Un giorno nella vita di Dorotea Sgrunf

Ha una dimensione più grande della maggior parte degli albi in commercio, è piacevolmente più pesante e corposo e si presenta con un’insolita forma quadrata. Impossibile, dunque, non farsi incuriosire da Un giorno nella vita di Dorotea Sgrunf, fin dalla sua fisicità. È un fuori raffinato e intrigante, il suo, che si fa sincera anticipazione di un dentro che è un’autentica delizia.

Qui i due maiali che compaiono in copertina – una scrofa agghindata che torna dal mercato carica di provviste e un porcellino dall’aria monella che la tira per il grembiule  – sono immortalati in alcuni momenti, tanto gustosi quanto apparentemente irrilevanti, di una giornata qualunque. Un pettegolezzo al telefono, una torta in preparazione, una cena distinta, un bagno rilassante: tutti istanti  di poco conto nella quotidianità di una suina signora, se non fosse per quel terremoto del suo figliolo che li trasforma in ghiotte occasioni per qualche guaio. E così, tra frange di tappeto tagliuzzate, uova rotte e  cerbottane di ciambellone, il maialino invita il lettore scoprire marachelle sempre nuove fino quasi a sentirsene felicemente complice.

È un invito irresistibile, in effetti, quello a voltare pagina seguendo lo scorrere del giorno. Complici di grande effetto, sono i finissimi intagli che dinamizzano e prolungano ogni scena, trasformandola in una sorta di quinta teatrale dietro cui sbirciare. Il lettore ha così modo di sfogliare pagine preziose nella loro delicatezza che offrono piccole gustose anteprime di ciò che verrà dopo: un personaggio, un’azione o anche solo un ambiente, comunque sufficienti a far venire l’acquolina narrativa in bocca. È un coinvolgimento insieme emotivo (sfido a trovare qualcuno che non abbia compiuto simili guai domestici) ma anche fisico, poiché si ha letteralmente l’impressione di varcare le porte ed entrare nelle stanze in cui le diverse scene si svolgono. La soddisfazione di lettura e rilettura, in solitaria o anche a due voci genitore-figlio, è dunque grande. L’assenza di parole, poi, unita a un’innegabile raffinatezza stilistica la rende fruibile anche a giovanissimi lettori che poco d’accordo vanno con il testo scritto, per esempio perché dislessici o sordi, ma che in un racconto per immagini trovano terreno fertile e accessibile per i loro volteggi fantastici.

Edito originariamente nel 1978, pubblicato per la prima volta nel nostro paese dalla visionaria casa editrice di Rosellina Archinto (con il titolo Un giorno nella vita di Cecilia Lardò), la mitica Emme Edizioni, Un giorno nella vita di Dorotea Sgrunf torna ora a solleticare i lettori italiani grazie alla felicissima intuizione e iniziativa di una casa editrice fresca fresca, la LupoGuido. Primo titolo in catalogo per la casa editrice milanese, il silent book firmato da Tatjana Hauptmann festeggia così i suoi primi quarant’anni, continuando a offrire un ritratto scanzonato e realissimo dell’infanzia in cui bricconi di ogni età non faticheranno a riconoscersi e mamme di ogni tempo troveranno sorridente conforto!

Mangia la foglia!

Anna, Magnus e Stina sono tre cugini. Durante i pranzi di famiglia il loro tavolo, piccolo e rotondo, diventa una postazione separata e privilegiata di osservazione degli adulti. È da qui che i tre assistono al grande litigio di maggio che porta lo zio Jan e la zia Betta, genitori di Stina, ad allontanarsi  per un po’ dalla famiglia. Ed è da qui che assorbono, più o meno inconsapevolmente,  le dinamiche divisive che gli adulti mettono in atto. Quelle stesse dinamiche non tarderanno a trovare una replica in scala ridotta anche tra i piccoli di casa, alimentate in particolar modo dalla dieta vegetariana di Stina. “Stina è una ragazzina inutile”, “Io una volta l’ho sentita fare muuuu”, dicono di lei Magnus e Anna, convinti così di consolidare la loro amicizia esclusiva. Fino al giorno del funerale della nonna di Stina, quando le prese in giro di Magnus passano il segno facendo correre un grosso rischio alla cuginetta e aprendo gli occhi di Anna su quanto un’amicizia che si regge sul dileggio altrui sia fragile e inconsistente.

Il racconto breve scritto da Bart Moeyaert (qui in una sorridente conversazione con l’editrice Della Passarelli in cui si racconta come nasce Mangia la foglia) è denso e avvincente, capace in pochissime parole di tratteggiare un’infanzia vera e palpitante, finanche politicamente scorretta. Nelle noiose ore a tavola, nei “facciamo finta che…” che si sviluppano sul prato, nelle promesse indissolubili, nella forza silenziosa del modello adulto, nella tentazione di costruire rapporti saldi su un comune nemico ma anche nella capacità di cogliere un’ingiustizia quando perpetrata, si leggono infatti quella fragilità e quella determinazione che rendono speciale l’età bambina. L’autore le coglie con un’efficacia rara, offrendo al giovane lettore un’occasione intensa di leggersi e riconoscersi. Le parole di Bart, stampate ad alta leggibilità e dunque rese più agevoli da scorrere anche in caso di dislessia, sono accompagnate dalle illustrazioni di Alice Piaggio che aggiungono una forte carica espressiva a una narrazione già molto intensa.

Maionese, ketchup o latte di soia

Élianor è nuova a scuola: secca secca, pallida pallida e silenziosa come pochi, la ragazza è da subito vittima di scherni e angherie da parte dei compagni. Non che serva per forza un motivo per finire vittima dei bulli, ma questi pensano bene di bersagliarla per il suo presunto insolito odore. E così, in meno di un giorno di scuola, Élianor diventa per tutti la ragazza che puzza. Per tutti tranne uno, a dire il vero: per Noah, infatti, l’odore può raccontare a suo modo la storia delle persone, creando invisibili forme di relazione e contatto, e per questa ragione non esita ad avvicinarsi alla ragazza. Sarà un incontro turbolento il loro, sia perché li porta a sfidare la prepotenza di teppisti come Sylvester sia perché li porta a mettere faccia a faccia due quotidianità molto distanti tra loro. Come può una ragazza che vive con un guru scalzo e che si ciba di strani intrugli naturali  trovare qualcosa in comune con un ragazzo cresciuto a cola e merendine? Sarà necessario per i due andare più a fondo di una dieta per scoprire che ci si può incontrare nelle comuni esperienze di vita, emozioni e rispetto della diversità.

Fresco e avvincente, il racconto di Gaia Guasti parla in modo schietto e diretto alle orecchie dei giovanissimi, trovando così il modo più efficace di dare spazio a cose vere e complesse come il bullismo e la tolleranza. Nei pensieri di Noah ed Élianor, nelle dinamiche tra i banchi di scuola, nelle storie nascoste dei singoli personaggi, si percepisce infatti un’adolescenza palpitante. E brava davvero è l’autrice a coglierla e restituirla nella sua ricchezza. Già edito nel 2016 da Camelozampa, Maionese, ketchup o latte di soia è ora ripubblicato dall’editore padovano in una snella e apprezzabilissima versione ad alta leggibilità che sfrutta il font Easyreading e un’impaginazione più ariosa del testo.

Contro corrente

Emily è una ragazzina degli anni venti, curiosa e intraprendente. A differenza di molte coetanee, della madre e della sorella, non mostra grande interesse per pizzi e merletti ma coltiva una grande passione per il nuoto. È stata la cugina Gertrude, professionista della disciplina e vincitrice negli stessi anni di un’olimpiade e del record di traversata femminile della Manica, ad accendere la scintilla per questo sport il giorno in cui le ha regalato il suo costume da bagno. Come un segno del destino, quel dono sosterrà Emily nei suoi allenamenti segreti e osteggiati in compagnia dell’amico Leo, fino al compimento della sua piccola grande impresa di nuoto al lago.

La vicenda di Emily, inventata ma ispirata alla storia vera della nuotatrice newyorkese Gertrude Ederle, è portata all’attenzione dei lettori dal fumetto edito da Sinnos con un garbo e una cura rari. Alice Keller ha infatti la capacità speciale di raccontare le storie, vere o inventate che siano, con una pacatezza che ammalia e tiene sospesi, un po’ come quando si tira il fiato e ci si immerge in fondo a un lago. È un racconto pulito il suo, talvolta ironico e talvolta secco, un racconto che non prova mai a spiegare le emozioni preferendo di gran lunga lasciare che vengano a galla da sé, naturalmente. A sostenerlo, echeggiarlo e completarlo, le leggiadrissime tavole – ora a tutta pagina ora in formato mignon – di Veronica Truttero. Il risultato è un fumetto che appassiona con grande leggerezza, facendo dell’apprezzabilissima sintonia tra le autrici, la chiave di volta per tenere agganciato il lettore.

Mio nonno gigante

Metti che un giorno ti svegli e ti ritrovi il nonno alto sei metri: un nonno gigante che si aggira in mutande e ciabatte per la città, come un novello King Kong con la dentiera. Cosa fai? Bella domanda! Se lo chiede anche la famiglia Brodino alla quale questa strana avventura effettivamente è capitata. Mio nonno gigante, nato dalla penna scanzonata di Davide Calì, è proprio il racconto di quella mattina insolita in cui la mamma smette di cercar mosche nella tazza di te, il papà smette di controllare se ha vinto alla lotteria, Brodino-figlia smette di pesare le fette biscottate e Brodino-Figlio smette persino di ascoltare i Cani Lagnosi per andare a cercare il nonno colosso: una rincorsa improbabile che scomoda persino generali ottusi dell’esercito e si risolve (si fa per dire), infine, con un astuto stratagemma culinario. Gli anziani, si sa, tocca prenderli per la gola…

Con un racconto che mescola con grande sapore dimensione reale e surreale, non solo negli eventi ma anche nelle parole dei protagonisti, Davide Calì invita i bambini a una lettura che scorre spassosa e originale. Straordinariamente adatta a una condivisione ad alta voce – grazie ai dialoghi ritmati e spiazzanti, all’uso arguto di elenchi e climax e a una narrazione che garantisce un sorriso fisso in volto – Mio nonno gigante offre altresì una ghiotta occasione di lettura autonoma per bambini alle prime armi, anche poco invogliati o propensi a scegliere un libro, a causa di difficoltà legate ai DSA. Le caratteristiche tipografiche care alla casa editrice (font specifica biancoenero, carta color crema e opaca, spaziatura maggiore, sbandieratura a destra, corrispondenza tra punteggiatura e a capo) che garantiscono l’alta leggibilità del volume si sposano infatti a un testo piacevole da seguire e sostenuto da illustrazioni a loro volta molto ironiche. Il risultato è un libretto snello che mette a proprio agio, diverte e dà al piccolo lettore grandi soddisfazioni.

Il Diario di Anna Frank

Benvenuta Parimenti, aspettavamo da tanto tempo una collana come te! Già, perché Parimenti è la prima collana di libri in simboli per giovani adulti pubblicata da un editore italiano: una proposta di cui ragazzi con disabilità comunicativa e cognitiva lamentavano la tempo l’assenza e che oggi trova un primo significativo spazio, grazie al coraggio e all’impegno delle edizioni la meridiana e al progetto promosso insieme al Centro Documentazione Handicap di Bologna e all’Associazione Arca Comunità “l’Arcobaleno” Onlus di Granarolo.

La collana, inaugurata a gennaio 2018, si apre con Il diario di Anna Frank, di cui propone una versione ridotta, adattata e simbolizzata.  Del lungo e noto diario lasciatoci in eredità dalla tredicenne tedesca è stato infatti selezionato un numero contenuto di passaggi significativi, tale da garantire un equilibrio misurato tra resa del testo e del contesto originale e comprensibilità della vicenda. Così il lettore trova la giovane Anna nel giorno del suo compleanno, quando riceve in dono il diario e  decide di chiamarlo Kitty e confidargli la sua storia; nel giorno in cui con la sua famiglia, prima del previsto, dalla polizia tedesca e si rifugia in un appartamento segreto; negli infiniti giorni seguenti in cui tra la paura, la noia, la fame e la tristezza dominanti cercano di farsi spazio alcuni brandelli di normalità, come il primo tenero amore con Peter o l’invenzione di un modo creativo per preservare la magia dello scambio dei doni di san Nicola. Tutto questo mentre fuori la guerra si inasprisce, le perquisizioni della Gestapo si fanno temibili e le notizie di una futura liberazione arrivano come un’eco senza una precisa data in cui sperare.

Ecco dunque che, anche grazie alla concisa ma puntuale introduzione al volume, anch’essa in simboli, questa particolare versione de Il Diario di Anna Frank riesce a mettere a fuoco, anche agli occhi di chi arranca su di un testo tradizionalmente scritto, ciò che di davvero urgente c’è nel racconto della giovane Anna: la quotidianità travolta, l’umanità vessata, i sentimenti di paura e incomprensione, la vitalità giovanile che cerca spazi di espressione e sopravvivenza, l’insensatezza di una guerra e di una pulizia etnica che non trova alcuna forma di sensatezza.  Il senso profondo de Il Diario di Anna Frank trova quindi nuova forma espressiva in un testo rielaborato in modo da risultare più lineare e diretto e funzionale a una resa tramite codice simbolico. Le frasi prive di costruzioni arzigogolate e contraddistinte da un lessico perlopiù piano vengono infatti simbolizzate facendo ricorso ai Widgit Literacy Symbols: la collezione di simboli adottata dagli inbooks e particolarmente indicata per la traduzione di un testo preesistente. Piuttosto versatile e ricca questa si presta bene a trascrivere in simboli un denso come quello in questione e adatto a lettori che non alle prime armi.

Perché in effetti sono proprio i lettori a essere al centro di un progetto editoriale (e non solo) come questo: quei lettori che crescono con un forte bisogno (e diritto) di confrontarsi con i pari e con la realtà che li circonda ma che spessissimo non trovano gli strumenti adatti a supportare e accompagnare questo bisogno. Perché per essere cittadini attivi, partecipi e coinvolti è necessario poter maturare delle riflessioni, poter conoscere la propria storia, poter ampliare il proprio sguardo con le narrazioni più profonde, e poter costruire il proprio pensiero anche in relazione a quello di altri. Ma è prima di tutto necessario che questi siano possibilità riconosciute a tutti, anche ai ragazzi con disabilità cognitiva e comunicativa. Solo, cioè, partendo dal presupposto – elementare ma tutt’altro che scontato – che il pensiero non sia annullato dalla disabilità e necessiti quindi di adeguato nutrimento, è possibile attivare progetti efficaci e segnare un percorso di reale crescita e inclusione. E questo è esattamente ciò che un progetto come Parimenti fa, mettendo in campo la consapevolezza che i ragazzi con disabilità crescono  e con loro cresce la voglia di confrontarsi con un mondo, un tipo di narrazione e un pensiero via via più complessi.

Non è te che aspettavo

Dire tutto quel che c’è da dire e farlo con un’ironia fine e profonda, ecco la dote rara di Fabien Toulmé, autore, voce narrante e protagonista dello splendido fumetto Non è te che aspettavo. Nella graphic novel portata in Italia da Bao Publishing c’è il racconto di una diagnosi  temuta, di una paternità travagliata, di un amore genitoriale che arranca prima di spiccare il volo.

Facciamo la conoscenza di Fabien in Brasile, durante la seconda gravidanza della moglie Patricia, in occasione delle primissime ecografie che sembrano non rivelare alcuna criticità per la bimba in arrivo. Poi lo seguiamo nella periferia parigina,  dove la coppia con la prima figlia Louise, si trasferisce a gravidanza inoltrata: i mesi passano, nuovi esami si accumulano, ma nulla ancora  lascia presagire un’anomalia nel feto. Eppure Fabien ha come un presentimento e l’irrazionale timore che la sua bimba possa avere qualcosa che non va. Che possa avere la Sindrome di Down, più nello specifico: una forma di diversità che fin dall’infanzia lo turba e gli reca un senso di respingimento. Perciò quando dopo il parto è proprio questa diagnosi ad arrivare, non è una tegola che gli cade sulla testa ma un tetto intero. Trascorrono settimane di tormento, in cui Fabien si sente lacerato da sentimenti contrastanti: c’è la delusione per una figlia che non somiglia affatto a quella che si era immaginata e per una vita che prenderà una strada diversa da quella che aveva programmato; c’è la rabbia verso quei dottori che non hanno saputo prevedere il problema; c’è l’invidia verso i genitori più fortunati; c’è  il senso di colpa verso una moglie che sa accettare la figlia con una naturalezza sbalorditiva e c’è lo spaesamento più totale rispetto a una forma di paternità che non sente affatto propria. Tutto si riflette in una quotidianità che si trascina pesante, in cui anche i momenti di più intima relazione con la piccola Julie diventano fardelli, in cui tocca trovare il modo di dire, a conoscenti e sconosciuti, la diversità della propria figlia e infine quella diversità guardarla in faccia. E forse è proprio quando Fabien trova quel coraggio lì, quello cioè di guardarla negli occhi la diversità di Julie, che qualcosa davvero cambia e che l’autore finalmente dice: “Mi sentii felice, felice di essermi evoluto, di non vedere più l’handicap ma il bambino”.

Ecco, qui forse sta il punto più delicato della faccenda: siamo umani e la diversità ci spaventa, anche quando riguarda persone a noi carissime e a cui siamo strettamente legati. L’handicap può distorcere la nostra percezione degli individui e dei rapporti, richiedendo un preciso sforzo di rimessa a fuoco dello sguardo. È dunque un vero e proprio percorso quello che porta a mettere da parte l’irrazionale per cogliere l’umanità di ciascuno e scongelare le emozioni: un percorso non semplice ma possibile, e che come tale va promosso. Il percorso di Fabien, tanto più duro e tormentato perché vissuto in veste di papà, è dunque il percorso che riguarda noi tutti e che sta alla base della costruzione di una società inclusiva. Ecco perché un libro come Non è te che aspettavo merita, fortissimamente merita, una lettura attenta e appassionata, non solo da parte di chi una disabilità la sperimenta o l’ha sperimentata in qualità di genitore e che in queste pagine può ritrovarsi e ritrovare un sentiero.

E poi, aspetto tutt’altro che secondario, non solo il libro racconta così tanto della disabilità, della genitorialità, della fratellanza, della relazione e del rapporto tra mente ed emotività ma lo fa con la provvida leggerezza che solo un maturo e ponderato lavoro di elaborazione personale, oltre che di talento innato, può generare. Le tavole che compongono Non è te che aspettavo, pulite e giocate sul monocromatismo (un colore per ogni capitolo), colgono nel segno grazie a un’ironia che aiuta a dire ciò che non è facile dire e che restituisce, in maniera ancor più autentica e irresistibile, il lato profondamente umano del protagonista. Anche e soprattutto per questo Non è te che aspettavo è un libro raro. Un libro che sa portare alla luce un carico pesante di sofferenza, con una delicatezza saporitamente umoristica.

Alex e Axel

Se è vero che nomen omen, allora il legame speciale che unisce Alex e il cane Axel che abita vicino a lei pare predestinato dalla somiglianza tra i loro nomi. È tuttavia un legame tanto forte quanto osteggiato, il loro: il padrone di Axel è infatti un uomo scorbutico e scostante, tutt’altro che favorevole alle attenzioni che ogni giorno la ragazzina rivolge al suo cane. Alex non cede, però, alle proteste del signor Alberto, soprattutto quando si accorge che questi non offre al povero Axel la libertà di movimento che meriterebbe e che anche il cane – ringhioso e aggressivo verso chiunque tranne lei –  manifesta nei suoi confronti un attaccamento fuori dal comune. Da lì in poi, Alex farà di tutto per stare vicino al suo amico peloso e per fargli avere il dovuto svago: compreso scavalcare la recinzione del signor Alberto e portare Axel a spasso di nascosto. Quando però l’effrazione viene scoperta Alex passerà un brutto guaio e solo la sua straordinaria affinità con Axel riuscirà a ribaltare la situazione critica in cui la ragazzina viene a trovarsi, ricucendo rapporti compromessi e liberando da fantasmi del passato.

Alex e Axel è un libro che fa parte della serie azzurra del Battello a Vapore: è destinato ai bambini dai sette anni in su ma richiede una certa pratica di lettura. Il testo ha già infatti un certo spessore e non trascura parti riflessive e sottesi che richiedono una certa dimestichezza nel lettore. La scelta editoriale di pubblicare il libro ad alta leggibilità – con font specifico, paragrafi distanziati e non giustificati, spaziature maggiori e assenza di sillabazione – viene dal canto suo incontro alle esigenze di bambini con disturbi specifici dell’apprendimento che non vogliono rinunciare al gusto di storie appassionanti.

Parla…papà

Sono tanti e diversi i modi in cui una disabilità può entrare nella vita di un bambino. Uno di questi, poco considerato e poco raccontato, è quello che passa attraverso la figura di un familiare: quando, cioè, la disabilità non colpisce direttamente il minore ma una persona a lui cara. L’impatto, soprattutto se una malattia o un incidente portano una limitazione all’improvviso, è molto forte e traumatico, come mostra efficacemente il racconto di Sandra Dema dedicato all’afasia. Qui, il papà del protagonista-narratore viene colpito da un malore e dall’oggi al domani non riesce più a parlare. Il turbamento del bambino è tangibile e pervasivo, soprattutto quando la notizia arriva inattesa, come una doccia fredda. Poi però trova spazio un salvifico ribaltamento di ruoli che porterà il piccolo a occuparsi del grande, con l’intento di recuperare insieme quelle parole smarrite tanto importanti per dire l’affetto.

Diretto e mirato, Parla..papà è un albo funzionale a far conoscere una situazione purtroppo esistente e rispetto alla quale esistono pochi strumenti narrativi a disposizione dei bambini per elaborare il trauma vissuto. Le parole pacate di Sandra Dema e le illustrazioni dalla forte carica espressiva di Chiara Gobbo danno invece voce a un dolore e a una paura travolgenti che possono trovare nelle storie una via aperta per la condivisione, l’espressione e forse l’accettazione di una situazione spiazzante.

Io rispetto. Filastrocche per una lettura della Convenzione sui Diritti delle Persone con Disabilità

C’è un paese di nome Armonia, in cui ogni persona vive serenamente, libera di giocare, crescere, imparare, esprimersi, realizzarsi nella maniera che gli è più congeniale, anche nel caso in cui sia colpito da una disabilità. Armonia è certo un paese fantastico ma che traduce in immagini efficaci il senso di un documento importante come la Convenzione dei Diritti delle Persone con Disabilità e che si vorrebbe non distasse molto dalla realtà. I suoi abitanti accoglienti, le sue leggi amichevoli e i suoi luoghi ospitali rendono bene l’idea di come dovrebbe costruirsi una società inclusiva quale quella raccomandata dal documento redatto dall’ONU nel 2006. Questo, reso a misura di bambino grazie a un lavoro intitolato “Parliamo di abilità” promosso dall’UNICEF, funge proprio da ispirazione per i quattordici componimenti in rima di Io rispetto. Filastrocche per una lettura della Convenzione dei Diritti delle Persone con Disabilità, scritti da Bendetto Tudino e illustrati da Marianna Verì.

Il volume nasce da un progetto dell’Unicef, dell’Agenzia Politiche a favore dei Disabili del Comune di Parma e dall’associazione Rinoceronte Incantato. Forte dell’idea che le norme vanno il più possibile fatte proprie e interiorizzate, il libro sceglie la via della rappresentazione poetica per dare un senso pieno, comprensibile e vicino al sentire dell’infanzia a norme rigorose e astratte. Così il diritto di ridere, scegliere, esserci o decidere acquistano un significato più vivo e palpitante, più facile da riscontare e forse mettere in pratica nella vita di tutti i giorni. Tra tanti diritto, poi, non manca quello a noi tanto caro, di leggere, che l’autore chiude così:

Impara così un Mondo felice

Quel che si fa, si pensa e si dice.

Con le mani, gli occhi e la mente,

studia il sapere di tutta la gente.”

Due conigli

La tenera meraviglia che suscita l’immersione in un albo senza parole come Due conigli di Daphne Louter è difficile a dirsi. C’è di mezzo lo stile pacato e dal gusto deliziosamente anglosassone dell’autrice, una capacità rara di cogliere l’infanzia nella sua più intima più vera e un gusto per i dettagli che dilata con letizia il tempo della lettura.

Protagonisti sono due conigli, presumibilmente fratelli, ritratti nel bel mezzo di momenti al contempo quotidiani e speciali, come una battaglia dei cuscini al risveglio, il gioco dei travestimenti, una festicciola in giardino,  le letture della sera. Ogni istante è immortalato in punta di piedi, come se l’occhio curioso dell’autrice si soffermasse di nascosto e con diletto a godersi le marachelle dei due cuccioli nella casa di campagna. Ognuno di questi istanti è anticipato da un dettaglio – un palloncino, una tazza, un paio di stivaletti rossi – messo ben in risalto su sfondo bianco nella pagina di sinistra, che lascia immaginare e pregustare che cosa potrebbe succedere in quella accanto. Lo stesso dettaglio ritorna poi nella pagina di destra  (al lettore, di volta in volta, trovarlo), inserito in un quadro completo che vede in azione i due protagonisti. E qui davvero ci si può perdere, scovando l’immancabile gallina di compagnia, cogliendo la precisione con cui i movimenti e i giochi infantili (talvolta condivisi, talvolta indipendenti)  sono ritratti, gustando richiami a capolavori della letteratura per l’infanzia (uno su tutti, I tre piccoli gufi che dalla cima di un mobile in soffitta guardano i due fratelli agghindarsi e mascherarsi) e assaporando dettagli minimi e gustosi (come le pantofole a forma di coniglio o gli oggetti che di quadro in quadro ritornano) e immaginando ciò che succede al di fuori del quadro, giusto oltre il margine del libro, ma anche ciò che accade prima e dopo il momento colto. Cosa si festeggia in giardino? Cosa sta prendendo la signora zebra in cima alla scala dell’emporio? E ci sarà una bella marmellata per merenda? Al lettore, paziente collezionista di indizi preziosi, il piacere di deciderlo e dirlo.

Insomma, è un albo dalla struttura semplice e iterata, Due conigli, in cui la storia si compone di una serie di flash che riassumono una giornata specialmente ordinaria. Eppure tra queste pagine si cela un mondo profondo che richiede attenzione e rende il volume adattissimo – più di molti volumi costruiti ad hoc, peraltro – a offrire spunti a chi cerca libri sulla relazione, sull’autonomia, sul genere o più in generale sulle peculiarità dell’infanzia.

