artista come Blake e come il suo irresistibile Clown.

Una per i Murphy

La scrittura di Lynda Mullaly Hunt è magnetica, lo avevamo scoperto leggendo Un pesce sull’albero (non a caso vincitore di numerosi riconoscimenti in tutto il mondo tra cui il Premio Letteratura per Ragazzi di Cento). Ecco perché la pubblicazione, sempre per i tipi lungimiranti di Uovonero, di un nuovo romanzo dell’autrice americana (anche se in realtà sarebbe il suo primo) è una notizia che manda in brodo di giuggiole. Ed ecco perché, anche dopo la lettura, in quel brodo si resta a mollo!

Una per i Murphy – questo è il titolo del libro – è infatti un romanzo di grande forza, che mette a  nudo l’importanza di un’educazione sentimentale di cui la famiglia è prima custode. Lo fa attraverso la vicenda di Carley Connors, ragazza tenace e fragilissima, vissuta per anni insieme a una madre per nulla in grado di occuparsene, scampata alle intenzioni violente del patrigno e finita in affido all’affettuosa famiglia dei Murphy. E qui, in particolare, inizia il racconto che riprende Carley nei mesi in cui cerca di trovare il suo nuovo posto e il suo nuovo ruolo in una dinamica famigliare che le è del tutto sconosciuta, in cui impara a costruire relazioni solide basate sulla fiducia e l’apprezzamento (reciproco ma anche di sé stessi), in cui viene a patti con il suo passato e con il suo presente e in cui sperimenta in prima persona che consentire agli altri di lasciarsi amare e accudire è prima di tutto questione di allenamento. Quello di Carley è un percorso in salita ma con una pendenza che man mano cala, fino a quel finale tutt’altro che atteso con cui si apre per lei una fase di consapevolezza nuova in cui riuscire a definirsi non solo in base a “quello che la rende diversa da tutti gli altri”.

In mezzo c’è una trama fitta di relazioni in costruzione, autentiche e tangibili, prima fra tutte quella con la signora Murphy solo apparentemente distante da Carley e in realtà capace di un avvicinamento paziente e di un abbraccio rispettoso dei tempi della ragazza. E poi quella con il papà e fratelli Murphy, ciascuno animato da sentimenti diversi e contrastanti nei confronti della ragazza; quella con la compagna Toni, amica non scontata e costantemente in divenire; quella con la madre biologica, in un tira e molla emotivo che richiede pazienza; e non ultima quella con la Carley reale, così diversa dalla ragazzata corazzata e resa inavvicinabile da un’infanzia anaffettiva. Proprio quelle relazioni, tenute insieme da un personaggio dinamitico e pungente come quello della protagonista,  rende il romanzo palpitante e vero, capace di smuovere il lettore nel profondo e di farlo interrogare sul valore dei sentimenti, al li là della specifica questione dell’affido. E l’autrice è davvero brava in questo perché attraverso una scrittura in movimento, che si plasma proprio sulla crescita di Carley, riesce a passare dalle iniziale frasi criptiche e tenute insieme da fili fragilissimi, espressione di un’esistenza tormentata e di un’emotività asfittica, a un racconto di ampio respiro in cui la consapevolezza di sé e della propria interiorità consente al pensiero di  dilatarsi.

Potente e profondo, Una per i Murphy è un invito caldissimo al lettore a trovarsi un posto comodo e a prendersi qualche ora per sé (per sicurezza munito di una buona scorta di fazzoletti), per gustarsi parole pesate e storie che realmente lasciano un segno. Grazie dunque a Uovonero non solo per aver portato in Italia questo romanzo, ma anche per averlo stampato ad alta leggibilità così da agevolare l’accesso anche a lettori meno forti  o con maggiori difficoltà di lettura, a una narrazione che letteralmente  travolge.

Puzzetta e piccolo pirata

Chi da piccolo ha avuto un fratello o una sorella con cui condividere la cameretta, sa che il momento di dormire può offrire occasioni ghiottissime per far viaggiare la fantasia in piacevole compagnia. Se costruite e vissute insieme, le avventure fantastiche hanno infatti un sapore diverso, più ricco e travolgente, nutrito di immaginari che si intrecciano e si mescolano. Così è anche per Puzzetta e Piccolo pirata – nomi di battaglia per esplorazioni al chiaro di luna – che ogni sera tenendosi per mano vengono catapultati in situazioni bizzarre, talvolta paurose e talvolta buffe, da cui sempre riescono a uscire facendosi coraggio a vicenda.

Accade con l’incontro con l’orso bianco, apparentemente ferocissimo ma in realtà mansueto e persino delizioso; con la visita a casa della nonna mancata e rimpiazzata da una nonna farlocca a cui rubare fette di pizza; e con le performances di canto di fronte al grande pubblico interrotte da presunti rumori intestinali. A turno, è uno dei due bambini a modellare sui suoi gusti e sogni il set dell’avventura, raggiunta poi magicamente grazie all’intervento di misteriosi folletti. Sempre a turno, l’altro bambino fa dal canto suo da spalla, da accompagnatore e da completatore della fantasia. Nei sogni a occhi aperti dei due fratelli si mescolano così con attenta adesione al mondo infantile, sogno e realtà, ricordi e desideri, ricerca del brivido e bisogno di rassicurazione, individualità e legami forti, in un rito notturno potenzialmente senza fine e denso di significato.