Con le ali di Aurora

Nella vita di Lorenzo qualcosa sta cambiando: il papà si è trasferito per lavoro in Australia, la mamma non è più solare come in passato e nella sua classe, da qualche tempo, tutto sembra più caotico e complicato. Una volta era diverso: la vita in famiglia nella tranquilla Pesaro era piacevole, la mamma Lola inventava storie buffe senza diventar matta per trovare un editore e il suo amico Maurizio stava bene con lui, sia a casa sia a scuola. Ma ora non più. E così Lorenzo si dedica in solitaria a passioni come il basket e prova a ritrovare una sintonia con chi gli sta accanto, alla disperata di ricerca di un equilibrio con sé stesso e con il mondo intorno. In questo delicato passaggio è l’arrivo in classe di una nuova bambina, Aurora, a fare la differenza. Affetta da sindrome di Down, Aurora ha modi e tempi tutti suoi, necessita di un insegnante di sostegno e crea non poco scompiglio in classe mettendo a dura prova la pazienza delle maestre e le dinamiche rodate del gruppo. Proprio questo suo modo insolito di stare al mondo porta però Lorenzo a una riflessione importante su cosa sia la normalità e a un’idea vincente che metterà insieme la passione di Aurora per il disegno e l’abilità di Lola nel narrare storie.

Con le ali di Aurora è un libro con un ritmo pacato che parte piano piano e accelera sul finale dopo essersi preso il tempo di far conoscere i suoi protagonisti al lettore. Le situazioni di vita scolastica che dipinge sono impastate di realtà e danno conto del ruolo determinante giocato, per una buona soluzione inclusiva, dalla personalità, dall’inventiva e dalla buona volontà delle singole maestre . Nel comportamento di Maurizio e di Aurora, ma anche dei loro compagni, c’è tutto lo scarto tra le etichette di cui sono infarcite le direttive e la pratica con cui gli insegnanti si trovano quotidianamente  ad avere a che fare, ci sono le soddisfazioni enormi di chi abbraccia la missione  educativa ma anche le sue difficoltà non trascurabili, c’è la necessità ben espressa di trovare spazi di conforto per ciascuno e possibilità di valorizzazione che travalichino i limiti imposti dall’handicap. Nel libro potranno trovare tracce di sé, quindi, sia gli adulti che i bambini, il che rende Con le ali di Aurora particolarmente adatto a una lettura in classe che stimoli il confronto e la condivisione di esperienze.

Eppure sentire

Silvia va per i quindici anni, frequenta il liceo classico, gioca a pallavolo e ha recentemente avuto un incidente sulla corriera che la portava a scuola: un grosso schianto con un tir proprio in corrispondenza del suo sedile e una ferita importante in testa. Ma soprattutto un aumento del danno all’udito con cui la ragazza combatte fin dalla nascita a suon di protesi – due giraffe a macchie che sono ormai parte di lei – e di instancabili esercizi di ascolto e lettura del labiale condotti insieme all’amorevolissima mamma. Insomma, l’incidente non ci voleva proprio, soprattutto perché concorre a rendere inderogabile la decisione che Silvia rimanda da tempo: sottoporsi o meno all’intervento per l’impianto cocleare.

Accanto e intorno a questa decisione ruotano eventi, incontri, pensieri in un turbinio che solo l’adolescenza è in grado di tenere insieme: le amicizie che nascono e che muoiono, l’amore che sboccia, le attività di volontariato, le feste, le prime responsabilità, il senso di esclusione, il desiderio di mascherare la propria diversità, i sentimenti complessi nei confronti dei propri familiari. Il tutto con l’inscalfibile consapevolezza che la sordità resta un marchio a cui è difficile sottrarsi, un fardello che condiziona ogni azione e rappresentazione di sé nel presente e nel futuro. Lo dice chiaramente, Silvia:

Se hai già fallito una volta, nascendo sorda, non puoi fallire più. Anzi, come minimo, per recuperare non devi essere solo normale, devi essere eccezionale, sorprendente, sorprendere tutti, che progressi la bambina, chi l’avrebbe mai detto, , chi si aspettava questi risultati, meglio del previsto…”

Forte anche di un personaggio ispirato a una persona reale e davvero ben delineato,  Eppure sentire appare un romanzo forte, coinvolgente e vero, che tocca corde profonde e commuove fino alle lacrime. È un romanzo che parla chiaro alle orecchie dei ragazzi, anche a quelle di chi non sente bene o non sente affatto, scoprendo al contempo tutta la normalità e tutta l’unicità di un’adolescenza segnata da una disabilità invisibile come la sordità. Ma è anche una celebrazione degli spazi di possibilità che ciascuno ha il diritto e il dovere di ritagliarsi, qualunque sia la sua forma di diversità rispetto agli altri.

Vacanze

Trascorrere le vacanze in campagna con il nonno, godersi una libertà avventuriera che pare senza tempo ed esplorare la natura in una scatenata solitudine. Questa è l’estate per la bambina del libro di Blexbolex. Ma poi arriva lui: quell’elefantino in tenuta da marinaretto che giunge a bordo di un treno locale per occupare un posto importante in casa, al tavolo, in giardino e in definitiva nelle giornate e nelle notti della protagonista. Vissuta come una sgradita invasione di campo, questa sfocia in una serie di dispetti e scortesie, fino a quando l’ospite fugge nel bosco costringendo il nonno a una ardita ricerca notturna. Ritrovato il fuggitivo, all’adulto non resta che coinvolgere i due cuccioli nell’organizzazione di un’attesa festa in maschera. È qui che la bambina, come ipnotizzata dalle scintille che salgono al cielo da un falò, compie un viaggio immaginario e avventuroso in compagnia di un simpatico bambino: lo stesso che per un attimo rivedrà il giorno seguente, sul treno che riporta a casa l’elefantino tanto bistrattato.

Visionario e raffinatissimo come sempre, con figure e tinte dal sapore vintage (in cui si inseriscono però elementi di ordinaria modernità), Blexbolex sovverte qui alcune convenzioni legate alla rappresentazione dell’infanzia (chi non avrebbe desiderato un elefantino con cui giocare?), portando il lettore a non dare nulla per scontato e a interrogarsi sul reale significato di quella convivenza così tribolata. Chi è quel pachiderma e come mai il nonno lo accoglie nella sua casa? Ma soprattutto perché, per una frazione di secondo, sul treno del ritorno, assume le fattezze del simpatico bambino incontrato la sera della festa? Con fare ammiccante e mai invadente l’autore lascia a chi legge l’onere e l’onore di trovare le sue risposte, mostrando grande rispetto e dedizione per il delicato e prezioso ruolo interpretativo di chi sta dall’altra parte delle pagine.

Privo di parole, Vacanze procede per immagini in maniera molto chiara e lucida, rendendo a misura (anche) di bambino un racconto pur lungo (138 pagine sono un bel numero per un silent book) e contraddistinto da una sovrapposizione tra piano reale e fantastico. Alternando doppie pagine piene e riquadri più piccoli l’autore scandisce un ritmo variegato, anima la narrazione e rende a pieno il senso di relatività spazio-temporale(-sentimentale) vissuto dalla protagonista e caratteristico dell’infanzia.  “Vacanze è un minuscolo dramma – racconta non a caso Blexbolex in un’intervista – al quale ho tentato di dare una dimensione più importante di quella dei fatti effettivamente riportati  perché questo è per me tutto il sale e il valore dell’infanzia”.

Il mio tempo con Olly

Il mio tempo con Olly è l’affettuoso ritratto che di Olly, all’anagrafe Olimpia, offre il fratello. Con il pretesto di un compito delle vacanze che recita “ Scrivere un racconto su qualcuno di importante per me”, questi si propone di dipingere la straordinaria normalità di una persona con sindrome di Down come la sua sorellina.

Attraverso i ricordi e alcuni episodi di vita familiare particolarmente significativi, il giovane narratore affronta questioni delicatissime e importanti per chiunque viva più o meno direttamente una disabilità: il ruolo del sibling come equilibrista che si dondola tra un affetto smisurato e un senso di sacrificio; le battaglie per una reale inclusione scolastica; la diffusa ignoranza e scarsa sensibilità da parte di molti adulti; l’orgoglio e la soddisfazione per i piccoli e grandi traguardi raggiunti dal proprio caro, il tanto discusso “dopo di noi”. Tutto questo emerge attraverso una voce amica, che è quella di un bambino che parla ai suoi pari. Per questo motivo il libro si presta particolarmente bene a offrire uno spunto per confrontarsi – magari in classe – su un tema importante come quello della diversità e della sua accettazione. Accettazione che passa prima di tutto attraverso la conoscenza, come Il mio tempo con Olly pare sapere bene.

Scritto da Francesca Gallo con un linguaggio a misura di bambino che supporta a dovere un’intenzione divulgativa oltre che narrativa, Il mio tempo con Olly sfrutta un font ad alta leggibilità. Spiazzanti e ironiche, le illustrazioni del libro sono affidate all’estro di Andrea Rivola che sceglie di dare a Olly e alla sua famiglia un aspetto non umano. Le coloratissime talpe a cui dà vita l’autore producono quindi un certo scarto rispetto al tono piuttosto realistico del testo, sottolineando l’idea che ognuno, in fondo, è a suo modo diverso.

I racconti dei vicoletti

Questo libro è una delizia. Per lo stile gioiosamente meravigliato dell’autore, per la tenerezza dei suoi personaggi e per lo sguardo insolito che ci regala sulla Cina. E infine, non da ultimo, per il modo delicato e rispettoso che ha di dare spazio alla disabilità nelle sue brevi narrazioni.

I quattro racconti a fumetti che compongono il volume – curato anche all’esterno, grazie alla copertina rigida che gli dona consistenza e valore – vedono infatti protagonista la piccola Yu’er che si muove tra i vicoletti del suo villaggio in sella a un tre ruote amorevolmente guidato dal florido nonno. Curiosa e tenace, la bimba conquista il lettore con grande facilità, contagiandolo con il suo modo vitale e positivo di affrontare ogni situazione, malgrado la difficoltà a camminare. Che si tratti di prepararsi alle paralimpiadi in una piscina immaginaria, ascoltare un concerto nel paradiso degli insetti, rispolverare la storia d’amore del nonno o cimentarsi con l’arte, Yu’er non manca di stupire il suo lettore con un’attitudine votata all’entusiasmo.

Intorno a lei, insieme al nonnino verso il quale manifesta un affetto smisurato e profondamente ricambiato, si attivano i personaggi più diversi – dai bulli di quartiere al burbero anziano con la passione della pittura – che nel bene e nel male rendono vivo il villaggio in cui tutto ha luogo. Quei vicoletti, non a caso citati anche nel titolo del libro, si fanno cornice viva e vitale di un’infanzia lontana migliaia di chilometri ma vicinissima al sentire di qualunque bambino.

Il brutto anatroccolo

Anche solo osservato superficialmente, tenendo chiusa la copertina o sfogliando velocemente le pagine, Il brutto anatroccolo di Uovonero offre la netta e veritiera impressione di avere tra le mani un libro prezioso. Sono senz’altro le illustrazioni avvolgenti di Arianna Papini, così malinconiche e poetiche come è caratteristico dell’illustratrice fiorentina, a dire in maniera immediata al lettore quanta cura ci possa e ci debba essere in un libro progettato per risultare fruibile anche in caso di esigenze speciali.

Accolti da questa sensazione di piacevole benvenuto, ci si sofferma poi sulle pagine interne e sui testi, curati da Enza Crivelli, e anch’essi capaci di garantire l’accessibilità della storia senza per questo sacrificarne l’intensità.

In quelle frasi molto brevi e lineari, rafforzate dai simboli PCS riquadrati e affiancate da figure dall’aria imperturbabile e immortale – come d’altronde una fiaba dovrebbe essere – ritroviamo tutta la potenza di un racconto che parla in modo ancora straordinario di diversità. E che da oggi può farlo anche a bambini che faticano a leggere un testo tradizionalmente stampato e che beneficiano invece di un supporto alla comunicazione attraverso i simboli.

Questo brutto anatroccolo fa infatti parte dell’apprezzatissima collana I pesci parlanti di Uovonero che propone fiabe tradizionali in una versione adattata, con testi asciugati, simbolizzati e disposti in maniera molto pulita e chiara sulla pagina, per venire incontro alle esigenze di lettura di bambini con autismo o disturbi della comunicazione. Forte inoltre del sistema brevettato Sfogliafacile, il volume risulta più resistente anche nel caso in cui sia maneggiato con poca praticità, con frequenza o in situazioni poco agevoli.

L’idea di accoglienza e di abbraccio caloroso che sta alla base della collana trova qui una delle sue più piene concretizzazioni grazie alle scelte fatte dalle autrici. Il risultato è un libro che con il suo aspetto concorre fisicamente alla costruzione di un piacevole momento di lettura condivisa in famiglia, in classe e in biblioteca. E questo non è poco. Che poi il libro celebri il diritto e il bello di essere sé stessi, con tutte le complicazioni che questo comporta, non solo con il suo contenuto ma anche con la sua forma, è cosa ancor più rara che dà a quella iniziale e sfuggente impressione di preziosità un solido e motivato fondamento.

Per venire incontro a esigenze diverse di lettura, dal 2018 Il brutto anatroccolo e e le altre fiabe de I Pesci parlanti sono proposte dall’editore cremasco anche in una nuova collana chiamata I Pesciolini i cui volumi, identici nel contenuto ai loro “fratelli” maggiori, fanno a meno del formato Sfogliafacile e della cartonatura, risultando così più snelli ed economici (12.90 €).

 

Il mistero del Guggenheim

De Il mistero del Guggenheim, all’inizio, c’era solo il titolo. Lo aveva indicato Siobhan Dowd firmando il contratto con la casa editrice inglese prima di morire purtroppo prematuramente. E così, dopo il successo de Il mistero del London Eye,  la casa editrice inglese ha individuato una scrittrice di talento – Robin Stevens – e le ha chiesto di inventare e stendere il romanzo mai scritto dall’autrice scomparsa. Obiettivo: mettere in piedi una storia avvincente e credibile ma anche coerente con   il titolo e con la solidissima cornice narrativa della prima indagine, di cui Il mistero del Guggenheim costituisce un ideale seguito.

Obiettivo tutt’altro che semplice e che ciononostante Robin Stevens  ha abbracciato con entusiasmo. Ecco dunque che grazie a lei il formidabile Ted, ragazzo con sindrome di Asperger che vede il mondo a modo suo, sua sorella Kat, adolescente determinata e appassionata di moda e il loro cugino Salim, ormai ambientatosi nella Grande Mela dove si è trasferito con la mamma Gloria, tornano sulla scena  per risolvere un nuovo giallo. Durante una vacanza  che Ted, Kat e la loro mamma fanno a New York, si verifica infatti il furto di un prezioso quadro di Kandinskij all’interno del Guggenheim museum che Gloria dirige.  Il fattaccio accade proprio mentre i protagonisti sono in visita al museo e siccome proprio la zia Gloria viene incriminata, i ragazzi iniziano a indagare per scoprire il vero colpevole. Ma la missione è tutt’altro che semplice:  ci sono di mezzo rapporti personali e lavorativi complicati, bugie inerenti al furto e bugie da esso slegate, un piano ingegnoso per incastrare una vittima innocente, e loro tre, in fondo sono solo ragazzini. Ma hanno dalla loro, oltre a una motivazione molto forte dettata da ragioni familiari, anche una somma di abilità molto diverse e complementari tra loro, indispensabili per ricomporre tutti i pezzo del rompicapo. Tra queste spicca senz’altro l’acume fuori dagli schemi di Ted, capace ancora una volta di dare una svolta alle indagini e portare un lieto fine non solo rispetto all’arresto di Gloria.

Per chi come noi ha amato fortemente la prima storia di Ted, quel suo modo brillante e originale di mettere insieme sparuti indizi per ritrovare il cugino Salim e quel suo approccio alla quotidianità che dava voce e risonanza a un modo di essere dignitosamente diverso, le aspettative rivolte a Il mistero del Guggenheim erano altissime. Ma Siobhan Dowd è Siobhan Dowd ed eguagliarla dovendo al contempo rispettare una serie di caratteristiche narrative a lei proprie era cosa davvero ardua. Non si resta quindi sconcertati se il Il mistero del Guggenheim appare un po’ meno forte e incisivo del precedente episodio, per via di una trama forse un po’ meno  travolgente e soprattutto di un protagonista meno tratteggiato nella sua neurodiversità che era poi il potente motore narrativo de Il mistero del London Eye. Al di là dell’inevitabile confronto con il libro da cui tutto è partito, il romanzo di Robin Stevens appare godibilissimo sia per il lettore meno legato al mondo di Ted sia per quello ad esso più affezionato, entrambi catapultati in una dinamicissima New York dove tutto può davvero succedere.

Serpenti finti e strani maghi

Eccoci in un batter d’occhio alla quarta avventura della serie Vi presento Hank e a questo punto lo spumeggiante personaggio creato da Henry Winkler e Lin Oliver può dirsi familiare non solo ai lettori della serie maggiore (Hank Zipzer il superdisastro, giunta ormai all’ottavo episodio) ma anche ai loro fratellini più piccoli che hanno da meno tempo imparato a padroneggiare la lettura. Dopo Un segnalibro in cerca di autore, Breve storia un lungo cane e Fermate quella rana!, anche i sette-ottenni appassionati di avventure divertenti potranno ormai dirsi esperti del travolgente mondo di Hank.

Cacciatosi come al solito in un guaio, il ragazzino più creativo di New York si trova questa volta a dover imparare in pochi giorni un complicatissimo numero di magia. Intenerito dal sogno della sorella Emily di avere dei serpenti alla sua festa di compleanno, Hank le promette infatti la partecipazione del famoso Mago di Manhattan che potrà esaudire con i suoi poteri il suo bizzarro desiderio. Peccato che il Mago di Manhattan non esista e che Hank debba  trovare il modo di non farlo scoprire alla sorella.

Meno incentrato dei precedenti episodi sulle difficoltà scolastiche di Hank legate alla sua forte dislessia,  Serpenti finti e strani maghi  non manca di dare spazio e rilievo alla straordinaria inventiva del protagonista, qui insolitamente colto nel suo lato tenero di fratellone. Stampata come sempre ad alta leggibilità – con carattere che aiuta a confondere meno le lettere, spaziatura maggiore, sbandieratura a destra, carta color crema e grandi disegni – quest’ultima avventura è godibile e leggera: un buon incentivo alla lettura anche per chi fatica un po’ di più a far suo un testo.

Il nido

Steve ha 12 anni, una famiglia abbastanza normale, una babysitter esperta di insetti e una certa difficoltà a vivere con serenità le piccole difficoltà quotidiane. È un bambino “molto sensibile!”, Steve – così lo definiscono i genitori – un bambino con piccole ossessioni e il bisogno di contenere le ansie ripetendo delle liste e affidandosi a personalissimi rituali. Data la situazione di partenza, l’arrivo di un fratellino – Theo – con una patologia non definita che lo rende fragile e diverso, non contribuisce a rasserenare il protagonista. Dopo essere stato punto da uno strano tipo di vespa cui peraltro è allergico, questi inizia infatti a fare strani sogni in cui dialoga con la regina e in cui progetta una soluzione per i problemi di Theo. L’idea di ritrovarsi con un fratellino normale, e anzi perfetto, dapprima lo affascina e tranquillizza ma quando capisce in cosa consiste l’inquietante piano della vespa i suoi pensieri accelerano e il suo diventa un percorso di accettazione della diversità tormentato in cui spendersi e rischiare in prima persona.

Il libro di Kenneth Oppel è tutt’altro che usuale e rassicurante. L’intreccio tra reale o onirico in cui lascia sospeso il lettore, stimola, interroga e spiazza  quest’ultimo. Forte di questo doppio piano narrativo, mai nettamente definito, Il nido affronta il tema della diversità da un’angolatura insolita e proprio per questo illuminante. Senza che il protagonista sia in prima persona toccato dall’imperfezione causata da una malattia o da una disabilità, questa trova un posto preminente nella narrazione attraverso il tormentato percorso del bambino. Non ci sono moralismi spicci o lunghi discorsi sul tema, tra queste pagine,  e questo fa sì che la messa in discussione di  un’idea di perfezione auspicabile a tutti i costi, non puzzi di retorico o artificioso. Sono i sogni, le decisioni riviste, le azioni e le relazioni di Steve a portarci a riflettere, supportati in maniera puntualissima dalle illustrazioni in bianco e nero di Jon Klassen che fanno del loro caratteristico gioco di ombre, spessori e inquadrature distorte la lente perfetta per mettere a fuoco un racconto così suggestivo.

One

Grace e Tippi portano i nomi di due muse del cinema hitchcockiano, il che – come loro stesse notano – ha un che di ironico se si considera il lato innegabilmente inquietante del loro aspetto. Gemelle siamesi, le due ragazze condividono il corpo dall’intestino in giù, sfidando ogni santo giorno la curiosità morbosa e la maleducazione malcelata della gente,  che si scatenano di fronte a una diversità tanto marcata. Abituate  a una quotidianità  che richiede sincronia e sostegno reciproco, Grace e Tippi si trovano dall’oggi al domani a dover rinunciare alle lezioni private e frequentare una scuola vera e propria. Servirà loro una dosa massiccia di pazienza e di coraggio per far fronte agli sguardi stupiti, alle domande sfacciate e ai gesti scortesi che frotte di coetanei riverseranno loro addosso. Ma Grace e Tippi sono ben allenate a far fronte a tutto questo, al punto che quando dalla massa di studenti emergono Jon e Yasmeen, due amici disposti ad accogliere le due ragazze per come sono, senza troppe domande o condizioni, queste non possono credere ai loro occhi. Sarà invece un’amicizia stramba e schietta quella che legherà i quattro ragazzi, anche e soprattutto quando le cose si metteranno male, quanto a quattrini e salute.

È in particolare la voce di Grace, la più timida e fragile delle due gemelle, a portare il lettore dentro questo momento di svolta, mettendolo a parte del contemporaneo incontro con Jon e Yasmeen, dell’affetto smisurato per la sorellina Drago, del rapporto con un padre caduto nella trappola dell’alcolismo e con una madre travolta dal lavoro, dell’improvvisa necessità di valutare l’ipotesi di un’operazione separante e di un contratto televisivo per racimolare denaro. Attraverso la sua voce si delinea il versante emotivo di una vita a due gambe e quattro braccia, nella quale l’intimità e la dipendenza dall’altro diventano parte integrante di sé, nonostante i limiti che impone. Il racconto di due che sono uno e di uno che è due, in una dualità dinamica e sfuggente, procede come una poesia: forma che ne accentua il carattere intenso e coinvolgente.

Malgrado la vicenda scorra veloce e il tratteggio dei personaggi non risulti molto approfondito, One appare come un libro forte e di stacco, un libro che smuove qualcosa dentro il lettore costringendolo a chiedersi quanto potrebbe somigliare alle persone che circondano le protagoniste, con il loro carico di pregiudizi e crudeltà più o meno consapevoli, e a interrogarsi sulla sua reale capacità di comprendere e accettare una concezione della vita e dell’ identità probabilmente distante dalla propria.

Betta suona qui!

Elisabetta detta Betta ha sei anni e ha rispettivamente: una finta amica del cuore imposta dai genitori, che si chiama Celeste e che lei detesta, e una vera amica del cuore, conosciuta alla nuova scuola elementare, che si chiama Elisabetta detta Betti. Betta ha anche un fratellino più piccolo, che ha quattro anni e si chiama Marcello detto Momo. Momo ha delle abitudini e dei comportamenti bizzarri – odia quando i cibi di colori diversi si toccano, per esempio, o corre facendo l’aeroplano per calmarsi – e forse anche per questo Betta è molto premurosa nei suoi confronti e detesta le prese in giro che invece Celeste gli rivolge. Così, quando arriva il momento della prima lezione di musica a cui Betta contava di prendere parte insieme a Betti ma che per colpa delle mamme vede partecipare anche Celeste, tutto sembra votato al peggio. E invece succede qualcosa di inatteso: con il suo modo insolito di fare le cose e di distaccarsi da tutto quando la situazione si fa troppo caotica, Momo finisce per mostrare un suo sopito talento che con leggerezza trasforma la tensione in condivisione.

La scrittura di Gigliola Alvisi è pulita e leggera, sa di buono e non di buonista. È una scrittura che sa dire che l’amicizia può avere tante sfumature, che i sentimenti dei bambini possono essere tutt’altro che a tinte pastello e che la diversità può rivelare sorprese inaspettate. L’avevamo scoperto in Piccolissimo me, grazie soprattutto al personaggio di Michelangelo e lo ritroviamo qui, grazie soprattutto al tenero personaggio di Momo. Che Momo possa mostrare dei tratti autistici lo intuiamo noi e lo  possono cogliere forse anche i giovani lettori che abbiano un ‘esperienza diretta in tal senso, ma non è ciò che davvero conta e ciò che probabilmente sta a cuore all’autrice. Quel che, in effetti, ha davvero peso in Betta suona qui! sono i sentimenti positivi e negativi che la diversità accende e la straordinarietà dei piccoli eventi che possono tramutare i secondi nei primi. Su questo aspetto in particolare tiene alta l’attenzione questo volumetto smilzo ma vivo, che si presta bene sia ad una lettura autonoma sia a una lettura ad alta voce.

Un’ultima notazione: le storie che raccontano in maniera concreta e abbordabile la disabilità sono spesso racchiuse in albi illustrati e romanzi. Molto meno frequenti invece i racconti brevi e a misura di lettori alle prime armi. Anche per questa ragione Betta suona qui! – che presenta un numero contenuto di pagine, un  testo in stampatello maiuscolo  schietto e familiare e illustrazioni colorate e frequenti – va a collocarsi in uno spazio perlopiù lacunoso e merita quindi un’attenzione supplementare.

Piccolo uovo

La storia di Piccolo uovo è tristemente e felicemente nota. Tristemente perché più volte e di recente è stata oggetto di discriminazioni e accuse folli rispetto alla possibilità che veicolasse messaggi pericolosi. Felicemente perché è stata riconosciuta dal pubblico e dalla critica come una storia di stacco, che ha avviato un discorso narrativo rivolto all’infanzia sul tema importante della molteplicità delle famiglie e forse – unica nota positiva del deprecabile polverone che le accuse al libro hanno sollevato – ha trovato modo di emergere e diffondersi, foss’anche solo per presa di posizione contro un oscurantismo tutt’altro che moderno.

Firmata nei testi e nelle illustrazioni rispettivamente da Francesca Pardi e da Altan, Piccolo uovo racconta del viaggio intrapreso da un ovetto prima della nascita. L’intento del protagonista è quello di vedere con i suoi stessi occhi cosa sia una famiglia: qualcosa di cui ha sentito parlare ma che non sa esattamente cosa sia. È così che incontra famiglie di ogni tipo – con una mamma, un papà e tanti fratelli tra loro molto simili, con una mamma, un papà e dei figli molto diversi, con due mamme, con due papà, con un solo genitore – tutte egualmente rassicuranti e capaci di fargli venir voglia di nascere, per scoprire come sarà la sua.

Originariamente pubblicato da  Lo Stampatello, Piccolo uovo è reso ora disponibile in versione in simboli all’interno della collana I Libri di Camilla di Uovonero, che già annoverava tra i suoi titoli Che rabbia!, Le parole di bianca sono farfalle, Lindo Porcello e Il piccolo coniglio bianco. Grazie al ricorso ai simboli WLS – qui delimitati da riquadri che ne agevolano l’individuazione da parte dei lettori alle prime armi (destinatari primari , non a caso, del volume) e che contengono l’elemento grafico ma non quello alfabetico – il volume risulta così fruibile anche in caso di difficoltà di lettura legate all’autismo o più in generale ai disturbi della comunicazione.

L’impostazione grafica del volume di partenza – con uno sfondo bianco molto pulito e i testi disposti in maniera poco confusiva – contribuisce a rendere la versione adattata piuttosto aderente, anche nell’aspetto,  all’originale. Lo stesso si può dire del testo: lineare ed essenziale già nella sua prima versione e pertanto ideale per un processo di simbolizzazione che predilige struttura poco arzigogolate. Le immagini, infine, oltre ad essere estremamente accoglienti e familiari proprio perché portano tutta la qualità, la semplicità profonda e la riconoscibilità del segno di Altan, si prestano anche molto bene a supportare la comprensione del testo in caso di difficoltà di lettura, grazie all’assenza assoluta di dettagli superflui, alla resa pulita delle espressioni dei personaggi e a figure ben definite che catturano piacevolmente  l’attenzione.

La lega degli Autodafè – Mia sorella è una guerriera artistica

Veste nuova, stessa tensione narrativa: il secondo capitolo della saga de La Lega degli autodafé scritta da Marine Carteron e pubblicata in Italia da Uovonero esce con una copertina dallo stile molto più accattivante e aderente allo spirito del romanzo che conferma dal canto suo  la capacità dell’autrice di  catturare il lettore e renderlo profondamente partecipe delle avventure dei protagonisti.

Questi – il giovane Gus e sua sorella Césarine in particolare – proseguono la pericolosissima missione iniziata nel primo episodio (Mio fratello è un custode) che li vede intenti a contrastare l’azione della Lega degli Autodafé per preservare la conoscenza e il sapere contenuto nei libri. A complicare il loro compito concorrono non solo i gravi lutti famigliari subiti nelle pagine precedenti ma anche la situazione di coma in cui versa la mamma, il braccialetto elettronico che Gus è obbligato a portare e che ne limita la libertà di azione e la spietatezza degli avversari, guidati dalla famiglia Montagues. È proprio presso la dimora di quest’ultima che i ragazzi scoprono, con l’aiuto del piccolo Bart ribellatosi al piano diabolico dei suoi congiunti, uno scanner speciale che fa tutt’altro che copiare le pagine dei libri. A quel punto diventa fondamentale per loro carpirne i segreti e impedirne l’utilizzo, prima che la Lega possa impiegarlo per portare a termine il suo folle disegno distruttivo. Al contempo però c’è una fuga da imbastire, una mamma da liberare, delle arti marziali da imparare e un tesoro da mettere in salvo. Facile immaginare come in una tale situazione l’impulsività ribelle e coraggiosa di un adolescente come Gus possa costituire un’arma a doppio taglio che per un soffio può passare dal rivelarsi risolutiva al causare grossi guai. E se è vero che l’impegno appassionato e talvolta dissennato di Bart, Gus e Néné, unito alla lucida metodicità di Césarine e all’esperienza di Marc de Virgy, permette un temporaneo ripiegamento della Confraternita ai Caraibi, è altrettanto vero che si tratta di un passaggio intermedio e che per arrivare a una vera conclusione della lotta con gli Autodafé occorrerà attendere il volume Siamo tutti dei propagatori.

In attesa di questo terzo e ultimo episodio della saga, Mia sorella è una guerriera artistica prosegue il dipanamento dell’intricata matassa narrativa che vede da secoli invischiati la Lega e la Confraternita e aiuta a mettere a fuoco relazioni e caratteri, arrotondando e restituendo maggiore pienezza psicologia ai protagonisti. Ne emergono dettagli inattesi sul passato di personaggi solo apparentemente marginali come la nonna materna di Gus e Césarine, battaglie emotive in cui è facile per un adolescente rispecchiarsi, come quelle che travolgono il giovane Gus e percorsi di crescita e consapevolezza, anche dei propri sentimenti, come quelli che riguardano Césarine. Sempre dipinta in quel suo modo particolare di guardare il mondo, di essere estremamente pragmatica e logica ma al contempo di provare emozioni a cui forse è soprattutto difficile dare un nome, la piccola di casa non smette di far sorridere il lettore e di offrirgli spunti interessanti di riflessione, quando dà irresistibilmente voce al racconto della storia.

Un fantasma nella mia stanza

I fantasmi sono mascalzoni e scaltri: si nascondono nei luoghi più diversi – un armadio, un tappeto, una tenda o un baule dei giochi – e si spostano alla velocità della luce per non farsi acchiappare. C’è un solo modo per sistemarli per le feste e togliersi il pensiero di averli tra i piedi di notte:  affidarsi a un papà amorevole e paziente che controlli uno per uno tutti i possibili nascondigli. Solo allora sarà possibile addormentarsi sereni, proprio come accade a Giacomo che, pur essendo un pennuto, conosce bene i timori e i turbamenti notturni più comuni ai cuccioli di uomo.

Questa familiarità rispetto al mondo emotivo del potenziale lettore, unita alla semplicità della storia, all’iterazione  della struttura, alla linearità del testo e all’essenzialità delle immagini fa di Un fantasma nella mia stanza un albo che si presta molto bene alla simbolizzazione: procedura che, grazie all’impiego di simboli WLS, consente di agevolare la lettura condivisa anche con bambini con disturbi della comunicazione. Curato dal Centro Sovrazonale di Comunicazione Aumentativa e Alternativa di Milano, secondo il modello in-book, questo passaggio consente di offrire del bell’albo di Guido Van Genechten una versione accessibile ma molto simile all’originale.

Funzionale soprattutto a una lettura con il modeling (indicazione puntuale dei simboli con il dito man mano che vengono letti dall’adulto), questa versione mantiene il fascino di un’illustrazione delicata e rassicurante, in cui ci si può divertire a vedere come si muovono e cosa combinano i giocattoli del protagonisti, e la predisposizione per una lettura ad alta voce, garantita da un andamento piacevolmente ripetitivo e dal ricorso alle onomatopee.

Vacanze in balcone

Metti che tuo padre la spari grossa con gli amici del Circolo delle Freccette e dica a tutti che quest’anno andrete in vacanza alle Maldive. Metti anche che per salvare l’onore gli sia impossibile ritrattare quanto detto e chiudere lì la faccenda, anche quando perde il lavoro in tipografia. Che si fa? Occorre mettere a punto un piano! Ecco quindi che scatta l’operazione Estate in balcone per la famiglia di Tex, giovane narratore di quest’avventura surreale. Il piano è semplice ma ingegnoso: fingere di partire per le Maldive e chiudersi invece in casa, cercando di rendere la frottola il più possibile credibile.

Scandite da una studiata tabella di turni per rosolarsi in maniera credibile sul balconcino, le giornate estive della famiglia Capossi trascorrono tra esperimenti scientifici (è possibile cuocere un uovo solo col calore del sole?), partite appassionate a giochi di società e manicaretti con quel che passa il convento. Sarà per tutti – compreso il nonno Alarico che da anni se ne sta zitto e fermo sulla sua poltrona – l’occasione per riscoprirsi come individui e come gruppo, cogliendo il senso più coinvolgente e spesso dimenticato di quell’avventura chiamata vita in famiglia.

Il libro scritto da Fulvia Degl’Innocenti con un umorismo godibilissimo e illustrato da Noemi Vola con una freschezza espressiva che perfettamente si accompagna al testo, fa parte della collana Zoom di Biancoenero, pensata per un pubblico di lettori, con o senza dislessia, alle prime ma non primissime armi. Come gli altri volumi in catalogo, Vacanze in balcone vanta quindi tutti i tratti caratteristici dell’alta leggibilità (font specifico, spaziatura maggiore, testo non giustificato, distribuzione del testo che segue l’andamento della frase, carta color crema…), che trova ulteriore valore e significato nella scelta di una storia pensosamente leggera e di una narrazione che sa come far sorridere il lettore.

Pinocchio – audiolibro Locomoctavia

Gli audiolibri sono prodotti straordinari e al contempo rischiosi: essi aprono le porte della lettura a chi non può fare affidamento sugli occhi ma non possono contare sul supporto prezioso delle illustrazioni e di pagine in cui la lettura fisicamente avanza. Con loro quindi la lettura può galoppare ma anche bruscamente frenare: questione di abitudine, di gusti ma soprattutto di qualità. Quando un libro diventa “solo” una voce da ascoltare è infatti forte il rischio che al prodotto venga dedicata un’attenzione superficiale e il risultato finale arranchi. Ma se quella voce è invece ben scelta, calibrata, esperta, capace di assecondare le giuste pause e far vibrare molteplici personaggi, ecco allora l’audiolibro galoppa eccome e alla mancanza di immagini e pagine non si bada proprio. È quel che accade, per esempio, quando si ascoltano il Pinocchio o l’Alice nel paese delle meraviglie proposti da Locomoctavia: prodotti che fanno della cura artigianale, nel senso più proprio e nobile del termine, la loro cifra restituendo una vitalità rinnovata a dei classici imperdibili.

Che siano lavori di cesello lo si nota presto e a lungo: dall’adattamento accurato dei due testi originali e dal racconto pacato ma vibrante, entrambi a cura di Daniele Fior; dalle immagini che impreziosiscono la custodia, firmate da Manuele Fior; e dall’accompagnamento musicale puntuale e incisivo di Francesco Catalucci in un caso e dei Gueppecartò nell’altro.

Alice nel paese delle meraviglie, in un doppio CD audio, ci invita così a seguirla nella tana del Bianconiglio, incantandoci dalla copertina con quella sua aria sognante e incalzandoci a filo dei suoi 32 capitoli con motivi che spaziano tra generi diversi e che assecondano, così, il pullulante e onirico creato da Carroll.

Pinocchio, in un singolo CD mp3, invece, opta per un racconto più posato in cui la chitarra marca il ritmo proprio là dove serve in una combinazione armonica con il testo (approvato peraltro dalla Fondazione Nazionale Carlo Collodi) che rende l’ascolto un autentico piacere.

Il risultato sono due audiolibri che potrebbero andar persi nella vastità della produzione editoriale e che invece meritano grande riguardo per il rispetto con cui si approcciano a dei capolavori della letteratura e per la vitalità talentuosa con cui li reinterpretano e rendono fruibili.

 

Alice nel paese delle meraviglie e Pinocchio, così come gli altri pregiati audiolibri proposti da Locomoctavia, sono anche fruibili tramite un’apposita app (Locomoctavia audiolibri) messa a punto dalla stessa casa editrice e scaricabile gratuitamente da App store.

Si tratta di una proposta estremamente interessante in termini di accessibilità. L’app sfrutta infatti un particolare sistema di scroll che evidenzia cromaticamente le diverse frasi del testo nel momento esatto in cui vengono pronunciate. La corrispondenza tra testo e audio risulta molto fluida e puntuale e l’app fa avanzare automaticamente l’audio se il lettore fa scorrere velocemente in avanti il testo. L’esperienza di lettura e ascolto risulta, così, piacevole e tutt’altro che macchinosa.

Il lettore può in questo modo godere della cura e della bellezza delle registrazioni proposte e al contempo seguire più agevolmente il testo su schermo. Egli può disporre cioè di un ampio ventaglio di strumenti e possibilità di lettura, perfettamente integrate tra loro, tra cui destreggiarsi sulla base delle sue esigenze specifiche: un’opportunità preziosa per sostenere soprattutto quei bambini e quei ragazzi che, a causa di disturbi come la dislessia, si tengono alla larga dai libri non per disamore delle storie ma per l’enorme fatica che la lettura tradizionale di queste ultime può implicare ai loro occhi.

 

Faccia di papà

Quello dell’editoria tattile è un ambito in cui i concorsi giocano un ruolo fondamentale affinché un’idea possa prendere la forma definitiva di un libro. Faccia di papà, arrivato alla stampa proprio a seguito della partecipazione al concorso di editoria tattile Tocca a te, ne è la positiva dimostrazione. Vincitore per il miglior testo dell’edizione 2011 del concorso, il prototipo di Cinzia Panarco ha abbandonato la veste di copia unica per rendersi disponibile a molteplici mani grazie all’impegno della casa editrici Puntidivista che lo ha trasformato in un libro tattile a tutti gli effetti.

Caratterizzato da una struttura piacevolmente iterata – tanto nel testo quanto nelle illustrazioni – Faccia di papà racconta dal punto di vista di ua bambino come cambia il volto del babbo con lo scorrere della settimana: un reportage emotivo-sensoriale che associa la crescita della barba alle emozioni di un piccolo e intimo gioco degli affetti.

Ogni doppia pagina presenta un breve testo in nero e in Braille (quest’ultimo su di un cartoncino attaccato alla pagina) a sinistra, un’illustrazione visuale (dai tratti piuttosto artigianali e non troppo entusiasmanti) che riempie lo spazio lasciato ibero dal testo e un’illustrazione tattile sulla destra. Quest’ultima, sempre dedicata al viso del papà, si contraddistingue per delle forme costanti, pulite, ben riconoscibili, per una scelta dei materiali molto pertinente (le carte vetrate a diversa grana, i fili di cotone e la gomma crepla rendono molto bene i diversi stadi della barba) e per un’esplorabilità agevolata e piacevole soprattutto ma non solo per i giovani lettori con disabilità visiva.

Cucù, sono qua!

Xavier Deneux è un autore francese molto prolifico e il cui stile, contraddistinto da tinte brillanti, forme pulite e linee amichevoli, è particolarmente apprezzato e apprezzabile da un pubblico di giovanissimi lettori. Il Castello (con i diversi marchi che comprende) ha pubblicato numerosi suoi lavori tra i quali spicca anche Cucù, sono qua!, un albo tutto dedicato al nascondino: gioco nel quale la complicità tra genitori e figli svolge un ruolo fondamentale per la costruzione di un divertimento condiviso.

Protagonista del libro è il coniglietto Marco che, nascosto dietro le tende, sotto il tavolo o tra la biancheria, viene cercato da una mamma e un papà molto affettuosi e astuti ed esce ogni volta allo scoperto al grido di “Cucù, sono qua”. Il gioco si ripete fino a sera, secondo quel principio di replica tanto caro all’infanzia. Sarà a quel punto il pupazzo Lillo a scomparire per un momento ma niente paura, forse si è solo nascosto e infatti… cucù, è qua anche lui, per una chiusura narrativa e una buonanotte davvero liete!

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Cucù, sono qua! è in catalogo dal 2012 per Tourbillon che ora lo propone anche in una versione simbolizzata che rispetta fedelmente l’impostazione grafica e il rapporto testo-immagini dell’originale. Grazie alla collaborazione con il Centro Sovrazonale di Comunicazione Aumentativa di Milano, l’editore ha infatti adattato il piacevole albo ricorrendo ai simboli WLS e rendendolo così accessibile anche a bambini con autismo e disturbi della comunicazione o a bambini che per altre ragioni (perché stranieri, per esempio) familiarizzino più facilmente con una narrazione visiva più o oltre che verbale.L’importante e meritevole iniziativa, che prevede al momento anche la simbolizzazione di altri tre titoli – Bravo, Gnam! e Un fantasma nella mia stanza – segna una significativa sensibilizzazione dell’editoria rispetto al tema dell’accessibilità della lettura.IMG_20170821_155439

 

Il grande cane rosso

Torna in campo Beniamino, protagonista ironico e sognante de La settima onda, felice creatura di Vincent Cuvellier. In questa nuova avventura ad alta leggibilità, pubblicata da Biancoenero e intitolata Il grande cane rosso, il bambino condivide con il lettore una serie di ricordi della sua infanzia – il papà che lo fa volare fino in cielo, il buon odore della mamma, la sorella dai poteri di fata , il signore vestito di rosso che si calava dal camino e il topino che scambiava i denti caduti con dei soldini: ricordi che a un certo punto hanno subito un brusco cambiamento, costringendo il bambino a un quotidiano noiosamente normale. Sarà un tema particolarmente stimolante assegnato dal maestro e intitolato “Immaginate di avere un potere magico” a restituire al protagonista il gusto per il fantasticare.

Spiazzante e poetico, Il grande cane rosso celebra il valore della scrittura e dell’immaginazione come fondamentali animatori della vita di ogni giorno. Difficile trattenersi dallo scovare tracce autobiografiche tra queste righe, data la profonda sensibilità e lo straordinario potere inventivo dell’autore francese. Asciutto e lineare, il suo testo si presta naturalmente a una pubblicazione che rispetti le esigenze di lettori con disturbi specifici dell’apprendimento. Le illustrazioni, a colori (recente novità per le pubblicazioni dell’editore romano) e forti di un gioco molto efficace di inquadrature insolite, amplificano perfettamente, dal canto loro, il tono surreale della narrazione. Chiara Lanzieri pare cogliere cioè con garbo e precisione il gusto dell’autore francese per un equilibrio tra sogno e realtà in cui convince amabilmente il lettore a seguirlo.

Matilde

Nel 2016 il mondo della letteratura per ‘infanzia ha festeggiato il centenario di quello che è probabilmente il più straordinario scrittore per ragazzi mai esistito: Roald Dahl. Le sue storie divertenti e originali, insieme ciniche e tenere, mai piegate alla norma moralista, hanno incantato, travolto, allietato e in molti casi convertito alla lettura generazioni di bambini. Salani, che da sempre è in Italia l’editore di Roald Dahl, ha celebrato questa importante ricorrenza donando nuova veste a tutti i suoi racconti e i suoi romanzi con un’edizione speciale. Non solo, alcuni di questi hanno trovato anche una voce ulteriore, capace di arrivare anche a lettori che, per difficoltà di lettura o disturbi visivi, erano rimasti finora esclusi dell’enorme piacere che l’immersione nel mondo fantastico dell’autore assicura. Dopo Gli sporcelli e La fabbrica di Cioccolato, già editi in forma di audiolibro negli anni passati, si sono ora aggiunti alla collezione in formato mp3 anche Il GGG e Matilde.

Il primo, riportato all’attenzione del grande pubblico anche dalla trasposizione cinematografica firmata da Spielberg, racconta dell’amicizia straordinaria tra un gigante gentile e la bambina Sofia, e della loro missione per fermare i gozzovigli degli altri giganti, golosi di umani. Il secondo, invece, vede protagonista una bambina di nome Matilde, lettrice accanita, che fa dell’intelligenza e della cultura le magiche armi per combattere la malvagità di alcuni adulti. Ricchissimi da personaggi indimenticabili e dai nomi esilaranti, gli audiolibri de Il GGG e Matilde garantiscono tra le 4 e le 5 ore di ascolto, condotte dalla piacevole voce di Bruno Alessandro.

Mary Poppins

Le bambinaie forse non esistono più ma la più famosa di loro, Mary Poppins, continua a comparire, di tanto in tanto, nell’immaginario collettivo. E quando lo fa è sempre una gioia! La sua borsa magica, le sue peripezie in compagnia di Bert, i suoi metodi educativi fuori dagli schemi e le sue giornate avventurose insieme a Giovanna e Michele Banks sfidano il tempo (sono passato ormai più di ottant’anni dalla prima edizione del libro di Pamela Lyndon Travers) e mantengono una certa rara vitalità.

Per questo la pubblicazione da parte di Emons di un audiolibro dedicato alla storia della nanny più bizzarra e longeva della letteratura rallegra e fa sorridere. Questa edizione è infatti un interessante invito ad avvicinarsi a una storia nota a molti perlopiù in virtù della sua trasposizione cinematografica firmata Disney. L’interpretazione di Paola Cortellesi è in questo senso estremamente funzionale e capace di restituire al meglio lo spirito energico e travolgente di Mary Poppins. Il racconto per voce dell’attrice è quindi motivo in più per scoprire questa versione nuova e inclusiva di un grande classico, ora accessibile anche in caso di dislessia e disturbi visivi.

Ritorno

C’è stata una prima avventura in cui una bambina coraggiosa scopriva il potere dell’immaginazione grazie a un pastello magico che rendeva reali gli oggetti disegnati. Quell’avventura si intitolava Viaggio. Ce n’è stata poi una seconda in cui la bambina scopriva che fantasticare è più bello se fatto in due e compiva un’impresa eroica insieme a un amico di pastello. Quell’avventura si intitolava Scoperta. C’è ora una terza ed ultima avventura in cui la bambina dà un nuovo significato a tutto quanto finora vissuto, grazie a un’azione travolgente in compagnia del papà. Quest’avventura si intitola Ritorno.

Il ritorno cui fa accenno è quello a casa, a una complicità paterna prima sopita, a un’immaginazione condivisa da generazioni diverse che permette di superare ostacoli insidiosi. Nell’inatteso compagno di viaggio della bambina, disposto a seguire la figlia attraverso porticine disegnate, riconosciamo tanti genitori perlopiù dimentichi dell’età infantile ma dalle potenzialità creative ancora grandissime: figure che prese per mano da chi ha maggior dimestichezza con la fantasia sanno tirar fuori un coraggio e un’inventiva inaspettati. Così, a cavallo di creature alate, a bordo di sottomarini sofisticati e in bocca a grotte preistoriche, padre e figlia sconfiggono l’imprigionatore dei colori, liberano il regno della fantasia e ritrovano il legame smarrito. A quel punto le porte disegnate non servono più. Si è già a casa.

Supersorda

Supersorda è un racconto a fumetti, dallo stile buffo e dal tono estremamente ironico, in cui l’autrice statunitense si rifà alla sua personale esperienza di bambina divenuta improvvisamente sorda a causa di una malattia e al percorso di integrazione cui questo episodio l’ha portata. Lo fa costruendo un mondo in cui la protagonista – che non a caso si chiama proprio Cece – e chi la circonda assumono le sembianze di simpatici conigli, collocati in un mondo perfettamente umanizzato.

Lungo le oltre 240 pagine di questo romanzo a fumetti, colorate e divertenti, si legge di una bambina come tante che si ritrova a dover fare i conti con una forma di diversità invisibile e insieme ingombrante. L’enorme orecchio fonico che Cece è costretta a portare con sé con non poco imbarazzo diventerà nelle sue fantasie di bambina il simbolo di un superpotere che sì la distingue, ma in positivo. Grazie all’apparecchio, Cece riesce infatti a sentire cose che gli altri non sentono (come la maestra quando è in pausa o persino alla toilette) e a conquistare così l’ammirazione dei compagni. Ma quello verso l’accettazione di sé, base imprescindibile anche per l’accettazione degli altri, è per la bambina un vero percorso a ostacoli, in cui le difficoltà non sono celate. Sono difficoltà piccole e grandi, dettate dal sentirsi inadeguate, dall’avvertire costantemente il curioso sguardo altrui sopra di sé, dal non riuscire, banalmente, a vivere a pieno un pigiama party in cui ci si scambi confidenze a luce spenta.

Grazie a una narrazione che parte da un vissuto e che fa leva su un’autoironia straordinaria, Supersorda riesce a far conoscere al lettore un personaggio fuori dal comune ma vicinissimo nei sentimenti, ad appassionarlo e a farlo ridere con una storia in cui la positività è la chiave del successo e a rendere la sordità una differenza più facile da comprendere e forse approcciare.

L’alfabeto di Zoe

Zoe non vede mai il lato ovvio delle cose. È proprio così che si presenta la protagonista del romanzo di Fabio Stassi, mettendo in evidenza quel suo modo tutto particolare di guardare le cose: un modo tanto insolito quanto prezioso, a dirla tutta, se è vero che proprio grazie ad esso la ragazzina riesce a rovesciare il piano del Re degli Specchi, a liberare i suoi concittadini da uno spietato furto di ricordi e a sovvertire il processo di sostituzione dei genitori con dei robot. Lo farà quasi totalmente da sola, sfidando con coraggio i suoi limiti, soprattutto legati ai numeri e alle lettere.

L’alfabeto di Zoe è quello che scandisce i singoli capitoli, individuando per ciascuno una parola chiave ma anche quello che la bambina vorrebbe inventare: un alfabeto “con il quale non si possa barare. Che ti faccia toccare quello che si scrive”. Perché in fondo, la vera protagonista e il vero motore di questa storia è proprio la difficoltà che Zoe sperimenta di fronte alle parole, il senso di malessere che queste le innescano e le strategia di fuga che il suo cervello mette in atto. E se la trama del romanzo è forse un po’ debole, questo riesce però ad offrire un ritratto lucidissimo e illuminante di ciò che accade nella testa, e di riflesso nell’intero corpo, di un ragazzo colpito da gravi disturbi specifici dell’apprendimento.

L’attenzione che l’autore vi dedica permette infatti al lettore di sentirsi come fisicamente calato nel cervello della protagonista, cogliendone i forti turbamenti ma anche le enormi potenzialità. E qui egli uscirà in qualche modo arricchito, oltre che convinto che se le tabelline fossero alla maniera di Zoe, per cui “otto per otto fa due bassotti, più quattro divani letto e una rotella di liquirizia”, il mondo sarebbe forse meno preciso ma senz’altro più leggero.

Le parole che non riesco a dire

Agli adulti, lettori di Se ti abbraccio non avere paura, Andrea Antonello è noto. Protagonista del romanzo scritto da Fulvio Ervas in cui si narra del suo viaggio in motocicletta in compagnia del padre, Andrea è invece sconosciuto ai lettori più piccoli. E quindi si presenta. Le parole che non riesco a dire è infatti un albo in cui il ragazzo, ormai ventiquattrenne, racconta gli aspetti essenziali della sua vita: sé stesso, le sue emozioni e il suo rapporto con gli altri. Lo fa alla sua maniera, con pochissime parole messe insieme in una forma talvolta bizzarra ma capacissima di rendere la complessità di sentimenti e pensieri che vi sta dietro.

Il volume presenta per ogni micro-argomento un paragrafo scritto dall’autore e un commento ad esso ispirato che offre consigli pratici su come rapportarsi positivamente con una persona affetta da sindrome autistica. Il risultato è da un lato un’immersione nella testa di Andrea, che aiuta a spazzare via una serie di pregiudizi sulla vuotezza emotiva e psichica dei ragazzi con autismo, e dall’altro un piccolo compendio divulgativo, a misura di bambino, su come costruire ponti che ci uniscano a chi “pensa strano”, appare “speciale, difficile” ma anche “divertente”. E se è vero che un libro come questo nasce forse a tavolino, in virtù e del successo editoriale riscosso dal volume che ha visto Andrea protagonista, non si può negare che abbia un significato, un’ originalità e una spendibilità che vale la pena esplorare e condividere con i piccoli lettori, spesso incuriositi ma anche intimoriti da compagni con cui non sappiano bene come rapportarsi.