Puzzetta e piccolo pirata è un racconto che strizza l’occhio al giovane lettore e ne sostiene la lettura – anche laddove questa sia poco abituale o resa difficoltosa da disturbi specifici dell’apprendimento – grazie a una struttura che assembla episodi  ben definiti e in parte autoconclusivi e a un aspetto grafico amichevole che sfrutta criteri di alta leggibilità. Più lento e distaccato nelle parti introduttive, più snello e sorridente nelle parti dialogate, il racconto di Julie Bonnie si accompagna alla illustrazioni di Charles Dutertre (già apprezzatissimo in coppia con Alex Cousseu nella creazione delle avventure di Lucilla Scintilla) che con pochissimi mirati tratti sanno cogliere ironicamente ma con grande rispetto quella sospensione tra reale e fantastico che è caratteristica del libro e dell’infanzia tutta.

Davì

Davì ha diciannove anni, una corporatura secca secca, un look eccentrico in cui spicca una sgargiante cresta verde e una quotidianità che fa a meno di una famiglia. Abbandonato molti anni prima dalla madre e trascurato per il resto dal padre, Davì ha scelto di fare della città la sua dimora, esplorandone gli angoli di giorno e abitando un cantuccio del centro commerciale di notte. È la biblioteca, grazie alla presenza premurosa e attenta di Beatrice, il luogo per lui più simile a una casa: un posto in cui trovare riparo per il fisico e per i pensieri, in cui sentirsi accolto e in cui scambiare parole che fanno bene. Qui Davì viene spesso, tra un giro in città e un lavoretto alla libreria poco distante, nei momenti di svago e in quelli del bisogno, come quando viene violentemente aggredito o quando la sua vita viene messa in subbuglio dal folgorante incontro con la giovane Nicla. La biblioteca si fa cioè rifugio aperto, di fronte a una città che si mostra invece piuttosto diffidente. Perché la presenza di Davì, con quel suo aspetto trasandato e quel suo stile fuori dagli schemi, non passa inosservata e perlopiù vincola gli sguardi a giudizi sommari. Lo sa bene il lettore che conosce pian piano il ragazzo non solo attraverso il suo stesso racconto, tra ricordi del passato e un istintivo tentativo di ritrovarsi con la madre, ma anche attraverso quello dei passanti che per pochi istanti lo incontrano e lo inquadrano.

La vita di Davì, in effetti, è tutta un fuori quadro, in un mondo che invece quadrato vuole essere. Attraverso la sua storia, che mette a bene a nudo la fragilità dell’adolescenza, Davì dice tanto del bisogno di ciascuno di apparire, non tanto nel senso di mettersi in mostra quanto di non sentirsi invisibile. La sua esistenza fatta non a caso di presenze ed assenze, comparse e scomparse, vistosità e vita nell’ombra, è un concentrato di contrasti e incertezze in cui non è così difficile riconoscersi e a cui il giovane lettore può dunque restare facilmente agganciato, grazie anche a una narrazione che scivola in fretta ma non manca di lasciare il segno.

Come la storia del suo protagonista, animata nel profondo da partenze e ritorni, anche la storia del libro Davì è un viaggio con tante tappe. Pubblicato per la prima volta ormai diciotto anni fa dai tipi delle Edizioni EL, il libro di Barbara Garlaschelli è approdato nel 2013 in casa Camelozampa che ora lo ripropone ad alta leggibilità all’interno della curatissima collana Gli Arcobaleni. Davì si fa così esempio emblematico di un prezioso lavoro di riscoperta editoriale messo in piedi dalla casa editrice padovana, con l’intento di valorizzare titoli di qualità del passato ingiustamente dimenticati e di renderli fruibili ad un pubblico il più possibile ampio. Chapeau!

Micromamma

Una mamma pret-à-porter: così diventa, in pratica, la mamma di Sander il giorno in cui inizia a rimpicciolire. Fenomeno strano davvero, il suo: la signora diventa infatti più piccola ogni volta che qualcosa va storto. E così, tra la notizia dell’operazione a cui deve sottoporsi, la fuga villana del fidanzato Allan e quell’incidente in pasticceria con la torta di nozze caduta dal tavolo, la mamma di Sander diventa a tutti gli effetti una micromamma che sta in un taschino, dorme in una scatola di fiammiferi e usa un bottone come piatto. Sander si occupa di lei con una tenerezza e una maturità fuori dal comune fino a quando la mamma sparisce dalla cartella in cui l’aveva riposta per portarla a scuola con sé. E da lì la situazione precipita in un turbinio di incursioni vietatissime in classe, corse al parco, indagini e inseguimenti fin nel mezzo di una festa di matrimonio. Complice delle ricerche e del lieto fine, il trovatello Zorro: un cane irresistibile, la cui generosa vivacità offrirà  un supporto più che mai prezioso a Sanders in un momento di grande fragilità.

Attraverso avventure rocambolesche e a tratti surreali, Piret Raud dà voce a una vulnerabilità non solo infantile ma più ampia, familiare: una vulnerabilità che nella vita vera ha tante facce, tante sfumature e tanti risvolti. Nello strano caso della micromamma, leggero e piacevolissimo per come è raccontato, si leggono per esempio il disagio di sentirsi sovrastati da avversità troppo grandi da affrontare, il dolore di apparire invisibile agli occhi di un genitore e un certo infantilismo dei grandi di cui i piccoli fanno le spese, il tutto attraverso una forma narrativa che trasforma felicemente in situazioni reali quelli che sono di solito solo modi di dire (sentirsi piccolo piccolo o invisibile, avere la testa tra le nuvole…).

Stampato ad alta leggibilità da Sinnos – con font specifico leggimi, spaziatura maggiore, sbandieratura a destra, sillabazione evitata, paragrafi distinti e illustrazioni frequenti – Micromamma offre un’occasione di lettura avvincente anche per chi non affronta il testo in maniera speditissima, forte di una veste grafica amichevole che si sposa a una trama senza posa.