Mallko e papà

Attendevamo la pubblicazione in italiano di Mallko e papà con grandissima trepidazione. Vincitore del Bologna Ragazzi Award for disabilities 2016, il libro di Gusti prometteva una possibilità straordinaria di incontro sorprendente con la disabilità. E la promessa è stata mantenuta: il libro, in cui l’autore argentino racconta la sua esperienza di papà di Mallko, bimbo con la sindrome di Down, è sconvolgente, nel senso più stretto del termine, perché crea scompiglio e smuove profondamente i sentimenti. Lo fa con la potenza di un racconto che non si prefigge quello scopo ma che nasce dal desiderio di esprimere e condividere un vissuto. Così, le dense pagine volume sembrano aprire le porte di una casa, accogliere dentro una quotidianità palpitante, mettere a parte di una storia fatta di gesti minimi e indispensabili. Costruito per frammenti, ricordi, riflessioni e appunti Mallko e papà è insolito e originale fin dalla forma: come un puzzle multiforme, il libro mette insieme schizzi, scritti, foto, vignette che offrono un ritratto insieme immediato e ponderato di una paternità diversa da quella che l’autore si era immaginato. Apparentemente scomposti, i pezzi che Gusti assembla delineano in realtà un filo narrativo ben preciso che porta dalla nascita di Mallko, con tutto il carico di domande e tormenti che questa reca con sé, alla sua serena e completa accettazione come un regalo speciale. “Accettare – conclude infatti l’autore – è ricevere volontariamente e con piacere quello che la vita ci offre”.

Lo attendevamo come un dono, Mallko e papà, e come un dono lo abbiamo pesato, sfogliato, letto, riletto e fatto sedimentare. Ci siamo lasciati tirare dentro fino al collo, commossi o sinceramente divertiti. Ma ci siamo anche soffermati sulla soglia di certe pagine, tanto intimo e personale era il loro contenuto. Ne siamo infine usciti colmi di pensieri e di gioia. Per questo sarebbe bello che la storia di Mallko e del suo papà potesse entrare in tante librerie e che potesse raggiungere tante mani, tanti occhi e tante orecchie: difficile dire in che modo, a quale età, con quali tempi, quel che è certo è che difficilmente un lettore ne resterebbe indifferente.

Il pezzettino in più

È un fatto che negli ultimi anni i siblings, ossia i fratelli di persone con disabilità, siano riusciti a ricavarsi piccoli spazi di rappresentazione anche nella letteratura per ragazzi. Lo dimostrano ad esempio lavori significativi come Mio fratello Simple, Niente giochi nell’acquario o, pensando ai più piccoli, Mia sorella è un quadrifoglio. Sono spazi importanti perché danno voce a una complessità emotiva che agita tanti bambini e ragazzi e che sa restituire una visione della disabilità da una prospettiva privilegiata. Con il libro di Cristina Sànchez-Andrade questo collage di esperienze narrative si arricchisce – è il caso di dirlo – di un pezzettino in più.

Protagonista della storia è Manuelita, il cui pezzettino in più cui allude il titolo è il 47° cromosoma che ne determina la sindrome di Down.  Manuelita ha una sorella, Lucia, che è più piccola ma sembra e viene da tutti trattata come la più grande e che vive il rapporto fraterno con tutte le contraddizioni del caso. È lei a chiedere alla mamma – ancora e ancora – di raccontarle di quella volta in cui Manuelita è scappata di casa e in cui lei l’ha salvata dai “bambini-corvo”. Così, mentre la torta al cioccolato e alle noci prende forma, la mamma ripercorre la storia delle due sorelle, mettendone a parte il lettore. È una storia fatta di episodi piccoli piccoli e di momenti salienti: come quando Lucia viene portata a casa la prima volta o quando Manuelita mette la sua bambola nel forno, come quando Manuelita viene derisa dai bambini al parco o quando le due sorelle condividono lo speciale momento prima di dormire fatto di peti, tette e risate soffocate. Ben visibili, in questo susseguirsi di episodi felici e infelici, sono i sentimenti contrastanti che animano la famiglia. Tra le marachelle delle due bambine, trovano posto, infatti, la forza e le debolezze dei genitori, avvolti talvolta di nuvole di pensieri ma capaci di dare risposte importanti e di sdrammatizzare (“No, quel pezzettino non si può togliere. – dice un giorno il papà a Lucia – E’ per quello che Manuelita ha un altro modo di imparare e vedere il mondo. Ma ti dirò cosa farò. Darò un bacio a Manuelita e nessuno si azzarderà a prendersela con una bambina che è stata baciata da un papà calvo come me”), la stramberia del nonno che beve caffè ogni venti minuti e stringe un rapporto speciale con quella nipotina tanto strana quanto lui; le prese in giro dei bambini che sanno essere malvagi; le difficoltà di Manuelita ad apprendere le cose e la sua passione per cambiare d’abito; la paura di Lucia di diventare a sua volta diversa in quanto “sorella di…”. E proprio quest’ultima finisce per apparire al lettore come un autentico personaggio in crescita, capace di compiere un percorso accidentato di conoscenza e accettazione di sé, che evidentemente non può prescindere dalla conoscenza e dall’accettazione di chi le sta vicino.

Il libro di Cristina Sànchez-Andrade è profondo e colmo di interrogativi pesanti che non sempre, come è giusto, trovano risposta. In esso una visione rielaborata in chiave fantastica o metaforica della realtà – dove i bulli, per esempio, diventano bambini-corvo – si affianca a un racconto schietto di una quotidianità in cui sono innegabili le difficoltà di chi si trova con “un pezzettino in più” o di chi gli sta accanto. Questo rende particolarmente complesso individuare un pubblico di riferimento preciso: il volume dell’autrice catalana appare talvolta difficile per rivolgersi ai ragazzi, ma al contempo indispensabile se si intende scandagliare la diversità con coraggio, offrendo anche alle giovani orecchie l’occasione di confrontarsi con un suo ritratto tanto vero quanto complesso.

Brutti, sporchi e gentili

Ricco e colto, il dodicenne Alighiero De La Tour viene rapito da una banda di lestofanti che vive in una roulotte in mezzo a una discarica. Rozzi e analfabeti – eccezion fatta per Giulia, la più giovane della famiglia, coetanea del povero Alighiero – i rapitori intendono chiedere un riscatto consistente per restituire l’ostaggio. Si imbarcano così in una rocambolesca trattativa fatta di costosissimi occhiali rotti, pollici mozzati per errore e filmini girati senza videocassetta.

A margine, ma neanche troppo, prende forma una singolare ma sincera amicizia tra Alighiero e Giulia che contribuisce a rendere l’atteggiamento dell’ostaggio stranamente conciliante e sereno. Quella presso la sgangherata banda del Cane Rognoso finisce così per diventare una permanenza formativa e persin piacevole per il ragazzino che sperimenta un calore famigliare inatteso e forse sconosciuto, fatto di piccoli gesti gentili (come il servire il dessert a tutti da parte del nonno e tenere per sé solo la fetta più piccola) che pur non vanno perduti in un contesto di disagio marcato all’estremo.

La storia narrata da Guillame Guéraud (già autore di Falla finita!, anch’esso pubblicato da Biancoenero secondo criteri di alta leggibilità) ha un tono piacevolmente surreale, ben esemplificato dalla scena il cui il povero Alighiero, prigioniero da un giorno, si gode la colazione da ostaggio famoso perché è finito in prima pagina. “Le novità hanno messo tutti di buonumore e abbiamo fatto colazione in allegria. – racconta il protagonista e, pur mazziato e con gli occhiali rotti aggiunge – Io più di tutti perché era la prima volta che finivo sul giornale”. L’aplomb svagato di Alighiero, narratore in prima persona, dà peraltro un tocco buffo all’intero racconto che scorre così piuttosto leggero, fino all’inatteso e romantico colpo di scena finale. nel complesso

Le parole di Bianca sono farfalle – edizione in simboli

 

Se c’è un libro, tra quelli recentemente pubblicati e rivolti all’infanzia, che celebra il valore delle comunicazione attraverso canali insoliti e la valorizzazione delle abilità di ciascuno, quello è proprio Le parole di Bianca sono farfalle: un albo del 2013 targato Giralangolo che ha avuto un larghissimo successo di pubblico soprattutto per la delicatezza poetica con cui sa dipingere una disabilità (quella uditiva) non molto esplorata dalla letteratura per bambini e ragazzi. Ecco perché l’idea che quello stesso albo possa ora essere tradotto in simboli, grazie al felice progetto de I libri di Camillla, ci pare bellissima e ricca di senso: perché come Bianca intercetta e interpreta con le dita la musica del mondo, così i lettori che beneficiano della CAA hanno un modo a loro volta particolare e del tutto rispettabile di leggere la realtà e le storie.

Il libro di Chiara Lorenzoni e Sophie Fatus sposa insomma perfettamente lo spirito di una collana come I Libri di Camilla, che celebra il principio secondo cui esistono tanti modi di leggere ed esprimersi e che anche i bambini che utilizzano sistemi comunicativi fuori dalla norma hanno diritto di accedere a un immaginario fertile e condiviso, godendo della poesia che nasce dalle parole, dalle immagini e dal loro alchemico incontro. Con la scelta di questo albo come secondo titolo della collana (dopo l’esperienza inaugurale di Che rabbia!), Giralangolo (editore della versione originale del libro) e Uovonero (editore che cura questa versione in simboli) decidono di volare davvero alto e lanciare un bellissima sfida ai lettori che si avvalgono della Comunicazione Aumentativa e Alternativa e una proposta coraggiosa agli operatori che di essi si occupano.

La parole di Bianca sono farfalle è infatti graficamente e concettualmente articolato. Esso si avvale di espressioni metaforiche molto poetiche, propone illustrazioni tutt’altro che didascaliche e opta per una distribuzione testuale piuttosto libera. La versione addattata dal canto suo offre una rielaborazione minuziosa e competente di questi aspetti – rinunciando per esempio alle frasi disposte ad arco o prediligendo strutture sintattiche più lineari laddove quelle di partenza risultino troppo complesse –  ma non stravolge mai il senso e la qualità del volume originale. Davvero l’operazione non era banale ma il risultato è in definitiva un prodotto poetico e al contempo accessibile, non semplice certo  perché ancora forte di sinestesie ed espressioni figurate (ma chi l’ha detto che proprio un libro così non possa essere usato per aiutare a comprenderne il funzionamento?) ma insieme di grande impatto emotivo ed estremamente comunicativo.

La zuppa dell’orco

Lettori impressionabili e dal cuore debole, tenetevi alla larga: La zuppa dell’orco non è affare per voi! Perfettamente in linea con la tradizione più autentica e non edulcorata delle fiabe dei Grimm, il racconto di Vincent Cuvellier non esita a mettere in scena orchi sporchi del sangue dei bambini ingurgitati e genitori disposti a tagliare a pezzetti i figli. Il gusto un po’ cruento non manca insomma nell’avventura che vede protagonista l’astuto Josef, il più piccolo di sette fratelli, alle prese con genitori fannulloni e disposti a mutilare i figli per farli mendicare più efficacemente. Venuto casualmente a conoscenza del truce piano di mamma e papà, il bambino organizza una furbissima fuga, inganna e rabbonisce un terribile orco cieco e rimedia, infine, un destino gioioso per sé e per i suoi fratelli.

Il libro, stampata ad alta leggibilità dalla Biancoenero, racchiude illustrazioni espressive che ben si sposano con i toni cupi della storia e un racconto che unisce la sospensione tipica della fiaba e l’ironia caratteristica dell’autore francese. Non è raro infatti trovarsi a sorridere tra un pericolo e l’altro in cui incappano gli otto fratelli. Proprio grazie a questo stile strenuamente leggero, Vincent Cuvellier (già noto ai lettori della casa editrice romana per Giancretino e io, Scappiamo!, La settima onda e Mamma e papà oggi sposi) riesce a dare forma a una narrazione in cui temi forti come il disagio familiare e la disabilità, pur trattati in un contesto fiabesco, emergono con forza nuda e cruda e trovano nel finale un riscatto sorridente. Lo dice bene quel “Visto che i bambini avevano le mani, se le strinsero forte. Visto che avevano i piedi, ballarono tutta la notte. Visto che avevano gli occhi si guardarono a lungo sorridendo, fino a quando spuntò il sole su quel paese di neve e di notte”, con cui si chiude il racconto e che celebra l’importanza di trovare il bello della propria condizione. Qualunque essa sia.

 

Chi se la fila?

Un libro che è tutta una corsa: in Chi se la fila?  il tempo è infatti tiranno e tutti i personaggi galoppano come fossero in perenne ritardo. In un inseguimento senza fine – la nonna insegue forse il figlio che pare inseguire la moglie che sembra inseguire la figlia che sta dietro al cane che a sua volta insegue il nonno che quasi quasi acciuffa la nonna – ciascuno sembra voler dimostrare i propri pensieri e i propri affetti con parole che si perdono nel fiatone o con gesti che rischiano di passare in osservati. Travolto da fili di lana che tanto evocano fili emotivi, relazioni che legano gli individui come una rete affettuosa, il nipotino osserva alla finestr, tra il divertito e lo stranito, la buffa scena di inseguimento. E con lui il lettore, che trova in questa curiosa catena umana una rivisitazione insolita della Fiera dell’est branduardiana.

Contraddistinto da tinte pastello e personaggi che raccontano emozioni con espressioni e movimenti, Chi se la fila? è il primo silent book targato Uovonero. In quanto privo di parole, il libro risulta particolarmente fruibile anche in caso di DSA, sordità o disturbi della comunicazione. La piena apprezzabilità della storia in caso di deficit cognitivi può essere invece compromessa da una storia che non si dipana in maniera così esplicita e facile da seguire in assenza di testo scritto. Anche in questo caso, tuttavia, nulla vieta di godere delle delicate immagini di Roberta Angeletti, sognanti e affascinanti, al di là della loro funzione prettamente narrativa.

In equilibrio perfetto

Capita alcune fortunate volte di incappare in libri forti come uno schiaffo e quando questo accade la lettura si fa valanga che travolge e non lascia indenni. Ecco, considerate che In equilibrio perfetto è esattamente uno di quei libri. L’autrice – Zita Dazzi – vi infonde tanta di quella vita, in tutte le sue sfumature, che si trattiene quasi il fiato leggendolo e vi si riemerge tonificati. Fin dalle primissime pagine si ha l’impressione di camminare accanto ad Amanda,tra le mura di casa dove la madre è stremata da un tumore, sul bordo di un guardrail dove le auto che sfrecciano portano via i pensieri più bui o tra i banchi di scuola dove voti insufficienti e delusioni amorose aggiungono insicurezza all’insicurezza già accumulata. Si, la vita di Amanda è un vero caos. I suoi capelli blu,i suoi modi menefreghisti e i suoi vestiti appariscenti vogliono in qualche modo denunciarlo ma sembrano non bastare, perché non è facile a 16 anni trovare il modo giusto per dire la sofferenza e le persone giuste per ascoltarla. Anche nel buio di un’adolescenza periferica, però, alcuni incontri possono rivelarsi salvifici: quello con una professoressa attenta all’umanità dei suoi studenti, per esempio, o con un amico del tutto inatteso. Zita Dazzi riprende passo a passo, con la bravura che le è propria, questo spaccato di vita autentico, indugiando con uno sguardo lucido e mai giudicante, tanto sulle ombre quanto sulle luci che si intrecciano dentro e fuori Amanda. Ci sono tanti temi forti, qui, vicini ai ragazzi in crescita: l’amore, l’amicizia, il lutto, la responsabilità, il confronto con i pari e il desiderio di essere accettati. Tutti trovano posto in una storia che scivola veloce e che tocca anche chi non ha sedici anni, una madre malata o un padre assente che fa il dj in India. Insomma, In equilibrio perfetto è davvero un libro da scoprire e come se non bastasse è pubblicato da Sinnos ad alta leggibilità: una ragione in più per proporlo ai giovani  lettori, certi che non verranno scoraggiati né dall’aspetto né dal contenuto

La lega degli Autodafè – Mio fratello è un custode

È un giorno come un altro quando la vita di Auguste detto Gus, quattordicenne parigino, viene improvvisamente stravolta. Succede infatti una mattina che la polizia suoni alla porta di casa per comunicare la notizia della morte del padre in un incidente stradale. Il dolore è fortissimo e il mondo del ragazzo sembra poter crollare da un momento all’altro, ma la parte più sconvolgente della faccenda deve in realtà per lui ancora venire. Quando, dopo il funerale, si trasferisce dai nonni insieme alla mamma e alla sorella, nella casa di campagna detta “la Commanderia”, Gus scopre infatti che la versione raccontata dalla polizia è menzognera e che il padre è di fatto stato assassinato. Dietro l’omicidio c’è una misteriosa storia millenaria che vede una società segreta chiamata la Lega degli Autodafé impegnata a impedire la diffusione della conoscenza attraverso la distruzione dei libri che la contengono. Il padre di Gus faceva invece parte della cosiddetta Confraternita: un gruppo di persone intente a contrastare l’attività degli Autodafè attraverso la ricerca, la custodia e la trasmissione di libri. Ora che il padre non c’è più, tocca a Gus prendere il suo posto e battersi per preservare il destino dell’umanità. Deve trovare prima degli Autodafé la cappella del tesoro e mettere in salvo il suo contenuto ma chi fa parte della Lega non ha davvero scrupoli ed è disposto a tutto pur di ottenere ciò che cerca. Per questo, per il protagonista, si tratta di una missione ad alto rischio, che vede impegnati alcuni amici nuovi e vecchi, un professore della scuola e tutti, ma proprio tutti, i membri della sua famiglia. Tra questi spicca senza dubbio la sorella più piccola Césarine che non solo assume un ruolo  determinante nella vicenda ma si fa anche, a tratti, insolita narratrice. Il suo diario intervalla infatti il racconto di Gus, offrendo al lettore dettagli nuovi e opinioni spiazzanti su quanto accade.

Mio fratello è un custode è il primo volume di una trilogia intitolata La lega degli Autodafè e scritta dall’autrice francese Marine Carteron. La missione che il papà di Gus gli ha lasciato in eredità non si conclude infatti a pagina 302 ma promette di proseguire nei successivi episodi. E non stentiamo a credere che i lettori di questa prima avventura attendano con trepidazione la pubblicazione delle seguenti, affascinati da un mistero che ha attraversato i secoli, da un protagonista molto umano con molti pregi ma anche difetti, e da un personaggio apparentemente secondario ma in realtà travolgente come Césarine. Il libro sa amalgamare un mistero che attraversa i secoli risalendo addirittura ad Alessandro Magno e una contemporaneissima ambientazione in cui pullulano riferimenti al mondo (dagli accessori alla tecnologia, dai programmi tv alle letture) di un adolescente d’oggi. Animato da personaggi interessanti e relazioni avvincenti, il romanzo rimanda senza dilungarsi troppo a episodi storici cruciali (penso ai riferimenti al periodo fascista o alla citazione dell’’Internazionale) ed evoca narrazioni precedenti, prima fra tutte quella di Harry Potter (si pensi alla figura del giovane coraggioso pronto a sfidare la morte per compiere la missione che gli è affidata, alla figura della fenice, al rapporto con il padrino che fa le veci del padre e lo accompagna nella battaglia).

Successo editoriale d’oltralpe, il libro è stato portato in Italia da Uovonero, da sempre attenta a offrire ai giovani lettori storie capaci di raccontare la diversità (e in particolare la neurodiversità) attraverso storie appassionanti. Césarine è infatti autistica – o artistica, come ha capito Gus la prima volta che glielo hanno detto –  e il suo racconto insolito e diretto restituisce un particolare modo di vedere il mondo e di vivere le situazioni, sia quotidiane sia eccezionali. Non le piacciono i numeri fino a 22 e se le capita (spesso!) di contare li salta a piè pari, è messa a disagio dalle situazioni che non rispettano uno schema noto, ricorda dettagli con grande facilità, ama la precisione puntigliosa e interpreta alla lettera qualunque espressione mettendo in difficoltà chi non la conosce per bene. È l’”effetto Césarine”, per dirla con le parole di Gus: un effetto che disorienta e talvolta spaventa ma che fa anche sorridere e intenerire. Attiva e determinata, Césarine non è un personaggio posticcio messo lì solo per dare originalità al racconto ma un personaggio a tutto tondo che entra a capofitto nella vicenda, regalandole brividi e humour. La sua amicizia con Sara, bimba affetta da sindrome di Down, delinea un’avventura nell’avventura e mette bene in luce il lato più normale della diversità.

Il sole fra le dita

Testa calda, famiglia problematica e una certa propensione a infrangere le regole: questo è il ritratto di Dario. Almeno quello che tanti adulti dipingono concordi, guardando quel ragazzo tanto scontroso e strafottente. Una mela marcia, per dirla con due parole di cui la professoressa Delfrati fa un certo abuso. Mela marcia. Mela marcia. Mela marcia. A furia di sentirselo dire anche lo stesso Dario inizia a pensare di esserlo per davvero, e questo non aiuta certo a migliorare il suo atteggiamento. Così, all’ennesima insinuazione dell’insegnante – “Sei una mela marcia. Anche tuo padre lo sapeva. Per questo se n’è andato” -, il ragazzo sbotta e se ne va dalla classe sbattendo la porta. In questo modo si guadagna suo malgrado un periodo indeterminato di “assistenza volontaria ai portatori di handicap della scuola”, leggi: passare del tempo insieme a Andy, un ragazzo in carrozzina che fatica a parlare, mangiare, gestirsi in autonomia.

Per Dario è proprio quello che mancava per completare una vita rancorosa e insopportabile. Dopo i primi giorni di insofferenza – verso la punizione in sé in giusta e insensata, verso quel compagno forzato con cui non si può nemmeno parlare e soprattutto verso quella sua educatrice tutta moine e compassione – il ragazzo fa una bravata senza pensarci troppo: afferra la carrozzina di Andy e parte per il mare sulle tracce di quel padre che anni prima ha inspiegabilmente abbandonato lui e la madre. Quello che lo aspetta è un viaggio molto diverso da quello immaginato: un viaggio in cui fare i conti con un passato difficile da digerire, in cui scoprirsi amorevole e premuroso di fronte alla fragilità, in cui entrare senza mezze misure nel quotidiano di un coetaneo così diverso da lui  benché ugualmente solo.

L’incontro con Andy finisce quindi per aprire squarci inattesi di crescita, pensiero e scoperta per il giovane Dario, trasformando la punizione in un’autentica occasione di riscatto. Un riscatto bilaterale, a dire la verità: perché se Dario trova in Andy la chiave per guardarsi dentro e ricalibrare la sua vita, è altrettanto vero che Andy trova in Dario chi sa vedere in lui la persona prima del disabile. E se entrambi trovano nel compagno un amico inaspettato non è per buonismo o political correctness ma per effetto diretto della condivisione di attimi, avventure, divertimenti e difficoltà.

Il sole fra le dita è una lettura estiva per data di pubblicazione e atmosfere dipinte (fin dal titolo) ma meritevole di abitare scaffali, comodini, classi e divani per quattro intere stagioni all’anno. Scorrevole e ricco, il romanzo di Gabriele Clima sa parlare di ragazzi e ai ragazzi con la schiettezza e la sensibilità di chi non ha paura di frequentarli e conoscerli davvero.  Con lo stesso spirito l’autore offre inoltre una lettura rara della disabilità in cui la difficoltà non cancella necessariamente la possibilità e in cui la vita necessita di reali sfide a migliorarsi e obiettivi da raggiungere per potersi dire tale. In cosa consistano tali sfide e obiettivi in un caso come quello di Andy, spetta spesso capirlo agli assistenti e ai genitori, il cui ruolo di  educatori, per il quale competenze e qualità umane non possono che abbracciarsi, è qui reso in tutta la sua importante delicatezza.

Martino ha le ruote

Martino ed Emma sono due compagni di scuola. Lei è una coltivatrice di storie e fa uso della parola come di un dono straordinario da non sprecare. Lui è invece un “bambino zitto” – così lo definisce esattamente Emma – un bambino che si muove con le ruote, che non si esprime parlando e che talvolta manifesta delle reazioni difficili da comprendere. Tra i due non ci sono molti contatti fino a quando Emma non trova in Martino l’ascoltatore ideale dei suoi racconti: un ascoltatore paziente, attento, rispettoso. La narrazione alimenta così un’intimità fatta di piccoli e delicati gesti. Emma, e con lei il lettore, scopre infatti che non parlare non significa necessariamente non ascoltare o non comunicare e inizia a fare delle sue storie di draghi, gatti, principesse e lupi il motore di un’amicizia tutta particolare, capace anche di sciogliere le remore dei compagni e di rivelarsi straordinariamente contagiosa.

Nato in versione bilingue (italiano e inglese) dalla collaborazione tra Corsiero Editore e Reggio Children (già sperimentata, peraltro, in occasione dell’uscita de Il pinguino senza Frac), Martino ha le ruote è un racconto delicato e poetico che dà voce a una storia vera e palpitante conosciuta da vicino dall’autrice. La vicenda di Martino che ascolta in paziente e appassionato silenzio le storie che Emma ama raccontargli prende infatti le mosse dalla quotidianità dei suoi due figli e dalla stretta e toccante relazione che tra essi si instaura. E proprio un fitto e paziente gioco di legami, sguardi e modi unici di comunicare è il fulcro di questo albo illustrato che celebra il valore della diversità e soprattutto del tempo investito per riconoscerla, accoglierla, e comprenderla. Le ruote su cui Martino si muove sono il simbolo di una circolarità che abbraccia tutti e restituisce a ciascuno un posto di pari dignità: nel cerchio tutti i punti sono diversi ma, distando egualmente dal centro, acquistano infatti il medesimo valore. Ma servono parole sedimentate e immagini magistrali per rendere a fondo tutto ciò, ragion per cui il lavoro di Annalisa Rabitti e Sonia Maria Luce Possentini costituisce davvero un piccolo dono aggraziato messo nelle mani del lettore.

 

Il cavaliere saponetta

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Il cavaliere Saponetta si chiama così per la sua sfrenato attitudine alla pulizia: sempre lindo e profumato, non perde occasione per strofinarsi per bene dopo una battaglia condotta con lealtà e ardore. Ad accompagnarlo nelle imprese il fido ma ancora inesperto Elmo e a circondarlo presso la sua magione una sfilza di personaggi buffi, primo fra tutti il maestro inglese di quick step.

La vita del protagonista è insomma sufficientemente avvincente e vivace di per sé ma sarà un’improvvisa e urgente lettera del re a renderla davvero travolgente. Incaricato di sconfiggere un drago che sta terrorizzando il regno, il cavaliere Saponetta si trova ad affrontare molti pericoli, la maggior parte dei quali predisposti dal malfido conte Grigio che come lui punta alla mano di Linda, la soave figlia del re. Il finale sarà tutta una sorpresa, capace di rivelare intrighi ma anche di dare una scossa agli stereotipi che spesso si nascono nelle fiabe.

A rendere ancora più piacevole una storia già così molto gustosa, entrano in campo i disegni frequenti, colorati e irresistibili di Mattias de Leeuw che illustrano con pazienza i vari passaggi del racconto e ne sottolineano bene il tono scherzoso. Gli accorgimenti tipografici caratteristici (font leggimi, spaziatura maggiore, carta avoriata, sbandieratura a destra, a capo in linea con la punteggiatura) della collana ad alta leggibilità I narratori a colori di Sinnos, di cui Il cavaliere Saponetta fa parte, completano infine il quadro, garantendo una più agevole lettura anche in caso di dislessia.

Piccolissimo me

Con un attacco fulminante che senza mezzi termini introduce al nocciolo della questione (che disastro, esser piccolissimi di statura!) e scalda la lettura (che sia individuale o ad alta voce!), Piccolissimo me si presenta ai lettori come un romanzo delizioso e fragrante. Protagonista è un bambino il cui nome è inversamente proporzionale all’altezza: Michelangelo è infatti bassissimo e per questo viene sovente preso in giro dai compagni e preferisce alle giornate in compagnia dei pari la solitudine della campagna. Qui trascorre le vacanze estive insieme ai nonni e conosce una bizzarra signora americana che crea cappelli mirabolanti. Ma qui ha anche modo di riflettere e mettere il lettore a parte dei suoi crucci su una crescita che sembra averlo dimenticato e su due genitori altissimi che sottovalutano piè pari le sue difficoltà. Sarà un intervento del tutto inaspettato a dare speranza ai suoi pensieri, capaci così finalmente di coprirsi di colori e fantasia in luogo di nubi minacciose.

Vincitore del premio Il Battello a Vapore 2015, Piccolissimo me nasce con l’intento di dare visibilità alle difficoltà e alle risorse a disposizione dei bambini colpiti da deficit dell’ormone della crescita (da qui il senso della collaborazione con l’A.Fa.D.O.C per la sua stesura), ma l’autrice Gigliola Alvisi lo confeziona con tanta cura e capacità narrativa che ciò che resta prima di tutto impresso nella mente del lettore sono i suoi personaggi deliziosi e dall’aspetto familiare, l’eccentrica figura della signora dai magnifici cappelli e quell’atmosfera placida estiva che l’autrice restituisce nei paesaggi e nei pensieri di chi li vive e li anima. Complici della penna abile di Gigliola Alvisi, le illustrazioni freschissime di Antongionata Farrari.

Ci si sente quindi prima di tutto rilassati tra queste pagine che profumano di campagna; poi vicini ai sentimenti di inadeguatezza di Michelangelo che, al di là della questione dell’altezza, sono propri di molte infanzie; e infine colpiti da quella folgorante rivelazione di nonno Nini, secondo cui ogni bambino, discostandosi inevitabilmente dall’idea di figlio che un genitore si fa, finisce in fondo per essere la più grande delle rivoluzioni.

Harry Potter e la pietra filosofale

Primo capitolo di una saga che ha conquistato grandi e piccoli lettori in ogni angolo del mondo, Harry Potter e la pietra filosofale ha spalancato le porte alla costruzione di un immaginario comune ben radicato e fertile. Da lì in avanti, le avventure di Harry, Ron, Hermione e della miriade di personaggi corollari nati dalla mente geniale di J.K. Rowling hanno iniziato a popolare fantasie, discorsi e ricordi che diventano oggetto di condivisione e confronto tra pari. Per questo appare particolarmente importante rendere accessibile questo patrimonio anche a ragazzi con disabilità, così che la ricchezza narrativa contenuta nella penna dell’autrice non sia per loro esclusivamente ridotta alle pur apprezzatissime versioni cinematografiche.

Ecco allora che gli audiolibri Salani, che propongono una registrazione del testo, interpretato da voci solide e capaci (qui quella di Giorgio Scaramuzzino è una garanzia!), vengono incontro a questa precisa esigenza offrendo a lettori con disabilità visiva, con disturbi specifici dell’apprendimento, con necessità di leggere e al contempo fare altre cose o con predilezione per il racconto orale, la possibilità di godere delle vicende di Hogwarts al pari di un lettore tradizionale. Già uscito nel 2008 in formato audio (inciso perciò su un numero consistente di Cd, addirittura 8!), la prima avventura di Harry Potter viene ora riproposta in formato MP3 che ne snellisce e rende più fruibile l’ascolto.

Melody

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Trascorrere i primi 11 anni della propria vita senza poter esprimere una sola parola: questa è la dura, durissima, esperienza di Melody, costretta in sedia a rotelle e al silenzio perenne da una tetraplegia spastica. Ma a dispetto delle apparenze, il suo cervello funziona alla grande e le parole animano prepotentemente la sua vita interiore. Non tutti sono in grado di accorgersene, tuttavia – specialisti e insegnanti in primis – ed è solo grazie alla tenacia, alla pazienza e alla fiducia dimostrate dai genitori e da un’affettuosissima vicina di casa che Melody può tenersi al passo con l’apprendimento dei coetanei e maturare come qualunque preadolescente, sviluppando gusti estetici, letterari, musicali quant’altro. Ed è l’arrivo di un facilitatore della comunicazione che rivoluziona davvero la sua vita consentendole da un certo punto del racconto in poi di relazionarsi con chi le sta intorno, di partecipare attivamente alle lezioni scolastiche e di dimostrare di poter far parte della squadra che parteciperà a The Annual Whiz Kids Quiz Competition. Piccole grandi conquiste – come poter esprimere sentimenti, tessere amicizie e dimostrare le proprie capacità – segnano da quel momento la vita di Melody, senza risparmiarle tuttavia le conseguenze di un’ignoranza e di pregiudizi ben radicati che molto, troppo spesso circondano l’handicap.

Dentro Melody si percepisce tutta la sensibilità e l’esperienza personale di Sharon Draper, autrice, insegnante e mamma. La scrittrice americana riesce infatti a far risuonare nell’espressione computerizzata della protagonista la voce di tanti bambini e ragazzi reali che cercano ogni giorno un modo di riscattarsi ed esprimersi. Melody racconta con una lucidità e un’emozione rare la difficoltà di relazionarsi con il mondo quando la parola viene a mancare, la gioia di dare finalmente voce a un ricchissimo pensiero e la frustrazione di vedere la propria disabilità non circoscritta ad alcuni aspetti – nel caso della protagonista il movimento e la parola – ma automaticamente estesa all’intero funzionamento umano. La forza di questo romanzo, toccante, coinvolgente e ben scritto, sta proprio nel mettere il lettore a confronto con interrogativi, emozioni e preconcetti magari sommersi che capito spesso, anche involontariamente di mettere in atto, invitando a coglierne l’irrazionalità e l’insensatezza. Dando voce a un’interiorità autentica in presa diretta, inoltre, Melody sa coinvolgere il lettore al di là del tema della disabilità, perché dà modo di vedere la persona sotto e prima del suo handicap, perché tocca corde profondamente umane e perché fa vivere sentimenti ed esperienze che riguardano chiunque di noi. E questo, forse, fa del lavoro di Sharon Draper un piccolo gioiello che ha il sapore persistente della letteratura con la L maiuscola.

Il libro di Christopher

I lettori che hanno amato Wonder non faticheranno a ricordare il personaggio di Christopher: l’amico d’infanzia di Auggie che cresce fianco e fianco a lui fino a quando un trasferimento non prova ad allentare le maglie della loro amicizia. In questo nuovo volume scritto da R.J. Palacio Christopher diventa voce e protagonista del racconto. Messo a dura prova dalla separazione dei genitori, il ragazzo affronta al contempo il primo anno di scuola media, con i suoi alti e bassi, i suoi fallimenti e i suoi successi. Il testo riporta episodi già narrati nel romanzo capostipite della serie, qui ripresi da un’altra prospettiva, ma presenta anche e soprattutto una nuova esperienza di vita (quella di Christopher, appunto) in cui Auggie non manca di comparire con una certa regolarità e con un ruolo infine decisivo.

Il libro è insomma abbastanza autonomo quanto alla trama rispetto a Wonder, anche se senza quest’ultimo perde senz’altro di senso e compiutezza. Il libro di Christopher, così come quello già uscito di Julian e quello in uscita di Charlotte, nasce infatti per rendere conto di un punto di vista diverso rispetto a una medesima situazione di diversità, incarnata da Auggie. Il punto di vista di Christopher, in particolare, è quello dell’amico di sempre che cresce accanto a Auggie, imparando con naturalezza a convivere con la sua difformità e scontrandosi, una volta cresciuto, con l’incapacità altrui di guardare oltre le apparenza. Oltre a essere un libro che sottolinea il valore della vera amicizia, anche a distanza, Il libro di Christopher offre quindi ottimi spunti per riflettere con i ragazzi sull’importanza di un’educazione consapevole allo sguardo.

Pinocchio (ed. Erickson)

Nasce dai tipi di Erickson una collana che si propone di rendere più ampio l’accesso ad alcuni testi fondamentali della nostra tradizione per l’infanzia. Capofila, in questo senso, è il volume dedicato al capolavoro collodiano Pinocchio. Il lavoro fatto dai curatori al fine di rendere il testo più fruibile e largamente condivisibile, anche da parte di chi sperimenta difficoltà di lettura, di attenzione e di decodifica sintattica, si basa su un’attenta semplificazione, non tanto della trama, che mantiene qui invariati i suoi episodi chiave – dal teatro dei burattini alla prigione, dall’avventura in mare al Paese dei Balocchi – quanto del testo che risulta contraddistinto da espressioni più comuni, frasi meno articolate, forme verbali attive e soggetti esplicitati.

La semplificazione testuale non è tuttavia l’unica accortezza messa in campo per aumentare il grado di accessibilità del racconto di Collodi. Questa operazione passa anche infatti attraverso l’evidenziazione e la spiegazione degli elementi lessicali meno noti, la sintesi dei capitoli, la registrazione audio del testo (che l’editore sceglie di non incidere su cd ma di rendere scaricabile tramite QR code o passaggio sul sito) e l’aggiunta di illustrazioni poco elaborate ma eloquenti. Frequenti, ben integrate con il testo e indispensabili per identificare i protagonisti e tenere il filo della narrazione, queste mettono bene a fuoco i momenti salienti della storia.

Sia Il piccolo principe sia Pinocchio sono curati da Carlo Scataglini, insegnante e autore di numerosi testi tra cui figura anche Adattamento dei libri di testo. Semplificazione progressiva delle difficoltà, edito dalla stessa Erickson. Il volume (138 pagine, 24,90 €) mette in luce i principali ostacoli di comprensione testuale in cui si imbattano alcuni allievi, soprattutto (ma non soltanto) in caso di disabilitadattamento dei libri di testoà cognitive e difficoltà di concentrazione. A partire da queste considerazione, gli autori (insieme a Scataglini figura anche Annalisa Gustini) provano a individuare ed evidenziare alcune strategie di adattamento dei testi che ne consentano un accesso più ampio e paritario, e di conseguenza inclusivo. A seguire, nella parte più corposa del libro, vengono proposti alcuni esempi di analisi delle difficoltà citate, ma anche di evidenziazione, schematizzazione, ristrutturazione e riduzione di testi adatti a classi diverse dalla terza elementare alla terza superiore e afferenti a materie diverse (dalla storia alla geografia, dalle scienze alla narrativa). Il libro può fornire quindi utili spunti a insegnanti di scuole di diverso ordine e grado che con sempre maggiore frequenza si trovano di fronte alla necessità di personalizzare e rendere più accessibili determinati contenuti didattici.

 

 

Martina e il suo cappello

L’idea che sta alla base della collana Tandem è sfiziosa: due storie indipendenti ma comunque legate tra loro, l’una più breve, semplice, stampata in maiuscolo e composta di frasi perlopiù essenziali; l’altra più lunga, più articolata, stampata in minuscolo e composta da frasi non prive di subordinate. La lettura della prima, più agevole e a misura di principiante, crea le condizioni e gli incentivi (conoscenza dei personaggi e della situazione di partenza, voglia di scoprire cosa succede in seguito, sfida a mettersi alla prova con un testo adatto a lettori un pelo più arditi) per affrontare la seconda nonostante il livello di difficoltà maggiore. Entrambe, poi, sono stampate dall’editrice Il Castoro rispettando criteri di alta leggibilità grazie a una font specifico denominato Sassoon e a una sbandieratura a destra. Ulteriori accortezze potrebbero venire dall’uso di una carta non lucida come quella attuale e da una più ampia spaziatura.

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All’interno di Martina e il suo cappello le storie sono scritte da Sofia Gallo e illustrate da Silvia Baroncelli. La prima, intitolata Il compleanno di Martina, vede la protagonista al centro dei festeggiamenti in famiglia insieme al nonno che compie gli anni il suo stesso giorno. I due ricevono alcuni regali speciali – un libro, degli stivaletti di gomma e un cappello di paglia lei, un paio di occhiali, un cappello di tela e una canna da pesca lui – che consentono loro di trascorrere insieme del tempo prezioso e costruire così  dei ricordi felici. Non a caso quegli stessi doni tornano protagonisti anche nella seconda storia contenuta nel volume e intitolata Il cappello di Martina. Qui il cappello di paglia nuovo di zecca della protagonista vola via per un colpo di vento e finisce nelle mani di una bambina che vorrebbe usarlo come cestino. Sarà l’intervento paziente e affettuoso della nonna di Martina a sistemare la faccenda lanciando un bel messaggio sul valore della condivisione.

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Mia sorella è un mostro

I libri per bambini e ragazzi che danno spazio, senza edulcorazione, alle ombre che accompagnano la disabilità si contano poco più che sulle dita di una mano. Di questi, quelli che fanno delle salite, delle difficoltà, degli aspetti inspiegabili e il loro focus principale sono ancora meno. Mia sorella è un mostro rientra tra questi ultimi e si presenta come uno dei libri più più scomodi e meno abituali sul tema reperibili in Italia.

Protagonista è Stella, sorella maggiore di Nelly, una bambina di 5 anni con problemi cognitivi, relazionali e comportamentali. Il libro ripercorre alcuni momenti quotidiani o straordinari della vita delle due bambine – il rapporto con i nonni, episodi di mutismo a seguito di litigi, l’arrivo poi non arrivato a termine di un nuovo fratellino, la scoperta di un nido di merli nel giardino – mettendo in luce il carico di lavoro, di pressione, di frustrazione e talvolta di vergogna che la presenza di una sorella così diversa molto spesso reca con sé. Voce narrante e punto di vista sono proprio quelli di Stella che, come sovente accade in questi casi, mostra un senso di maturità e una capacità di gestione delle situazioni decisamente più sviluppati rispetto ai coetanei. In ogni occasioni la sua pazienza, la sua dolcezza e la sua empatia con la sorella stupiscono e lasciano ammirato il lettore che difficilmente potrà aver sperimentato un’esperienza simile. La figura di Stella è dipinta in tutta la sua forza, ma lascia vedere chiaramente quelle crepe che la stanchezza incide poco a poco. Emblematici, benché lasciati più sullo sfondo, i personaggi di Hanna e Jos, due genitori segnati da un amore profondo e da una grande frustrazione.

Coraggioso e controcorrente, il romanzo di Martha Heesen non è facile né da proporre né da digerire. E’ uno di quei libri che rimestano da dentro e che lasciano un senso di amaro durante ma soprattutto al termine della lettura. L’ultima pagina, in particolare, dove la protagonista si chiude in camera con il proposito di non uscirne fino a quando la famiglia non si libererà della sorella, si conclude con un caustico Peccato, Hanna e Jos, peccato davvero, ma non vi rimane che una sola figlia. Indovinate quale. Che disdetta, eh?” che rende bene l’idea di una sorellanza dal peso specifico elevatissimo. Ma forse proprio per questo, per la prepotenza con cui si fa strada tra decine di volumi dall’approccio opposto, Mia sorella è un mostro si presta a suscitare confronti, riflessioni e racconti che muovano dal profondo.

Il pompiere di Lilliputia

Raro esempio di volume adatto all’infanzia che raffigura personaggi affetti da nanismo, Il pompiere di Lilliputia è un albo illustrato ispirato a una storia vera ma dal sapore eccezionale. Protagonista è Henry MacQueen, figlio di un noto e impegnato politico newyorkese, che a partire dai sei anni cessa di crescere incontrando lo scherno della gente e  faticando a conquistare il favore del padre. Le cose peggiorano dopo che Henry causa accidentamente un incendio in casa, suscitando così il progressivo distacco e timore di familiari e vicini. Quell’episodio, però, segna anche una svolta nella vita del giovane Henry, iniziandolo a un rapporto particolare e privilegiato con il fuoco: da lì a poco Henry si trasferisce infatti a Lilliputia – un’intera cittadina a misura di nani – ed entra nel corpo dei vigili del fuoco di Coney Island. Attivo in spettacoli con il fuoco nel parco di Dreamland, Henry si trova un giorno, inaspettatamente, a domare un incendio vero. Sarà propriuo la sua piccola stazza e il coraggio enorme che questa non  limita, a farlo uscire vittorioso da un’impresa ad alto rischio e a trasformarlo in un autentico eroe agli occhi del padre e della cittadinanza intera.

Il pompiere di Lilliputia nasce dall’incontro suggestivo tra la penna di Fred Bernard e dal pennello di François Roca, già strette in un promettente sodalizio marchato Logos nell’abo Jesus Betz. Quel che colpisce nell’unione tra questi due tratti è la capacità di ricreare atmosfere d’altri tempi che guardano alla realtà con un gusto tutto particolare per l’insolito. L’attenzione riservata dai due autori a ciò che esula dalla norma e la fermezza di un racconto – verbale e iconico – che sa cogliere il lato positivo della diversità senza occultarne le ombre attribuiscono ad albi come questo un fascino originale e una rara capacità di trattare il tema con una dignità che non soffoca èperò la meraviglia.

Sorridi!

Un cappellino di paglia legato al mento, una sorta di pannolino a fiore e due grossi occhi persi nel vuoto: così presenta ai lettori la triste e tenera ranocchietta, protagonista di Sorridi!. Terribilmente avvilita per via della solitudine, alla piccola non bastano i bacini sul naso del Macaone o le facce buffe della tinca: la nostalgia della mamma resta comunque troppo forte. Ma una mamma certe cose le sente, anche quando è distante. Così, benché affaccendata nella vendita di formaggi e marmellate del bosco, la signora ranocchia affida un sorriso speciale al castoro, con la preghiera di consegnarlo a sua figlia. Il castoro è ben lieto (e persino orgoglioso!) di prendersi l’incarico e si avvia con i dentoni ben in vista verso la zona del lago dove crescono i pioppi. Per strada trova però dei rami adattissimi a costruire una nuova diga e qui un dubbio amletico si pone: consegnare il sorriso o preoccuparsi della diga? Una soluzione c’è: affidare il sorriso alla lontra perché prosegua la sua missione. E così accade, ma anche la lontra trova per strada un intoppo e affida a sua volta il compito a un altro animale e come lei fanno, via via, anche il picchio, la volpe e il cane, l’orso. Fino a che il sorriso non arriva nel becco dell’anatra che raggiunge la ranocchietta e le recapita l’affetto di cui tanto necessita, lasciando dietro di sì una scia di letizia. L’idea che un sorriso, come qualunque altra espressione di gentilezza, possa diventare un testimone da passare di mano in mano è forte e trova nelle espressioni delle creature del bosco un’immagine davvero incisiva. Il fatto, poi, che quello di sorridere sia anche un compito importantissimo, che ciascun animale assume con la massima serietà e non abbandona finché non trova un sostituto, è altrettanto significativo e meriterebbe anche nei nostri “boschi” quotidiani” una più assidua considerazione.

La storia di questa staffetta speciale è semplice e sfrutta un collaudato meccanismo ripetitivo che dà struttura e ritmo al racconto. La narrazione potrebbe forse essere più snella ma le illustrazioni, delicate ed espressive, consentono di non badarvi troppo. Gli accorgimenti tipografici adottati dalla Sinnos, inoltre, giocano un ruolo a loro volta importantissimo per alleggerire la lettura e renderla al contempo piacevole e fluida. Attraverso un gioco sapiente di colori, grassetti e maiuscoli – uniti al font ad alta leggibilità leggimi – la pagina risulta particolarmente dinamica e chiaramente organizzata e viene così meglio incontro alle esigenze di lettori poco esperti o con difficoltà. La casa editrice aveva d’altronde sperimentato con successo gli stessi espedienti all’interno del volume Chi vuole un abbraccio?, scritto delle medesime autrici e pubblicato nella medesima collana. In questo volume così come in Sorridi! si celebra il valore dei piccoli gesti e il loro rivoluzionario potere, consolidando una sorta di filone del buonumore che se la gioca, quanto a efficacia, con una buon scatola di cioccolatini!

Smart

Colin è un uomo di Nottingham senza troppi amici e senza fissa dimora. Un giorno viene trovato morto in mezzo al fiume che lambisce la città, nella zona in cui vive Kieran, un ragazzino singolare che la maggior parte dei compagni deride chiamandolo “down”, “ritardato”, “spostato” o “bavoso” a seconda delle circostanze. Che cosa abbia esattamente il protagonista l’autrice non ce lo dice mai ma dalla presenza costante dell’insegnante di sostegno, dai comportamenti insoliti, dalle ristrette doti relazionali compensate da una grande attenzione ai dettagli, capiamo che possa facilmente trattarsi di un disturbo autistico. Ma Kieran è soprattutto un ragazzino curioso, appassionato di indagini (da Sherlock Holmes a CSI), desideroso di diventare un giornalista di Sky News e dannatamente bravo a riprodurre cose e persone attraverso il disegno, il che lo aiuterà non poco quando deciderà di fare luce sulla morte di Colin per supplire alla negligenza della polizia locale. Lo farà di nascosto dalla mamma, che gli mostra grande affetto nonostante il poco tempo e le poche energie che riesce a dedicargli, e di nascosto dal compagno di quest’ultima che invece, violento e losco, lo maltratta facendogli chiaramente capire che non lo vorrebbe tra i piedi. Lo farà correndo pericoli tutt’altro che trascurabili e trascorrendo molto tempo fuori casa, nella cornice di una periferia piuttosto degradata che tanta parte assume nelle brutte vicende che invischiano il protagonista e chi gli sta intorno. E lo farà con tenacia e ironia, appuntando ogni particolare sul suo prezioso taccuino e contando sull’aiuto di amici più o meno datati (come Jean, divenuta senzatetto dopo la morte del figlio o come il compagno Karaamat, giunto da poco dall’Uganda) ma in ogni caso insoliti e accomunati dalla sperimentazione diretta della discriminazione: il loro supporto – morale e pratico – si rivelerà fondamentale per dare non solo un esito positivo alle indagini ma anche una nuova forma all’esistenza quotidiana del giovane protagonista.

Il personaggio di Kieran è tenero e simpatico allo stesso tempo, ispira coraggio e ottimismo, in una parola: piace! Con quel suo modo di fare un po’ buffo e un po’ ostinato e con quel suo modo di narrare che non trascura i dettagli ma non annoia, sa tenere il lettore appeso alla storia e fargli riconoscere emozioni e temi dalle tinte anche scure che non compaiono così frequentemente nella letteratura per ragazzi. La somiglianza con Christoper de Lo strano caso del cane ucciso a mezzanotte e con Ted de Il mistero del London Eye – entrambi capaci di risolvere casi intricati grazie a un modo di pensare fuori dagli schemi tipico della sindrome di Asperger  – è lampante (e tra l’altro sottolineata dalla stessa casa editrice fin dalla fascetta che correda il volume). E questo, forse, è l’aspetto che apre maggiori interrogativi  in un romanzo ben costruito e davvero piacevole come quello dell’esordiente Kim Slater: ci si chiede infatti se l’insistente ricorso  alla figura del ragazzino con disturbo autistico – qui dipinto forse con minore accuratezza e verosimiglianza rispetto ai due volumi sopracitati – che si riscatta ricomponendo casi irrisolti non finisca per compromettere l’originalità narrativa e soprattutto per costruire, a lungo andare, uno stereotipo che riduce e fissa la sindrome di Asperger in una capacità straordinaria di risolvere situazioni complesse. La questione sta tutta lì, nel sottile confine che separa la valorizzazione delle diversabilità dal loro congelamento in una visione reiterata.

Kieran, dal canto suo, ha e suggerisce il suo personalissimo sistema per collocarsi fuori dagli schemi e non restare imbrigliati nella maglie di un pensiero stereotipato: immaginarsi come Albert Einstein a cavalcioni di un raggio di luce   – baffi grigi e capelli indisciplinati compresi – per favorire l’emergere di idee divergenti. Lettori e scrittori sono avvisati: chissà che una rappresentazione davvero libera della disabilità non possa passare proprio da lì…

Mentre tu dormi

Mentre tu dormi di Mariana Ruiz Johnson è l’albo vincitore del Silent Book Contest 2015. Aprite, sfogliate, fate vostro questo volume e non vi sarà difficile capire le ragioni del riconoscimento. Le immagini dell’autrice argentina contenute nel libro sono a dir poco ipnotiche e raccontano in punta di pennello di un confine labilissimo tra realtà e sogno.

L’albo si apre con un’inquadratura ristretta su un bambino e sulla sua mamma, ripresi con garbo nel rito della buonanotte. Nei loro sguardi c’è attesa e dolcezza e un libro dalla copertina intrigante pare suggellare l’intimità del momento. Qualcosa sta per succedere ma per scoprirlo occorre forse abbandonarsi ai sogni.. è a quel punto, proprio quando il piccolo protagonista chiude gli occhi, che l’inquadratura infatti si allarga – sulla stanza, sulla casa, sull’isolato, sul quartiere, fin sull’intera citta – spalancando lo sguardo del lettore su pagine sempre più ampie e dettagliate. Qui, esseri umani alle prese con faccende quotidiane – una festa, una passeggiata, una mail di lavoro – si mescolano a creature fantastiche dai tratti animaleschi (un coniglio, una volpe, un orso, un cervo, un uccello e un ghepardo) non del tutto estranee all’occhio attento. Sono proprio questi ultimi, a un certo punto, a dominare la scena prendendo il mare e conducendo chi legge in un mondo meravigliosamente surreale. Qui, tra luci e colori strabilianti, hanno luogo folleggiamenti che tanto sanno di ridda selvaggia e anche per questo solleticano ricordi e fantasie di lettori più o meno grandi. È festa grande, a centro pagina. Poi però tutto finisce, la città si sveglia mostrando gli esiti della notte e restituendo alla vista protagonisti più terreni. Il mondo fantastico si è dissolto, ma forse non sarà così difficile ritrovarlo quando calerà di nuovo la sera…

In una canzone dal titolo quasi identico (Mentre dormi) all’albo di Mariana Ruiz Johnson, Max Gazzè canta “Le piume di stelle sopra il monte più alto del mondo a guardare i tuoi sogni arrivare leggeri”. Ecco, è quasi un caso ma la sensazione di leggera felicità che questo albo lascia tra le dita al termine della lettura non potrebbe forse essere espresso meglio..

Piccolo blu e piccolo giallo

A cinquantasei anni di distanza dalla prima pubblicazione di Piccolo blu e piccolo giallo, Babalibri ci fa un vero regalo, tanto più gradito perché inatteso: una rinnovata edizione del capolavoro di Leo Lionni corredata da un audiolibro musicale. Sul Cd allegato al volume si trova infatti una registrazione del testo, interpretato con garbo dall’attrice Anna Bonaiuto  e accompagnato da musiche di Schumann accuratamente scelte.

Questo fa sì che al piccolo lettore sia offerta la possibilità di compiere un’esperienza di lettura nuova, multisensoriale e straordinariamente stimolante: un’esperienza che integra linguaggi diversi in un complesso armonico. Le musiche, disponibili anche per un ascolto separato, accompagnano infatti la lettura assecondandone e arricchendone il ritmo, il senso e la profondità. Le avventure dei due amici blu e giallo che si vogliono così bene da fondersi in un abbraccio verde che scombussola le rispettive famiglie fino al felice riconoscimento finale sono infatti colme di valore emotivo

Come positivissimo effetto collaterale questa iniziativa amplia le possibilità di fruizione di una pietra miliare della letteratura per l’infanzia, accogliendo lettori di ogni età che, per difficoltà visive, neurologiche o intellettive, possono trovare inciampi più o meno grossi nel testo scritto. Un’apertura e un’attenzione che, soprattutto in tempi di censure e restrizioni (da cui lo stesso Piccolo blu e piccolo giallo non è passato indenne), portano un segnale forte di preziosa e colorata vitalità.

Armanda, Elvis e gli altri

Mettetevi comodi e preparatevi a una lettura breve ma traboccante di capriole linguistiche e inventive. Dalla penna di Emanuela Da Ros esce infatti un personaggio impetuoso – la vecchia ma arzilla strega Armanda – le cui trovate per animare la vita del figlio Gianperfetto e della nuora Ersilia sono un concentrato di buonumore.

Descritte dalla protagonista all’interno di lettere inviate all’amica Mirtilla, queste spaziano dall’invenzione di una sedia a motore alla trasformazione del te pomeridiano in gustosi cocktail magici, dalla metamorfosi della nuora in una statua di marmo all’utilizzo degli elettrodomestici come sistemi di posta rapida. Nella sua breve permanenza a casa di Gianperfetto ed Ersilia (mago non praticante lui e umana lei), Armanda si dà un gran da fare per dare una mano e una sferzata di energia alla vita dei due mosci sposi. Purtroppo (per loro, ma per fortuna per noi) la sua dimestichezza con le tecnologie moderne è tutt’altro che brillante sicché equivoci e gag nati da oggetti quotidiani sono dietro l’angolo. Se a questo si aggiungono i ricordi di giovinezza di Armanda, sposa nei suoi 1453 anni di innumerevoli personaggi famosi – da Cavour a Elvis, da Mongolfier a Darwin – si ottiene un quadro narrativo davvero surreale.

La lettura di Armanda, Elvis e gli altri è insomma piacevole (anche le biografie di molteplici sposi sono frequenti ma non invasive anche perché tipograficamente distinte dal resto del testo), il ritmo è serrato, le invenzioni incessanti e l’impaginazione ad alta leggibilità: questo racconto nel segno dell’iperbole, in cui ogni pagina sfida l’immaginazione del lettore, è davvero un gustoso invito alla lettura rivolto anche a chi di lettura vuol saperne poco, sia per disabitudine sia per oggettiva difficoltà.

 

 

 

La principessa e lo scheletro

Chi non ha nemmeno uno scheletro nell’armadio alzi la mano! Figurarsi, persino i sovrani più adulati e venerati dai sudditi nascondono qualche macchia del passato e il papà di Lulù, principessa di un regno un po’ moderno e un po’ no, non fa di certo eccezione. Nel suo armadio vive uno scheletro fatto e finito che custodisce per conto del re un misteriosissimo segreto in un cofanetto da cui non si separa mai. Il segreto è quindi salvaguardato fino a quando Lulù non incontra per caso lo scheletro che di nome fa Ossi intento a fare incetta di dentifricio nel bagno del castello. Da quel momento il signor Ossi viene presentato alla regina e alla servitù come una famosa star del cinema in visita, viene agghindato a dovere dalla principessa e portato a zonzo per il regno. Ma proprio durante una passeggiata tranquilla lo scheletro, coinvolto in un imprevisto attacco canino, perde di vista il cofanetto e il suo prezioso contenuto. Lui e la principessa Lulù si mettono quindi sulle tracce del ladruncolo coinvolgendo inconsapevolmente nella loro ricerca una schiera di personaggi davvero variegata: dai compagni di scuola che credono Lulù controllata dagli alieni, a Luigi che rovista nei bidoni, dal professore universitario ormai dedito alla tessitura di tappeti all’intero corpo di polizia del regno. In una caccia al tesoro ricca di colpi di scena Lulù finirà per conoscere suo papà sotto una luce diversa dando un valore nuovo ad apparenza e realtà.

Il libro di Piret Raud, caratterizzato da tinte surreali e stravaganti, offre un’avventura intrigante, fruibile anche da parte di lettori colpiti da dislessia. Gli accorgimenti tipografici ad alta leggibilità a cui ormai da tempo Sinnos ci ha abituati vengono qui applicati a un testo piuttosto lungo e corposo che offre una bella sfida di lettura.

Reato di fuga

La capacità di Christophe Léon di dipingere l’adolescenza con vividezza e sentimento è probabilmente la chiave di volta di un romanzo intenso come Reato di fuga.  In questo suo recente lavoro, pubblicato ad alta leggibilità da Sinnos, l’autore francese riprende infatti da vicino gesti ed emozioni di due ragazzi le cui esistenze sono stranamente destinate ad intrecciarsi.

L’uno, Sébastien, ha quattordici anni, è figlio di genitori divorziati, vive giorni piuttosto abitudinari con la madre e trascorre spesso il weekend in campagna col padre. L’altro, Loïc, ha diciassette anni, vive con la madre e lavora presso una fattoria vicino alla cittadina di campagna in cui il padre di Sébastien possiede la casa. Ed è proprio qui, un venerdì sera come tanti, che quest’ultimo spinge un po’ troppo sull’acceleratore per arrivare in tempo a un appuntamento e investe involontariamente la mamma di Loïc lungo la strada. L’incidente è piuttosto violento, tant’è che la vittima viene portata d’urgenza in ospedale e  qui rimane a lungo prima in coma e poi con grossi deficit di memoria, ma l’investitore non manifesta alcuna intenzione di fermarsi e prosegue la sua corsa con il figlio a bordo. Questo, più ancora che l’incidente stesso, travolge  Sébastien nelle settimane successive allo scontro. Ciò che il ragazzo sperimenta è lo strano tormento del senso di colpa quale sentimento trasferibile e accollabile per conto terzi, qualora questi mostrino di non volervi avere a che fare. E proprio a causa di questa sensazione così ingombrante e della frantumazione di un modello adulto fino ad allora solido e forte che Sébastien inizia a manifestare astio e attrito nei confronti dei genitori e a rivendicare spazi di autonomia. Ottenuta una settimana di vacanza in solitaria presso la casa di campagna, accade però che il ragazzo non resista dal prendere contatti con la famiglia della signora investita dal padre. Nasce così un’amicizia intensa con Loïc, fatta di momenti semplici ma importanti da condividere, di pomeriggi di svago, di parole giuste e di silenzi al momento opportuno. Fino a quando la verità, inevitabilmente, non viene  a galla.

La lettura di Reato di fuga, adatta a ragazzi dalle scuole medie in su, ha dalla sua una narrazione pulita e avvincente. Sentimenti forti, dialoghi senza fronzoli, figure e relazioni delicate e un gioco alternato tra punti di vista (a un capitolo narrato dalla voce di Sèbastien ne segue uno narrato da una voce esterna che dà del tu a Loïc) aiutano a tuffarsi con interesse nella storia. Il font ad alta leggibilità leggimi, poi, fa come al solito la sua parte per rendere valido tutto questo anche per i lettori dislessici.

 

 

 

Il volo del riccio

Un papà che perde il lavoro è cosa drammaticamente attuale di questi tempi e ciononostante non sono molti i libri per ragazzi che col garbo e la sensibilità necessari sappiano trasformare in narrazione una situazione tanto diffusa. Eppure un cambiamento così significativo nella vita di un adulto porta con sé conseguenze importanti anche nella vita dei piccoli e dei giovani che gli ruotano intorno, come testimonia Eugenia, protagonista e voce narrante de Il volo del riccio.

Sono i suoi occhi inesperti ma attenti a registrare come mutino in famiglia gli equilibri e gli umori, oltre e più che le possibilità economiche, quando suo  papà viene licenziato. Nelle parole semplici della bambina si leggono tutta la frustrazione di un adulto ancora nel pieno delle sue capacità che vede il futuro annebbiarsi e l’annichilimento progressivo che questa porta con sé. Ma le occasioni di risollevarsi assumono a volta forme insolite: sta all’intraprendenza di ciascuno riconoscerle e coglierle. Così, il pretesto di un concorso artistico cui partecipa la classe di Eugenia diventa per il papà l’occasione per spendere il largo tempo libero a disposizione per dare vita a un’invenzione curiosa. Ne nasce un riccio volante per il quale tutta la classe dà il suo contributo, un secondo posto al concorso artistico e soprattutto un nuovo spiraglio per il papà di Eugenia che scorge nella creatività una possibile nuova strada da percorrere per risollevarsi.

La vicenda è raccontata con pacatezza e sincerità dalla penna raffinata di Agnès de Lestrade, che ha già abituato il lettore a storie misurate e toccanti con La grande fabbrica delle parole e Domani inventerò. In poche contenutissime pagine, l’autrice francese dà forma qui a una storia intensa ma alla portata di tutti, tanto più che le illustrazioni minimal di Umberto Mischi ne valorizzano la leggerezza e l’impaginazione ad alta leggibilità di Biancoenero ne apre la lettura anche a chi è colpito da dislessia.

Weekend con la nonna

Metti un weekend con la nonna ma scordati torte di more, telenovela e calzini all’uncinetto. C’è piuttosto da tirare fuori fegato e spirito di avventura per soggiornare nella casa del gigante, scongiurare l’incontro ravvicinato con un cinghiale e andare a caccia di grigni. L’insolito Weekend con la nonna raccontato da Stefan Boonen è così, tutto brividi e follie, prendere o lasciare. Lo si intuisce fin da pagina 11, quando il pullmino dell’anziana inizia a sgommare su strade impervie con i bagagli sui sedili e i nipoti sul tettuccio. Si parte a tutta birra, non c’è tempo da perdere…

Tre giorni passano in fretta e ci sono storie horror della buonanotte da ascoltare, frittelle di letame da digerire, balli da guerrieri selvaggi da fare, passi (centomila!) nel bosco degli alberi storti da affrontare. Ma anche – perché no? – arrampicate sulla grondaia e riflessioni silenziose da gustare. Perché il bello di una tre giorni filata dalla nonna è proprio quello: prendersi il proprio tempo e dedicarlo a piacere a ciò che fa stare bene, peripezie e pensieri che siano, insieme a una persona tanto cara quanto spericolata.

Familiarità e stramberia si respirano in parti uguali tra le pagine di Weekend con la nonna. Il gusto per le situazioni insolite e spiazzanti coltivato dall’autore non toglie posto infatti al senso di condivisione e intimità affettuosa noti anche al lettore la cui nonna risulti in qualche modo più convenzionale. Quel che si celebra qui è il valore delle piccole trasgressioni e dei segreti a fin di bene, del sapore dell’avventura che è migliore se non la si vive in solitudine, delle esperienze iniziatiche che da “piccoletto” ti fanno diventare grande e del senso di casa e famiglia che ciascuno si costruisce a modo suo e dei suoi cari.

In questo libretto smilzo ma intenso, profondamente divertente e curato nei dettagli, si legge di un rapporto inimitabile come quello tra nonni e nipoti: un rapporto che si nutre di leggerezza e spirito ludico. Stefan Boonen lo racconta con dialoghi incalzanti che strappano di continuo sorrisi, amplificati a dismisura dalle illustrazioni spiritose firmate da Melvin. Ma a rendere davvero straordinaria questa lettura, più che consigliata anche a lettori riluttanti, è la forma grafica davvero originale ed efficace.

Tutta giocata sulla combinazione di arancione, bianco e blu, la veste grafica di Weekend con la nonna sfrutta con perizia l’integrazione di testi e immagini (dove finisca uno e inizi l’altro è proprio difficile a dirsi!), il ricorso a caratteri di dimensioni e colori differenti e l’impiego dell’azzeccatissima font ad alta leggibilità leggimigraphic. C’è da scommettere che un esperimento come questo – il primo della casa editrice in cui la font caratteristica dei fumetti viene applicata a un testo rivolto ai più piccoli – intercetti facilmente i gusti dei lettori meno esperti, magari colpiti da dislessia, e più in generale che amino le storie spassose, quelle che poi, più spesso del previsto, costituiscono il ponte più solido per approdare a letture più complesse.

Contro i cattivi funziona

Avere 13 anni è già di per sé piuttosto impegnativo: scuola, amicizie, cambiamenti, prime cotte e contrasti con i genitori (magari separati) danno un bel da fare a chiunque. Se poi ad aggiungersi c’è anche un fratello gravemente disabile mantenersi in piedi può diventare un’impresa per via delle prese in giro, degli atti di bullismo, degli sguardi compassionevoli o dei giudizi sprezzanti che affollano il quotidiano. Tutte cose molto familiari a Matteo Galbiati, la cui identità fatica a sganciarsi da quella del fratello Guido: 14 anni anagrafici e uno e mezzo celebrale, con gravi difficoltà comunicative e motorie.

Per questo la possibilità di cambiare scuola e ripartire da zero – quanto a conoscenze e reputazione – costituisce per il protagonista di Contro i cattivi funziona un’occasione imperdibile. Matteo decide di presentarsi ai nuovi compagni nascondendo a tutti l’esistenza del fratello. La cosa sembra funzionare, dal momento che il ragazzo riesce a entrare nelle grazie di Francesco, il più temuto e rispettato della scuola, e della sua banda di scagnozzi. Ma tenere in piedi una bugia tanto grossa si fa via via più difficile, soprattutto quando Guido inizia a frequentare la stessa scuola di Matteo, quando l’affettuosa vicina di casa Selene scopre la vita reale della famiglia Galbiati e prova piano piano a entrarvi e quando la banda di Francesco comincia a manifestare, con parole ma anche con i fatti, la propria avversione verso i più deboli e verso chi, avario titolo, li difende. Sarà dura per Matteo fare i conti con una situazione che rapidamente precipita e scoprirsi di colpo migliore di quanto non si mostrasse e più attaccato al fratello di quanto non credesse.

Attraverso una trama coinvolgente e dei dialoghi serrati, che guardano all’adolescenza con occhi disincantanti, Massimo Canuti offre un bel ritratto di un legame fraterno quanto mai complesso e travagliato. Dando voce ai siblings, ossia ai fratelli di persone con disabilità, l’autore sceglie di non abbandonarsi alla neutralità politically correct che spesso invade i libri sul tema per far emergere piuttosto il magma emotivo che spesso travolge chi vive una situazione di questo tipo, in bilico tra un affetto smisurato e un’insofferenza che porta a rimorchio il senso di colpa. La schiettezza, al servizio della complessità, è dunque la vera forza di un volume coraggioso come questo.

 

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Piuma bianca

Quante sorprese possono nascondersi in un libretto di una spanna per una spanna? Più di quante si possa pensare… aprire Piuma bianca per credere! Il volumetto scritto e illustrato dall’argentino Pablo Sweig e dedicato da Sinnos ai lettori alle prime armi racchiude infatti in poche e ridotte pagine un’esplosione di colori avvolgenti, una girandola di forme stilizzate irresistibili, una storia semplice e tenera e una cura tipografica che rende intrigante l’approccio autonomo alla lettura anche da parte di chi non ha grande dimestichezza con il testo scritto o sperimenta difficoltà legate alla dislessia.

La storia è quella di Piuma Bianca, stella del circo di Buffalo Bill, che un giorno fa tappa con la sua compagnia nella terra d’origine della sua famiglia e lì sceglie di ricominciare una nuova vita che concili le sue radici e il suo talento originale. L’autore la racconta con parole semplici e frasi brevi, rese chiare sulla pagina dal ricorso alla font maiuscola leggimiprima intelligentemente messa punto dall’editore. Quello che ci si ritrova tra le mani è perciò un libretto essenziale – nei contenuti e nelle forme – ma di grande coinvolgimento sia per i ricchissimi dettagli che l’autore dissemina sulla pagina sia per la profusione di sforzi volti a rendere i primi tuffi autonomi nella lettura un’esperienza piacevole e appagante.

Il libro di Julian

Il libro di Julian, che segue e strettamente si lega al bellissimo Wonder, è un racconto gustoso che lascia tuttavia nella bocca del lettore un sapore strano, forse amaro. Nato come una sorta di appendice del primo romanzo di R. J. Palacio, il libro riprende i fatti qui narrati dal punto di vista del personaggio che vi prende parte col ruolo più negativo. Julian è infatti il bulletto che rende difficile la vita scolastica di Auggi e dei suoi amici e di cui mai, tuttavia, in Wonder vengono resi il pensiero e la prospettiva. L’autrice dà corpo quindi a questo nuovo lavoro proprio per dar voce al cattivo di turno.

L’idea è bella e coraggiosa. Come si può sentire il lettore, infatti, di fronte a un personaggio di cui già ha un’idea sfavorevole e i cui comportamenti sono così lontani dal comune e giusto sentire? La Palacio si cala in questo terreno minato portando alla luce la situazione familiare che alimenta l’arroganza e l’incapacità del protagonista a confrontarsi con le difficoltà e le responsabilità. Emergono così, in maniera molto accentuata, una madre miopemente iperprotettiva e un padre per cui soldi e buona immagine costituiscono una priorità assoluta. La loro abitudine a giustificare ogni atto del figlio, a ribaltare ogni situazione in modo che questi ne esca pulito e illeso e a scaricare qualunque colpa sulle spalle altrui si delinea agli occhi del lettore come la causa principale del modo di fare meschino e irriverente di Julian. Ciò che accade quindi è che di pagina in pagina Julian finisce per riabilitarsi agli occhi del lettore facendo ricadere le ombre che fino ad allora ne avevano oscurato la figura sui suoi genitori.

E se questo da un lato ha il merito di invitare ad andare sempre al di là delle apparenze, anche per capire il perché di comportamenti indegni e deprecabili, e di portare all’attenzione il caldissimo tema dell’emergenza educativa che coinvolge genitori e insegnanti su di un fronte troppo spesso separato, dall’altro inciampa nel rischio di giustificare a tutti i costi un atteggiamento da bullo per favorire la trasformazione di Julian da cattivo tout court a “cattivo soprattutto non per colpa sua e comunque in definitiva pentito”. Il libro di Julian resta comunque una lettura godibile (senz’altro molto di più se si è letto Wonder, su cui si regge in buona parte la sua ragion d’essere), scorrevole e non privo di qualche colpo di scena narrativo del tutto in linea con il gusto dell’autrice per le trame appassionanti e a tratti commuoventi.

Album per i giorni di pioggia

Può l’ultimo giorno di vacanza suscitare gioia e diventare, tra tutti, il giorno più bello dell’anno? Verrebbe da dire di no ma il protagonista di Album per i giorni di pioggia è pronto a smentire noi tutti. L’ultimo giorno di vacanza coincide infatti con il suo compleanno e fa rima quindi con corona di carta, candeline, torta e famiglia. Quest’anno ancor di più, perché lo zia Ramon ha portato un dono davvero speciale, capace di rendere indelebile un momento tanto felice. Uno, due tre, click: armato della sua nuova macchina fotografica rosso fiammante, il festeggiato non perde tempo e trasforma una giornata potenzialmente malinconica in una collezione di attimi felici da ricordare.

Seguendo il sempreverde insegnamento di Federico, il topo di Lionni che metteva da parte raggi di sole per l’inverno, il protagonista del libro di Torrent raccoglie e immortala momenti preziosi – una corsa con gli aquiloni, una moltitudine di bolle di sapone, un tuffo tra le onde o un salto sul molo – attività spensierate che diventeranno ossigeno e sorrisi quando le attività frenetiche della brutta stagione prenderanno il sopravvento. Ciò che le rende così speciali è il fatto che siano condivise con le persone più care con la leggerezza che solo una vacanza ormai agli sgoccioli può riservare. Il libro omaggia cioè il piacere delle piccole cose, rese straordinarie da coloro con cui vengono vissute.

C’è insomma una nota malinconica tra le pagine di quest’albo, una sorta di presentimento di ciò che verrà da lì a poco, sottolineato da toni ambrati, crepuscolari, prediletti dall’autore nelle illustrazioni. D’altra parte, però, l’ottimismo finisce per avere la meglio, forte della consapevolezza che in qualche modo siamo quello che ricordiamo.

Che c’entra però la disabilità con questo quadro? C’entra nella maniera migliore possibile! Senza che il testo dica nulla, le immagini ci mostrano un protagonista in sedia a rotelle: la disabilità trova posto cioè senza esasperazioni, strepiti, messaggi a effetto o lezioni pedagogiche. Essa figura come un dettaglio tra tanti che influenza certi aspetti della vita (come il modo di correre nel vento, l’altezza da cui si scattano le foto o la maniera di godersi un bagno in mare) senza comprometterne l’essenza (come il piacere di vivere e registrare quei momenti, l’affetto dei cari, il sorriso di fronte al bello di una giornata di sole). Un albo come questo, che sfrutta al meglio le peculiarità del genere facendo dire a testo e immagini cose complementari, lascia delle piccole e discrete tracce di riflessione rispetto alla disabilità, che solo l’occhio attento registra, portando con naturalezza e quasi senza accorgersene la mente a realizzare che l’emozione di un abbraccio tra fratelli, il divertimento di un gioco in spiaggia, la gioia di uno spruzzo marittimo sono  piaceri condivisibili che ci avvicinano straordinariamente.

Visioni nuove della disabilità e dell’inclusione vengono proprio dalle lenti precise e dagli obiettivi potenti che libri come Album per i giorni di pioggia montano sui nostri occhi, come fossero macchine fotografiche. Parole ben scelte e illustrazioni portentose, ricche di inquadrature particolari e prospettive insolite, come quelle di Dani Torrent sono ciò di cui necessitiamo per guardare alla realtà con lo sguardo illuminato di un buon fotografo, che è ben altra cosa da quello piatto di chi, semplicemente, scatta fotografie.

Siate gentili con le mucche

La figura di Temple Grandin è tra le più affascinanti e straordinarie che la storia, non solo della scienza, abbia conosciuto. Enigmatica e tenace, originale e visionaria, è a lei che si deve un fondamentale contributo alla comprensione dell’autismo, grazie alla testimonianza sulla sua personale condizione, e al miglioramento del trattamento degli animali da allevamento, grazie ai suoi studi di psicologia e scienze animali. Ecco perché la sua biografia entra a buona ragione tra quelle dedicate alle grandi scienziate dalla collana “Donne nella scienza”.

Siate gentili con le mucche ripercorre le tappe fondamentali della vita di Temple, dall’infanzia all’età adulta, mettendo in luce le sue difficoltà e le sue soddisfazioni, intrecciando i fili degli studi con quelli delle relazioni. Ne emerge il ritratto di un successo personale segnato da moltissimi ostacoli. Tra questi, la parte del leone la fa l’autismo da cui Temple è affetta e che all’epoca – siamo all’inizio della seconda metà del ‘900 – costituiva un mistero pressoché assoluto. Nonostante tale condizione ma soprattutto grazie alla diversità che questa impone, Temple raggiunge importanti traguardi accademici ed esistenziali, facendo tesoro in modo straordinario del suo modo di essere sui generis.

Il libro sottolinea questo aspetto con garbo, grazie alle parole attente di Beatrice Masini, che guardano ai fatti ma anche alle emozioni, e alle illustrazioni appassionate e profonde di Vittoria Facchini che completano con grande intensità il quadro di una personalità complessa come quella di Temple Grandin. Il tentativo è anche quello di dare dell’autismo una spiegazione comprensibile a misura di ragazzino, senza rinunciare alla correttezza scientifica. Per questo il racconto è chiuso da diverse pagine di approfondimento, in facili parole ma di alto livello, curato da persone che di autismo si occupano quotidianamente. Più di qualunque altro libro per ragazzi che affronti in qualche maniera la sindrome autistica, Siate gentili con le mucche tiene al rigore e alla schiettezza, pagando eventualmente il prezzo della comprensibilità immediata e superficiale. In accordo con la linea della casa editrice, infatti, il focus è prettamente scientifico e va dritto a soddisfare domande e desideri di comprensione di ragazzi curiosi ed esigenti.

Federico il pazzo

Nato a Napoli e trasferitosi al nord da piccolissimo, Angelo torna nella città natale a tredici anni insieme a sua mamma. Il trasferimento, peraltro in un quartiere periferico e difficile della città, impone al ragazzino un grande sforzo di ambientamento: non solo la città e la scuola sono nuove, ma anche la lingua, le regole, il sentire comune e gli atteggiamenti diffusi sono diversi da quelli cui era abituato. Qui ci sono strade da evitare, sguardi da evitare, persone da evitare. Ci sono regole non scritte che sanciscono chi comanda, chi ha il diritto di pestare qualcun altro o chi decide se si possa passare o meno dalle scale del palazzo. Dopo un primo smarrimento, il protagonista prende le misure con la sua nuova realtà, anche grazie alla guida di Mimmo e di Giusy: un vicino di casa più grande, buono ma assuefatto alla logica della prepotenza, e una compagna di classe molto carina, originale e combattiva. Anche grazie a loro Angelo inizia a conoscere i pericoli di certe vie, di certi banchi e di certi compagni, come Capa Gialla e la sua gang. Questo non lo risparmierà da uno scontro doloroso con il bullismo ma lo aiuterà a capire da che parte vuole stare e che essere coraggiosi non significa non avere paura o mostrarsi necessariamente sbruffoni.

I difficili mesi della terza media, di per sé già un momento piuttosto critico, diventano perciò per Angelo e il lettore  l’occasione per realizzare che ci si può nel proprio piccolo ribellare alla logica del sopruso, che ciascuno ha la sua diversità e che vale la pena conoscerla e difenderla. Emblematica, in questo, è la figura di Federico il pazzo che dà il titolo al libro. Vicino di pianerottolo e compagno di classe di Angelo, questi si chiama in realtà Francesco ma viene indicato da tutti come Federico il pazzo per quella sua strana abitudine di atteggiarsi a Federico II, del quale studia giorno e notte le vicissitudini su corposi volumi. Il suo personaggio, così fuori dagli schemi e difficile da omologare, è un inno alla libertà di essere alla propria maniera ma anche una manifestazione di insofferenza nei confronti di una realtà che vorrebbe dei “cervelli fatti in serie” (come direbbe la saggia Giusy del racconto). Ma è proprio quando più di un’insofferenza e più di una diversità si incontrano che il coraggio prende voce e le cose possono iniziare a cambiare.

Sorridente e realisticamente drammatico insieme, il libro di Patrizia Rinaldi racchiude una forza portentosa. Senza strepiti o manifesti, Federico il pazzo offre un ritratto autentico di una Napoli difficile (ben conosciuta dall’autrice)  in cui non manca però la voglia di riscatto, in cui la ristrettezza di orizzonti  non offusca del tutto barlumi di giustizia. Tutta condensata in poco più di 100 pagine c’è cioè una storia di passaggi, di diversità, di solitudini che si incontrandosi cambiano nome, di bullismo e di coraggio A completare un volume già di per sé validissimo, la stampa ad alta leggibilità e i disegni in bianco e nero di Federico Appel: mai così pertinente la prima, che nel suo piccolo difende un diritto importante come quello di tutti alla lettura; e perfettamente calzanti i secondi, che colgono e restituiscono con poetica ironia pensieri ed emozioni del narratore.

Gara di guai

Chi è il preferito della mamma? L’interrogativo che attanaglia Isa, Teo e Luca non è forse estraneo a molti potenziali lettori di Gara di guai. Quel che forse è loro un po’ meno familiare  è il sistema che i tre fratelli, protagonisti del libro di Gilles Abier, adottano per trovare una risposta definitiva al quesito. Convinti che l’unico modo per conoscere i reali sentimenti della mamma sia testare le sue reazioni di fronte a situazioni irritanti, i tre si danno un gran da fare per combinare dei disastri. Quel che ne deriva è un crescendo di succhi versati, piatti rotti, cappotti impiastricciati e fiori strappati, ispirato in buona fede dall’idea che il fine giustifichi i mezzi. Non c’è cattiveria o monelleria, infatti, nel comportamento dei tre bambini ma piuttosto l’appassionato e quasi scientifico tentativo di trovare una risposta a una domanda tanto assillante.

Leggero, nell’affrontare un punto interrogativo tanto radicato nell’infanzia, Gara di guai si conclude con una risposta materna solo parzialmente attesa, in cui la dolcezza la fa da padrona. Un metafora articolata da pasticceri professionisti chiude perciò un volumetto che si fa leggere senza grosse difficoltà e che unisce a un racconto poco impegnativo una scrittura cadenzata e agevole da seguire e un font ad alta leggibilità. Come negli altri libri della bella collana leggimi a colori, le illustrazioni spiritose e accattivanti offrono un appoggio supplementare ai lettori riluttanti.  

Quello che gli altri non vedono

La differenza tra guardare e vedere può essere sottile e determinante. Nei panni dei lettori, lo scopriamo seguendo il protagonista novenne di Quello che gli altri non vedono nel suo appassionato tentativo di liberare la nonna dalla casa di riposo in cui è stata sistemata. Perché Milo – questo è il suo nome – non vede molto bene a causa di una retinite pigmentosa ma sa, al contrario, guardare benissimo. La sua visione incompleta gli permette di focalizzarsi su dettagli che ad altri sfuggono e di osservare con maggiore attenzione ciò che attira davvero il suo sguardo. È così che il bambino si accorge che l’ospizio Nontiscordardimè non è così accogliente come l’infermiera Thornhill vorrebbe far credere e che riesce a raccogliere indizi a sufficienza per smascherarla davanti a un pubblico importante.

Accompagnato da un fedele e insolito animale domestico, un maialino di nome Amleto, Milo affronta questa avventura come una questione privatissima e decisiva, per via dell’affetto smodato che prova per la nonna. Troppo maturo per la sua età, era lui a prendersene cura in casa facendo le veci di una mamma troppo occupata a districarsi tra il lavoro in crisi e un matrimonio fallito, e di un papà egoisticamente trasferitosi con l’amante a Dubai. Ma a poco a poco la sua battaglia diventa un vortice che, in misura diversa, tira in ballo i diversi personaggi con cui Milo entra in contatto: dalla cliente numero uno della mamma, al vicino fischiettante, dal nuovo inquilino di casa a (soprattutto) Tripi, il cuoco siriano della casa di riposo con una tormentata vicenda personale a familiare alle spalle.

Quel che è bello è in questo romanzo tutt’altro che smilzo di Virginia MacGRegor è che la malattia di Milo fa la sua parte senza forzare la narrazione, calamitare pietismi o subire edulcorazioni; che temi importanti e storie personali si intrecciano con grande naturalezza e gusto per l’incastro perfetto tra tasselli; e che i personaggi, dai più marginali ai più centrali, trovano occasione di emergere a poco poco, con una personalità sfaccettata, complessa e in definitiva umana.

Storia e soggetti sono molto godibili, insomma, e sanno suscitare emozioni variegate. Avrete modo di affezionarvi e indispettirvi, di trepidare e dissociarvi, di sorridere e piangere. Non scordate perciò i fazzoletti, soprattutto per l’intensa e commuovente sequenza finale, in cui un lungo addio molto sentito mette fine una fase importante della vita di Milo e segna l’inizio di un’altra. Tutto si chiude e tutto riparte: l’ultima pagina di Quello che gli altri non vedono riunisce una serie di momenti piuttosto tragici per il protagonista che ci appare però a quel punto così forte e consapevole, nonostante i suoi nove anni, da poter affrontare meglio di chiunque altro il mondo fattosi improvvisamente più buio.

Le parole giuste

Non è che a scuola, Emma, vada proprio forte. La dislessia, a lungo non riconosciuta, le causa un sacco di impicci sicché la pagella è un vero disastro. La popolarità, dal canto suo, segue a ruota soprattutto dopo che la protagonista fa a botte con Anna Clara e che gli insegnanti decidono di inserirla nel gruppi RPS – Recupero, Potenziamento, Sostegno. A completare il quadro manca solo una famiglia molto unita ma in un momento critico dovuto alla necessità di trapianto di reni del padre e della scelta della madre di fare da donatrice.

Voilà. Si capisce bene perché il mondo reale ed emotivo di Emma appaia scosso come un frappé e perché la dodicenne si ostini a cercare segni del destino, appigli e rassicurazioni in tutto ciò che le capita a tiro: le risposte della palla numero 8, il numero di macchine rosse incontrate, la velocità di discesa delle gocce sul vetro. Fino a quando segni, appigli e rassicurazioni non iniziano ad arrivare da persone in carne ed ossa che poco hanno in comune se non la capacità e il merito di trovare le parole giuste al momento giusto. In primis Alessandra, l’insegnante fuori dagli schemi che gestisce con tenacia e passione il gruppo RPS senza tirarsi indietro quando una richiesta di aiuto supplementare, psicologico o di ascolto, viene lanciata, urlata o sussurrata dai ragazzi. Ma anche Mathias, l’amico che insegna a trovare il lato buono delle sorprese e a scoprire l’importanza di condividere dolori e difficoltà ma anche risate e momenti spensierati. E poi, in ordine sparso, il papà, la mamma e la nonna che a scoppio ritardato e forse spinti (meno male!) dalle circostanze trovano la forza di dire quel che da molto tempo c’era da dire.

Ecco, passando attraverso un momento buio fatto di timori familiari, fallimenti scolastici e amicizie che si rompono, il racconto lungo testimonia una piccola rinascita, un puzzle che si ricompone, una frase che prende senso se ascoltata nella maniera più adatta. Con voce chiara e misurata tra tanti romanzi inutilmente roboanti, quello di Silvia Vecchini si candida a diventare uno dei libri-porta citati dalla professoressa Alessandra: quei libri che spalancano sguardi su mondi vicini o distanti, regalando al lettore che li incontra le parole – quelle giuste – per raccontarli e sentirli propri.

Sfida al buio

Carlo ed Eric sono da poco compagni di classe. Arrogante e iperprotetto il primo, studioso e diligente il secondo, i due non si sopportano e finiscono, un giorno come tanti, a fare a pungi nel bagno della scuola. La preside potrebbe sospenderli o cacciarli ma sceglie invece di ricorrere a una punizione inusitata: i ragazzi vengono invitati a partecipare agli allenamenti della squadra locale di torball: uno sport in cui, senza vedere, si vince segnando delle reti alla squadra avversaria.

Idea azzeccatissima, se si considera che la competizione non prevede l’uso della vista e che i ragazzi sono entrambi ciechi. Eric lo è dalla nascita e ha da tempo imparato a sfruttare al meglio gli altri sensi e a venire a patti con la sua condizione. Anche i suoi genitori mostrano un’abitudine e un rispetto per il figlio, così come per le sue difficoltà e le sue risorse. Carlo, invece, è diventato cieco a causa di un brutto incidente stradale. Per questo fatica di più a riconoscersi nei suoi nuovi panni, a trovare risorse alternative dentro di sé e a prendere le misure con una realtà che esiste solo al tatto. Lo stesso vale per i suoi genitori che, tra sensi di colpa e preoccupazioni esagerate contribuiscono a nutrire l’atteggiamento scontroso del figlio.

Sarà proprio il torball, sport poco noto ma molto praticato dai non vedenti, a portare i protagonisti a un punto di incontro e di svolta. Si badi bene: non che lo sport faccia miracoli trasformando Eric e Carlo in amici per la pelle, ma il fatto di avere un obiettivo comune e di dover fare squadra per raggiungerlo aiuta i ragazzi cosa ad avvicinarsi, riconoscersi e rispettarsi. Dopo le prime perplessità e i primi goffi allenamenti, i due ci prendono gusto e trovano nella partita amichevole d’esordio contro gli Scorpioni l’occasione ideale per dimostrare a sé stessi e agli altri le risorse inattese che la disabilità non condiziona.

Il libro di Luca Blengino ha proprio il merito di mostrare come si possa essere disabili, ciechi in particolare, e amare ciò che ama un qualunque adolescente: lo sport, le attenzioni, il sostegno familiare, le uscite con un amico o con una ragazza. E anche come si possa essere disabili e al contempo sensibili, attenti, solidali ma pure secchioni, arroganti, litigiosi o prepotenti. Perché il mito dei disabili dalla personalità piatta e perlopiù accondiscendente ha fatto ormai il suo tempo e c’è bisogno di storie come questa che lo raccontino in modo appassionato.

La mia Nina

Tommy e Nina sono fratelli: lui è più piccolo ma è più svelto, più responsabile e sa fare molte cose meglio di lei. Nina ha la sindrome di Down e Tommy, malgrado le voglia molto bene, non riesce a capacitarsi della sua diversità. Così fa domande su domande, mette alla prova la sorella, cerca di inculcarle nozioni complesse e si lamenta del fatto che le si facciano molte più concessioni. Fino a quando non si rende conto che alcune cose non hanno una causa da capire ma soltanto degli effetti da accettare. Sarà quello il momento in cui l’enorme affetto per Nina diventerà davvero incondizionato e sereno, al punto da far fare a Tommy una piccola follia per assecondare la passione della sorella per i treni.

 

Sebbene l’intento pedagogico e, in particolare, l’idea che tutti abbiamo abilità diverse, vengano sbandierati con un’insistenza forse troppo marcata, il libro ha il merito di partire da una fratellanza tutt’altro che scontata e dalle legittime domande infantili che una disabilità in famiglia porta con sé. I molti episodi di vita quotidiana raccontati – dalla scuola alla vacanza, dall’ora di cena alla gita in stazione – diventano così la trama sottesa a un instancabile interrogarsi sul “dove inizia l’uguale e dove finisce il diverso”.

Il delfino bianco

Nella baia in cui Kara è nata e cresciuta, in cui ha costruito con i suoi genitori l’amata barca Moana e in cui vive ora in ristrettezze economiche insieme al padre e agli zii, la barriera corallina e l’intero ecosistema marino sono in pericolo: alcuni uomini senza scrupoli – come il famigerato Dougie Evans – intendono dragare il fondo per sfruttarlo fino all’ultimo centimetro. E Kara, allevata a pane e rispetto per il mare, non può accettarlo. Sarebbe una rinuncia agli insegnamenti più importanti lasciati da sua madre, biologa marina scomparsa misteriosamente durante una missione per la salvaguardia dei delfini. Ecco perché Kara si attiva con forza quando un delfino rimane gravemente ferito a causa delle reti a strascico o quando il divieto di dragare i fondali marini rischia di essere tolto. Ci vorrà tutta la sua testardaggine e il supporto di amici attenti quanto lei alle tematiche ambientali, come il neoarrivato in città Felix, per riaccendere nella baia la speranza di un futuro più sostenibile.

 

La vera svolta nella vita di Kara arriva quando scopre In lingua maori delfino si dice Tepuih. Perché è lì, più o meno a metà del racconto, che la protagonista riesce finalmente ad accedere al contenuto della chiavetta USB lasciatale della madre, recuperando un nuovo preziosissimo ricordo di famiglia ma anche la forza necessaria per battersi per una giusta causa. Da quel momento gli eventi precipitano, avvicinandola a ritmo serrato a una possibilità di vita più serena, in cui godere di un rifugio speciale ed esclusivo per lei e per il padre; in cui rafforzare più che mai l’amicizia con Felix e in cui liberarsi dai fantasmi di un passato sospeso.

 

Le quasi duecento pagine del romanzo di Gill Evans traboccano di passione e conoscenza marina, risentono un po’ di quel mood melodrammatico tipicamente americano che carica il protagonista dell’“ultima possibilità” per salvare il pianeta, ma condensa un pezzo di vita preadolescenziale intenso e godibile. La vita di Kara non è facile ma si muove tra valori e passioni autentiche. L’agitazione dei 12 anni, quando le ragioni della realtà, della crisi e della contingenza valgono meno di zero o comunque meno di un ideale, di un ricordo o di un oggetto che li racchiuda simbolicamente, trova qui largo spazio e prepara un terreno fertile per una viva identificazione da parte del giovane lettore.

 

La disabilità, senza pretendere di essere il tema del romanzo, vi entra più di una volta e da più di una porta: attraverso la dislessia della protagonista e attraverso la difficoltà motoria, conseguenza di una paralisi cerebrale infantile, del suo amico Felix. La prima figura di striscio, senza grosso rilievo narrativo. La seconda, invece, compare più incisivamente, contribuendo a delineare un personaggio complesso come quello di Felix, ad agitare sentimenti forti nei personaggi e nel lettore e a promuovere l’idea che ci siano contesti (come il mare) e attività (come lo spor) che appianano meglio di altri le diversità imposte dall’handicap. L’impatto è onestamente positivo e capace di restituire alla disabilità una dignità piena.

Io no!… o forse sì

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Scovare ottimi scrittori americani e portane i titoli in Italia: imbarcata da qualche tempo in questa intrigante impresa, la casa editrice Biancoenero infila instancabile una chicca editoriale dietro l’altra. Dopo Thomas Rockwell (Come mangiare vermi fritti e Come diventare favolosamente ricchi) è ora il turno di David Larochelle, autore del bellissimo Io no! …o forse sì: il ritratto palpitante e sorridente di un’adolescenza tormentata e di una sessualità in via di definizione.

Insignito di numerosissimi premi, il libro racconta del sedicenne Steven e del percorso che compie per arrivare a capire prima, accettare poi e condividere infine la sua identità omosessuale. Al suo fianco, l’originale e tenace Rachel, amica fidata e leale che lo aiuta a riconoscere e incoraggia a prender coscienza della realtà che tanto lo intimorisce. Intorno a lui, poi, c’è una sfilza di personaggi più o meno marcati che caricano e spingono la sua altalena emotiva: i genitori che prima negano l’evidenza ma poi, timidamente, sorprendono, il professor Bowman che legge International Male ma che ride alle battute omofobe, il carosello di ragazze che Steven frequenta nel tentativo di attivare la sua mascolinità e la squadra di hockey della scuola con i suoi fusti che nascondono, a loro volta, dei segreti. Su questo sfondo, Steven cerca una propria dimensione in quel calderone di emozioni alla rinfusa che è l’adolescenza. Andando a caccia di qualche appiglio – amici, familiari o professori – che gli possa offrire un sostegno, una pista, un confronto, una rassicurazione, il protagonista ne fa di ogni sorta (dal rifornirsi di obsoleti saggi sull’educazione sessuale dei figli all’andare al ballo studentesco con un cane invece che con una dama) prima di arrivare a conoscersi e farsi conoscere davvero. Il suo è un racconto estremamente ironico e insieme puntuale: un reportage “interiore” fedele e personale, credibile e appassionato, emozionate e divertente, di un periodo della vita che è già un garbuglio di per sé e che si intrica ancor di più se un orientamento sessuale ci si mette di mezzo. Il libro di Larochelle è insomma un’occasione preziosa e tutt’altro che sprecata per raccontare una storia viva e coinvolgente, che tocca sul vivo gli animi adolescenti (e non solo) di qualunque orientamento sessuale e accende fari importanti su tematiche di scottante attualità (è vero, il libro è uscito in America 10 anni fa ma il nostro paese, così arrancante in fatto di diritti civili, ha bisogno di un po’ di tempo per mettersi in pari…).

Destinato ad un pubblico più maturo rispetto al solito, Io no! …o forse sì! non rinuncia ai criteri di alta leggibilità che contraddistinguono il catalogo e il credo della casa editrice romana. Sbandieratura a destra, carta opaca e color crema, interlinea maggiore e font specifico (biancoenero) per dislessia non mancano infatti, benché la dimensione del carattere sia più piccola, in linea con gli standard di pubblicazione per ragazzi ormai cresciuti. Sarà interessante, a questo proprio, registrare i feedback, in termini di leggibilità, dei diretti interessati. Quel che è certo è che se un giovane lettore, magari dislessico, si cimenta con un volume così corposo e con un testo così minuto, è perché ha imparato a non temere sfide di lettura crescenti e ha trovato, forse, in precedenza in volumi più semplici ad alta leggibilità, i supporti indispensabili per consolidare le proprie abilità e passioni di lettura.

Mamma e papà oggi sposi

Lo spirito poetico e fantasioso di Beniamino, personaggio uscito dalla penna leggera e pensosa di Vincent Cuvellier, è noto ai fedelissimi della collana Zoom di Biancoenero. Già ritratto durante insolite gite in compagnia dell’autista di pullmino o divertenti micro-avventure scolastiche, Beniamino partecipa qui alle nozze dei suoi genitori, insolitamente celebrate quando la sua è l’età di un ragazzetto fatto e finito.

Attraverso il suo sguardo acuto e sognante, assistiamo ai momenti intensi e intimi che precedono e seguono la cerimonia, saggiamo accenni di storie personali di cui gli invitati si fanno dono, ci avviciniamo a personaggi di contorno che ritraggono a dovere pregi e difetti di un’intera società. Nel corso di una narrazione piacevole e sorridente trovano così posto, in una maniera che è proprio tipica dell’autore francese, temi caldi come la discriminazione sessuale (suggerita dal ruolo di un sindaco donna), razziale (ispirata dalla presenza di un prete nero) ed etnica (servita insieme a un bel piatto nuziale di tajine di pollo con le prugne).

Lo stile lieve di Cuvellier è d’altra parte funzionale anche a incentivare la lettura tra i giovanissimi riluttanti. Ecco perché Mamma e papà oggi sposi va a nozze – è proprio il caso di dirlo – con i criteri di alta leggibilità secondo i quali è stampato e trova degnamente posto all’interno di una collana ben pensata per avvicinare alla lettura anche i ragazzi che si sentono meno portati o che sperimentano maggiori difficoltà legate alla dislessia.

Io e mio fratello

Nel bel libro di Isabel-Clara Simò, scrittrice catalana pluripremiata, ci sono prima di tutto un fratello adulto con la sindrome di Down e una sorella dodicenne che se ne prende cura. Il resto della famiglia – padre militare e madre mondana – sono fisicamente presenti ma a tutti gli effetti piuttosto assenti dalla vita dei due figli. Per chi ha letto Mio fratello Simple di Marie-Aude Murail, questo quadro risulta a tratti familiare e noto, ma Io e mio fratello rivendica una personalissima originalità adottando il punto di vista di Mercé (la piccola di casa che si improvvisa grande), raccontando in maniera più intima il trauma di un handicap in famiglia e riprendendo, senza sconti linguistici o narrativi, una quotidianità piuttosto travagliata.

Nelle 122 intense pagine del romanzo, la protagonista Mercé rende conto dei suoi pomeriggi al contempo abitudinari e spiazzanti in compagnia del fratello Paul, della sua passione per il teatro, del suo senso di inadeguatezza nei confronti della migliore amica e della sua frustrazione nel farsi carico di una situazione familiare insolita e tutt’altro che banale. Poi, quando meno te lo aspetti, trama e routine subiscono un’inattesa svolta: Paul si innamora di Maria, la figlia della domestica di casa, anch’essa affetta dalla  sindrome di down.  A quel punto i contrasti familiari si inaspriscono, le questioni legali e burocratiche fanno capolino (rallentando, in effetti, un po’ il ritmo narrativo) e la realtà viene a chiedere di pagare il conto. E lo fa nella maniera più brusca possibile, non solo nei confronti dei personaggi ma anche del lettore che, dopo aver sorriso a lungo di fronte all’ingenuità brillante di Paul e alla schiettezza pungente di Mercé, si trova incredulo a scorrere un’ultima e disorientante pagina.

Forte di uno stile incalzante e verace, Io e mio fratello ritrae efficacemente la complessità emotiva e psichica che contraddistingue i giovani con sindrome di Down e che troppo spesso viene trascurata in nome di uno stereotipo di costante e inscalfibile contentezza.  Allo stesso tempo, l’autrice fa emergere prepotentemente i tormenti interiori di chi di giovani come Paul si prende cura, giorno dopo giorno. In quel suo imprecare e ricordare di frequente che ha “soltanto dodici anni”, Mercé sottolinea la sua difficoltà di vivere una maturità che la sua età non richiederebbe e che ciononostante, per necessità, si sforza di mettere in campo. I suoi sentimento contrastanti affiorano vulcanicamente nelle piccole e grandi sfide quotidiane che vanno dal seguire il fratello Paul al posto di fare i compito al gestirne l’emotività durante l’inatteso innamoramento. Dalle sue parole trasudano un affetto smisurato e un fastidio che mai si dissocia dal senso di colpa. Le sue giornate sono costellate di rimuginazioni, sbuffi, atti di dedizione e pazienza e sacrifici. “Un conto è volergli bene – afferma a un certo punto, lucidamente, la ragazzina – un altro sono queste rinunce che, oltretutto, nessuno apprezza perché nessuno nota”. La richiesta di attenzione, supporto e riconoscimento non potrebbe essere più esplicita e contribuisce a fare di Mercé, oltre che di Paul, un personaggio straordinariamente incisivo e difficile da dimenticare.

Come diventare favolosamente ricchi

Chi (come noi) ha divorato con gusto Come mangiare vermi fritti non può che accogliere con il sorriso il nuovo romanzo di Thomas Rockwell, pubblicato ad alta leggibilità da Biancoenero. In Come diventare favolosamente ricchi tornano infatti in scena Billy, Tom, Alan e Joe, alle prese con una nuova scommessa, una vincita milionaria e tanti dubbi su come investire un bel gruzzolo.

Billy gioca alla lotteria (malgrado il divieto) e si cucca 410.000 dollari grazie a una serie di numeri fortunati suggeriti dall’inconsapevole sorellina. Le cose, tuttavia, non vanno favolosamente come aveva immaginato: nessun privilegio a scuola, nessun motoscafo per schizzare sul lago e nessuna parata in suo onore per la città. Al contrario, tra lui e i suoi amici si insinua la zizzania della cupidigia, scatenando litigi che coinvolgono genitori, fratelli e persino avvocati di famiglia. Sarà l’arte del compromesso e un ritrovato senso delle priorità a portare i ragazzi a un “ricco” lieto fine. 

In linea con l’avventura precedente, Come diventare favolosamente ricchi dipinge una vicenda al contempo eccezionale ma semplice, in cui i pensieri, i sentimenti e le inclinazioni dei ragazzini protagonisti hanno un sapore autentico nonostante lo sfondo di 30 anni fa. Certo, la storia dei vermi fritti ha dalla sua un appeal del tutto unico, ma anche qui Thomas Rockwell sa divertire e solleticare la fantasia con uno stile snello e spiritoso: una marcia in più non da poco per incentivare giovani lettori riluttanti o in difficoltà a tuffarsi a capofitto nel mare della lettura.

Da Mary taglio e piega

Solo chi ha capelli ribelli può davvero capire il tormento di Mary che, stufa di avere in testa una chioma imbizzarrita, decide di dare in autonomia un taglio (nel senso più letterale del termine!) al suo problema tricologico.

L’auto-acconciatura della riccioluta protagonista di Da Mary taglio e piega non è che l’inizio di una serie di guai ma anche di amicizie inattese, come quella con Colin Rochfort, il bambino a cui cola sempre il naso e che a sorpresa si rivela affidabile e degno di una chance, anche da parte di una tipa tosta come la protagonista. Intraprendente e creativa, Mary è davvero un personaggio rock&roll che non solo si rapa la testa in barba alle decisioni dei genitori ma si fa anche portavoce di tutte quelle bambine che da tempo hanno rinunciato agli stereotipi principeschi per giocare a “Barbie salva la terra dal buco dell’ozono “ e “Barbie vince il titolo mondiale di Boxe”!.

Da Mary taglio e piega è pubblicato da Sinnos in un formato piccolo, pratico e maneggevole che sembra fatto apposta per contenere storie irresistibili come questa, da sbocconcellare dove capita. Il libro inaugura la collana Leggimi! A colori che mantiene i criteri di alta
leggibilità già sperimentati dalla casa editrice e li unisce a storie buffe, colorate e adatte a un pubblico di lettori alle prime armi.

Scappiamo!

La piccola saga di disavventura scolastiche e domestiche firmate da Vincent Cuvellier non si arresta. E meno male! I brevi racconti del bravissimo autore francese offrono infatti piacevoli passeggiate letterarie, poco impegnative ma piene di gusto. Come i precedenti, anche Scappiamo!  fotografa piccoli eventi quotidiani di poco valore, trasformandoli nello spunto per allargare l’obiettivo, seguire le reazioni e le relazioni che essi innescano e toccare di sfuggita (ma non troppo) temi belli corposi.

Qui si legge in particolare di Beniamino che, obbligato dalla maestra a portare i compiti all’incidentato Gustavo, si trova a costretto a interagire con il compagno. E ciò che scopre è che quel bambino che tutti – lui compreso – prendono in giro perché “ha una testa da vecchio, un nome da vecchio, vestiti da vecchio”, condivide con lui una situazione familiare “particolare”. Giorno dopo giorno, visita dopo visita, i due iniziano a entrare in un’inattesa confidenza fino a una liberatoria fuga dalla finestra di casa…

Sullo sfondo ma con grande lucidità, trovano spazio i temi caldi della separazione tra genitori, della sofferenza che essa si porta appresso e della consapevolezza, talvolta inaspettata, che i bambini maturano in merito. Vincent Cuvellier sceglie di raccontare così una situazione tanto diffusa e tanto complessa, trovando il giusto equilibrio tra la schiettezza dei sentimenti e la leggerezza della narrazione.

Antonio e le cose dei grandi

Sono tante e diverse le cose che toccano chi diventa grande: i primi amori, il passaggio alla scuola media, la conquista di una stanza tutta per sé, i trasferimenti, i pensieri sul futuro. Tutte esperienze con cui Antonio se la deve vedere, arrivato alla soglia dei dodici anni. Il personaggio creato da Angelo Petrosino giunge così alla sua seconda avventura, intitolata non a caso, Antonio e le cose dei grandi.

Quella che l’autore racconta qui è una fase di crescita delicata, da lui profondamente conosciuta grazie alla decennale esperienza di maestro elementare. Lo fa attraverso dodici capitoli infilzati l’uno dietro all’altro come perline di una collana, senza che vi sia una reale e complessa trama di base.  Quasi come un diario, il libro riporta episodi variegati, un po’ legati e un po’ no, che scorrono via facilmente, supportati in apertura da anticipazioni a fumetti. Il risultato è un collage di quotidianità e avventure insolite – a scuola, in città, in vacanza, in casa – sullo sfondo di una Torino sempre cara all’autore e sempre ben riconoscibile.

Rispetto al primo romanza della serie, la dislessia da cui Antonio è affetto trova qui minore spazio, facendo perlopiù capolino nel timore che i nuovi professori possano disconoscerla e affrontarla malamente. Al pari del primo però, questo libro vanta una stampa ad alta leggibilità Easyreading che invita alla lettura anche i ragazzi che conoscono il disturbo dell’apprendimento per esperienza diretta.

 

Antonio e le cose dei grandi

Sono tante e diverse le cose che toccano chi diventa grande: i primi amori, il passaggio alla scuola media, la conquista di una stanza tutta per sé, i trasferimenti, i pensieri sul futuro. Tutte esperienze con cui Antonio se la deve vedere, arrivato alla soglia dei dodici anni. Il personaggio creato da Angelo Petrosino giunge così alla sua seconda avventura, intitolata non a caso, Antonio e le cose dei grandi.

Quella che l’autore racconta qui è una fase di crescita delicata, da lui profondamente conosciuta grazie alla decennale esperienza di maestro elementare. Lo fa attraverso dodici capitoli infilzati l’uno dietro all’altro come perline di una collana, senza che vi sia una reale e complessa trama di base.  Quasi come un diario, il libro riporta episodi variegati, un po’ legati e un po’ no, che scorrono via facilmente, supportati in apertura da anticipazioni a fumetti. Il risultato è un collage di quotidianità e avventure insolite – a scuola, in città, in vacanza, in casa – sullo sfondo di una Torino sempre cara all’autore e sempre ben riconoscibile.

Rispetto al primo romanza della serie, la dislessia da cui Antonio è affetto trova qui minore spazio, facendo perlopiù capolino nel timore che i nuovi professori possano disconoscerla e affrontarla malamente. Al pari del primo però, questo libro vanta una stampa ad alta leggibilità Easyreading che invita alla lettura anche i ragazzi che conoscono il disturbo dell’apprendimento per esperienza diretta.

Indovina chi ha ritrovato Orsetto

Indovina chi ha ritrovato Orsetto è un elogio silenzioso ai dettagli apparentemente senza valore. Come le tracce nella neve che, a prima vista insignificanti, possono in realtà svelare a chi le osservi con cura molte cose a proposito di chi le ha lasciate. Le tracce del libri di Gerda Muller raccontano per esempio di una passeggiata di tre persone nel bosco, di piccole deviazioni per raccogliere frutti, di girotondi intorno agli alberi, di soste per riposarsi e di sofisticate operazioni per costruire capanne. Ma lo fanno senza dire una parola così che il lettore possa divertirsi a seguire le orme e a indovinare le storie che esse celano e rivelano allo stesso tempo.

Così, raccogliendo gli indizi che l’autrice non manca di disseminare lungo le pagine, ci si ritrova a seguire una mamma premurosa e due bambini curiosi in gita sulla neve, riconoscendone via via l’andatura, gli interessi e i percorsi. Ma non è tutto. Come volendo strizzare l’occhio al lettore fino alla fine, l’autrice attribuisce particolare valore a quelle parti del volume normalmente bistrattate, come la terza e la quarta di copertina. È proprio qui, infatti, che si concentra il maggior numero di soffiate sul senso della storia, come la possibilità di conoscere i personaggi e di scoprire (o verificare se si è già stati molto bravi) le loro azioni.

La bambina, il cuore e la casa

Sullo sfondo di un’Argentina sonnacchiosa e malinconica si distende indolente la vita di Tina e della sua famiglia. Ogni domenica la protagonista de La bambina, il cuore  e la casa parte con il papà dalla dimora in cui i due vivono per raggiungere la mamma e il fratellino Pedro, che abitano invece fuori città. La domenica è quindi per lei il giorno degli affetti, del gioco, dei piccoli piaceri condivisi e della completezza familiare. Quando cala la sera, però, seguendo un tragitto contrario, Tina e il papà riprendono la via di casa in attesa che i sette giorni successivi passino più in fretta possibile. La distanza e gli arrivederci infliggono ogni volta piccole ferite che ognuno rielabora alla sua maniera: con profonda e fiacca tristezza, per esempio, la mamma, e con cocciuta e ostinata ribellione, Tina. Sarà proprio quest’ultima, con l’entusiasmo curioso e coraggioso dei suoi cinque anni, a interrogarsi per prima sulla reale necessità della famiglia di vivere separata e a insistere per sperimentare un’alternativa là dove l’arrendevolezza degli adulti rendeva impossibile persino vederla.

In questo racconto di quotidianità rinnovate, trova uno spazio insolito la figura di Pedro. Intorno alla sua malattia che malattia poi non è – la sindrome di Down –  ruotano molte delle decisioni spesso incomprensibili della famiglia di Tina. Ma lo fanno con quella vaghezza diffusa che impedisce alla protagonista così come al lettore di comprendere esattamente quale sia il problema. Per questo, nel fluire coinvolgente della narrazione, rimane della disabilità un piccolo e autentico ritratto: il ritratto di qualcosa che difficilmente trova una definizione emotivamente accettabile, che genera distacchi e avvicinamenti più o meno consapevoli e che non cessa di generare domande, talvolta insolute.

Maria Teresa Andruetto racconta tutto questo con uno stile inconfondibile, profondamente sudamericano e capace di rendere la narrazione melodiosa come una nenia. In quello stile confluiscono tutti i racconti della sua infanzia e tutto il sapore di una storia familiare tormentata e insieme permeata di affetti. La sua cifra – proprio quella che forse le è valsa il prestigiosissimo Hans Christian Andersen Award 2012 – sta proprio nella capacità di dare un ampio respiro alla sua scrittura intercettando tuttavia il succo emotivo più caro all’infanzia.

Ti racconto… 5 storie con i segni

Cinque storie da raccontare con le parole e con le mani, da leggere e da guardare, da scoprire per imparare e per condividere. Il progetto editoriale proposto dalla Cooperativa romana Le Farfalle narra infatti in Lingua Italiana dei Segni cinque famosi albi illustrati editi da Lapis e Babalibri: un modo straordinariamente semplice ed efficace per far sì che il patrimonio fantastico dei bambini possa superare le barriere linguistiche.

Grazie al DVD in cui un segnastorie racconta in LIS, anche i bambini sordi hanno modo di far propri i personaggi di Zou la zebra e di Marco l’orsetto o di seguire con passione le piccole scoperte di uova di tartaruga o di piccoli pettirossi. Per ogni storia, le pagine dell’albo originale scorrono sullo sfondo e il lettore può scegliere il livello di difficoltà dei sottotitoli, accordandolo alla sua competenza linguistica e alle sue specifiche esigenze.

In questo modo il testo scritto cessa di costituire un ostacolo per divenire piuttosto un elemento da scoprire progressivamente, che si arricchisce via via arricchendo di riflesso il bagaglio del lettore. Non a caso gli stessi curatori del DVD invitano caldamente all’utilizzo del supporto multimediale insieme al volume vero e proprio, per far sì che l’esperienza della lettura si arricchisca di strumenti di comprensione indispensabili, come la traduzione in LIS, ma non perda il fascino del rapporto tra parole e immagini e soprattutto la possibilità di essere condivisa con familiari e compagni.

Ecco, in estrema sintesi, il contenuto delle storie incluse nel dvd:

Ho trovato un pettirosso narra dell’amicizia tenera e bislacca tra un bambino e un pettirosso, nata in una fredda e nevosa sera d’inverno. Privo di parole, l’albo racconta attraverso le sole immagini il ritrovamento dell’uccellino e le cure che il bambino gli riserva.

Che meraviglia è la storia di una piccola grande scoperta fatta in spiaggia da una bambina curiosa: il ritrovamento fortuito di uova di tartaruga. Il volume, che è totalmente privo di testo, è recensito nel catalogo a questo link.

No, no e poi no parla di capricci e di emozioni attraverso il personaggio di Marco, un orso che dice no a tutto – maestra, giochi e caramelle – fino a che un gesto speciale non gli fa cambiare dolcemente idea.

Zou racconta dell’esuberante e omonima zebra, desiderosa di svegliare i genitori per affrontare insieme a loro una giocosa giornata. Ma cosa accade se i genitori sonnecchiano ancora? E se i tentativi di destarli rischiano di diventare pasticci?

Ti ho visto è la storia buffa di una torta da consegnare e dei piccoli incidenti di percorso che costringono Paolino a mangiarla prima di arrivare dalla nonna.

Devo Solo Attrezzarmi

Irene e Marco sono due giovani determinati e agguerriti che hanno imparato a trattare con serenità la dislessia da cui sono affetti e che si spendono molto per permettere a ragazzi come loro di sperimentare un percorso analogo. La loro esperienza, che diffondono grazie alle attività dell’associazione Pillole di Parole, è confluita anche in un libro dal titolo eloquente Devo Solo Attrezzarmi.

Lontano anni luce da qualunque pretesa letteraria, il volume ha se non altro il pregio di contenere un racconto che richiama vicende ed emozioni realmente vissute dagli autori. I temi chiave della famiglia, degli amici e della scuola, del ruolo che ciascuno di essi gioca nella vita di un ragazzo dislessico, dell’importanza del confronto con i pari e dell’informazione emergono così a gran voce e arrivano efficacemente al lettore, con evidenti effetti benefici quanto alla sensibilizzazione sul tema dei DSA.

Castelli di fiammiferi

Ci sono esistenze delicate e instabili come una costruzione di fiammiferi, composte da strati infiniti di gesti e dettagli quotidiani, sovrapposti con pazienza l’uno all’altro, che richiedono cure e attenzioni senza posa, che non ammettono distrazioni e cedimenti e che concedono sottili spiragli di soddisfazione solo a chi sappia coglierne il valore con sguardo minuzioso e attento. Così è l’esistenza di Lisa che, chiusa in un silenzio angosciante imposto dall’autismo, influenza inevitabilmente chi la circonda e chi cerca con irriducibile perseveranza di far breccia nella sua roccaforte. Come Jan, che di fronte alla diversità muta e al contempo invadente della sorellina reagisce con impegno, con amore, con dolore, con sensibilità e anche con rabbia.

È suo il punto di vista accolto dalla storia e sono sue tutte le sfumature dell’emozione – dalle più impalpabili alle più intense – che il libro firmato da Bettina Obrecht prova a restituire. Sue sono le parole moltiplicate e amplificate, fino a coinvolgere anche esseri inanimati come gli elettrodomestici o i pupazzi, che fanno da contraltare alle parole assenti di Lisa e che esprimono a gran voce tutto il bisogno di ascolto non solo di chi sperimenta direttamente una disabilità ma anche di chi se ne fa indirettamente a appassionatamente carico. Attraverso gli episodi della vita quotidiana, i desideri palesati e inespressi, le vacanze dai nonni e l’incontro confortante con Carla che vive un’esperienza simile alla sua, Jan si fa portavoce di un mondo contrastante e contrastato quale quello dei fratelli dei bambini con disabilità, che invita a guardare con occhio tutt’altro che superficiale.

Una vita da somaro

Quella di Una vita da somaro, è una storia di animali e di umani, di silenzi e di aperture, di sforzi taciturni e di piccole conquiste. È la storia di un bambino curioso e del suo nonno mulattiere, dell’infaticabile mulo Giardino che prima trasportava tronchi e ora porta i libri nelle scuole, di un compagno nuovo e strano, che non dice mai nulla e sembra assente.

Attraverso parole delicate, Daniela Valente racconta di mondi spesso dimenticati, per ragioni diverse: quello del lavoro fisico nei boschi a contatto con la natura e la fatica, quello degli animali che umilmente accompagnano l’attività umana, quello dei paesi di poche anime dove l’accesso alla cultura è un diritto che stimola l’ingegno, e quello dell’autismo che necessita di stimoli e cure ma anche di rispetto ed empatia.

Un libro essenziale e sensibile in cui le cose non accadono con ritmo frenetico, riempiendo la trama di eventi e colpi di scena, ma dove ambiente e personaggi invitano a prendersi il giusto tempo per assaporare anche le piccole cose di ogni giorno.

Peter Nimble e i suoi fantastici occhi

Peter Nimble è il protagonista che ogni lettore spericolato e appassionato vorrebbe incontrare sulla sua strada: un protagonista dalla vita non facile ma dalle abilità straordinarie, in possesso di una scatola di occhi magici – d’oro, di onice e di smeraldo -, in contatto o in conflitto con creature fantastiche e immerso in mondi sorprendenti in cui deserti vastissimi, rocche abbandonate, cunicoli sotterranei e castelli inviolabili si intersecano e si incontrano.

Cieco e orfano, Peter apprende fin da piccolissimo la sottile arte del furto sicché nodi e lucchetti diventano il suo pane quotidiano. Impara l’arte e la mette da parte, Peter: così, una volta sfuggito alle grinfie del perfido Mr Seamus che lo sfrutta e lo maltratta, può utilizzare il suo talento per una missione di alto valore, delicatissima e segreta, i cui tasselli si compongono man mano come in un puzzle da mille pezzi.

La trama avvincente e complessa, che strizza l’occhio ai grandi romanzi di formazione, fa di questo libro un’autentica delizia narrativa, in cui la disabilità, travolta dall’atmosfera fantastica, non manca di incuriosire, stimolare, stupire e appassionare.

Storie con la CAA 2

Le storie di Anna, Marco e degli altri protagonisti del cofanetto Storie con la CAA 2 sono storie di vita quotidiana: storie di gioco, di altalene, di capricci, di biciclette, di minestre, di paure e di somiglianze in famiglia. Sono storie che, con semplicità e ironia, toccano da vicino tutti i bambini e proprio per questo è bello pensare che tutti  bambini possano in esse riconoscersi. Ecco perché l’idea di trasformarle in libri in simboli WLS, accessibili anche in caso di autismo e di disturbi della comunicazione, pare calzare a pennello.

L’iniziativa è firmata dalla casa editrice Erickson, da anni attenta alle tematiche dell’handicap, che propone un secondo cofanetto, dopo Storie con la CAA 1, composto da tre mini-volumi. Accomunati da una struttura snella, da una grafica essenziale e buffa e da una cura lessicale, sintattica e narrativa attenta ai bisogni di giovani lettori con difficoltà espressive, i tr libretti offrono uno strumento pratico e davvero spendibile per allargare le possibilità di lettura a chi normalmente ne viene escluso e per incuriosire con un linguaggio efficace chi alla lettura inizia ad avvicinarsi.

Il bambino di vetro

II bambino di vetro è una storia d’altri tempi, sia nei modi sia nei contenuti. È un racconto ricercato e fine, che parla di avventure coi calzoni corti, di battaglie con gli elastici, di scontri tra bande di quartiere e di cartelle di cuoio per andare a scuola. È un romanzo che affonda le radici in un’Italia un po’ sbiadita che le illustrazioni in bianco e nero di Marco Somà sottolineano a meraviglia.

Il protagonista è Pino, un bambino di famiglia benestante e affetto da una strana e mai nominata malattia che gli impedisce di sperimentare ogni diletto tipico dell’infanzia senza rischiare di finire in ospedale. Il suo fisico delicatissimo lo obbliga perciò a vivere in un mondo del tutto immaginato o visto sempre dal di fuori, che trae vitale nutrimento dalle peripezie di carta dei libri d’avventura. I genitori e la nobilissima nonna si prodigano, infatti, per proteggere la sua incolumità a costo di rendere la sua vita una sorta di  ologramma privo di spessore. Ma un certo punto arriva Marco, con la sua banda di ragazzi dalle ginocchia sbucciate e dai sentimenti nobili, che con la forza di un’amicizia autentica rivela l’importanza di una vita che accolga e rispetti la malattia senza però permetterle di avere un ingiustificato sopravvento.

Quella del bambino di vetro, insomma, è anche e soprattutto una storia senza tempo, che difende il valore dell’immaginazione, e dunque della letteratura, come prolungamento della vita reale, ma che mette anche in guardia dal sacrificare quella stessa vita reale sull’altare di timori esagerati e di pregiudizi inconsapevoli. Attraverso una scrittura appassionata, le avventure vecchio stile del giovane protagonista diventano così la cornice di una riflessione di più ampio respiro sulla malattia e sull’importanza che, nelle condizioni da essa imposte, possono assumere gli stimoli offerti dalla fantasia e dal coraggio non solo del malato ma anche di chi lo circonda.

I disegni della principessa Annabella

Ci sono libri che sfoggiano validi intenti e buone idee ma che rischiano di smarrire gli uni e le altre lungo la strada. Sono libri che si concentrano forse troppo su un tema da trattare, che tradiscono tono e genere prescelti o che affiancano con cura singhiozzante il testo scritto alle illustrazioni. Ecco, I disegni della principessa Annabella sembra proprio uno di questi: si scorge, in effetti, in questo albo illustrato una storia di diversità delicata e a misura di bambino, ma un moralismo troppo diretto sgonfia la vaporosità della cornice fiabesca.

La storia è quella della giovane principessa Annabella, fortemente  voluta dal re e dalla regina, manifestamente diversa dagli altri bambini, straordinariamente abile con i pastelli colorati e le facce buffe tanto da far tornare il sorriso all’inconsolabile re Guglielmo.  Semplice nella ciccia e nella crosta, questo racconto sorridente di Peggy Van Gurp cede purtroppo alla tentazione di lanciare messaggi espliciti e rinuncia a illustrazioni che carichino di senso nuovo le parole, raccogliendo solo in parte la bella sfida di raccontare la sindrome di Down attraverso l’immaginazione.

In fuga con la zia

Imprevedibile e incontenibile, zia Ubalda è una carica esplosiva di entusiasmo e vitalità. Una bomba, insomma. Le piace smodatamente tutto ciò che è rosa tenero e coccoloso, spiazza con le sue risposte ironiche e non convenzionali e non ha paura di dire o fare ciò che le passa per la zucca, anche a costo di scatenare imbarazzi e risolini. Come quando recita una poesia sulle puzzette al raffinatissimo compleanno della sorella o quando interroga la vicina di treno sui suoi strepitosi tatuaggi. Ubalda è così: simpatica e divertente per la nipote Sara, buffa e rimbambita per il cognato, nonché papà di Sara, disabile mentale non indipendente per la sorella nonché mamma di Sara. Una persona, molte interpretazioni. Dove starà la realtà? Probabilmente nel mezzo ma un po’ più spostata verso Sara, si direbbe.

Sara è in effetti l’unica della famiglia a considerare la zia come una persona, certo un po’ stramba e necessitante di attenzioni, ma capace, desiderosa e soprattutto degna di esprimere la propria personalità, di prendere le proprie decisioni e di fare i propri errori. Una persona che come tutte le altre ha voglia e diritto di fare le cose che piacciono ai suoi coetanei come andare in vacanza con gli amici o fare shopping. Il suo è un mondo tutto particolare, condiviso con gli originali coinquilini della comunità in cui vive e aperto a conoscenze sempre nuove: un mondo che a fatica sopporta le restrizioni, i timori e i progetti costrittivi della sorella, che vorrebbe sistemarla in una struttura più controllata.

Così, Ubalda inizia un viaggio avventuroso con la nipote per fuggire ai piani di trasferimento predisposti per lei. Sarà un viaggio breve ma portentoso, capace di frantumare, come una mossa di jujitsu ben assestata, una fitta serie di pregiudizi che spesso circondano i disabili mentali: che siano sempre felici, per esempio, o che non abbiano bisogno di provare emozioni, soddisfazioni ed esperienze. Il risultato è una riflessione intelligentemente sorridente, che sparpaglia spunti senza predicozzi ma con una buona dose di spasso e irriverenza.

 

La ragazza Chissachì

Ci sono scrittori che trovano modi straordinari di raccontare temi scomodi e ci sono editori accorti che quegli scrittori li scovano in mezzo a mille con una lungimiranza invidiabile. Ecco, Beisler è proprio quel tipo di editore: controcorrente, impegnato su temi sociali e appassionato collezionista di chicche letterarie da proporre ai giovani lettori. Lo dimostra una volta di più con La ragazza Chissachì, lo splendido romanzo di Sarah Weeks che prova a raccontare una disabilità insolita: quella che non colpisce i bambini in prima persona ma entra nella loro vita attraverso un genitore con handicap. Una disabilità tanto difficile da capire, accettare e metabolizzare quanto misconosciuta dalla letteratura per l’infanzia.

La ragazza Chissachì, che dà il titolo al volume, è una mamma che, colpita da un forte disturbo cognitivo, dimostra meno anni e autonomia della figlia dodicenne, conosce ed esprime 23 parole in tutto e in una di esse – Suff – condensa il suo misterioso passato. Affidandosi a questa parola, preziosa e indecifrabile, a un rullino di foto inaspettatamente rinvenuto e a una rara combinazione di coraggio e fortuna, la figlia Heidi si metterà sulle tracce di quel passato per ricomporne i pezzi e dare un senso a una vita così marcatamente diversa dalla norma. Il suo sarà un viaggio lungo e pieno di ostacoli come nella miglior tradizione dei romanzi di formazione, ma anche ricco di incontro fortuiti e fortunati che sembrano premiare la magnanimità, come nella più tradizionale delle fiabe.

Quel che accade è che, travolti da una scrittura densa e lucida, ci si trova a confrontarsi con la durezza di una disabilità che ribalta i ruoli ma anche con la dolcezza di un amore autentico e profondo che restituisce il giusto valore al ricordo, alle emozioni e all’essere protagonisti a proprio modo della propria storia.

Il tatto del re

Un re saggio e benevolo che invecchia, due figli gemelli tanto simili nell’aspetto quanto diversi nell’indole e un trono prestigioso da ereditare: gli ingredienti per una fiaba doc, gustosa e affascinante, ci sono tutti. Se poi si aggiunge anche la penna navigata e melodiosa di Roberto Piumini il gioco è fatto. Il risultato sarà un testo semplice ma squisito, capace di raccontare una storia dal sapore antico in cui la disabilità si integra agli altri elementi con apprezzabile naturalezza.

Il vecchio sovrano si ammala, infatti, proprio all’inizio del racconto e la sua improvvisa cecità offre al figlio malvagio l’occasione ghiotta di succedere al trono con l’inganno. Ma qualcosa va storto nel piano del perfido Moriarto e proprio la sensibilità ad occhi chiusi  sviluppata dal re finisce per consentire la scoperta e il ribaltamento dell’imbroglio.

L’handicap diventa dunque, un’autentica occasione tanto a livello narrativo quanto a livello umano: da un lato infatti si fa chiave della trama e dall’altro suggerisce il valore dei sentimenti a fianco dell’esperienza. Nonostante il contesto fantastico l’autore non cede alla tentazione di trasformare la disabilità in un superpotere ma preferisce sottolineare piuttosto le capacità umane che essa conserva e amplifica.

Non c’è niente di più e niente di meno di ciò che occorre, dunque, in questa fiaba d’altri tempi in cui la forma snella ed essenziale si sposa a meraviglia con la schiettezza dei sentimenti, benigni o maligni che siano.

Muoio dalla voglia di conoscerti

Due personaggi agli antipodi: uno vecchio e l’altro giovane, uno dedito alla scrittura e l’altro dislessico, uno amante delle parole e l’altro cultore del fare. Eppure l’incontro tra Karl e l’anziano narratore di Muoio dalla voglia di conoscerti genera un’amicizia intensa, nutrita di profondi confronti sul senso dell’amore, della vita, del lavoro, e capace di stravolgere quello che doveva essere un ritrovo del tutto occasione e utilitaristico tra i due.

Rivoltosi allo scrittore per stendere delle lettere alla fidanzata Fiorella, amante della parola messa su carta, Karl finisce per scoprire nel suo interlocutore un’inattesa e rassicurante mescolanza tra una figura paterna troppo presto smarrita, un maestro di vita capace di coglierne potenzialità e debolezze e un amico sincero dalle molte qualità condivise. Al suo fianco si troverà, dunque, ad affrontare i primi amori felici e drammatici, il dolore mai superato per la morte del padre, il rapporto tormentato con la parola scritta e un’indole taciturna e tutta orientata alla manualità.

Quanto alla dislessia, essa trova tra queste pagine un ritratto interessante e poco usuale. Assunta a causa scatenante del racconto, viene poi esplorata con cura garbata ma senza assillo, mescolandosi in maniera realistica ad esperienze emotive molto forti e trovando il più forte dei riscatti in un personaggio che sa superare le proprie difficoltà con la scrittura esplorando nuove strade e forme alternative di espressione. L’autore, dal canto suo, mantiene salda la capacità di scavare in profondità temi forti come questo, senza trascurare una buona dose di coinvolgimento e illuminazione folgoranti che rendono lo scritto particolarmente attraente nei confronti dei lettori adolescenti.

Pistaaaaa!

Pistaaaaa!, arriva un libro  spericolato e difficile da frenare! Fresco dai tipi dell’editrice Il Castoro, il sottile volume scritto da Robert Munsch e illustrato da Michael Martchenko travolge un po’ il lettore, con un fare insolito e dissacrante. Niente poesia o senso di meraviglia, in questo libro, che si fa notare piuttosto per la disinvoltura con cui rivolta la disabilità come fosse un calzino.

La brevissima storia, surreale e assurda, di una bambina che su una sedia a rotelle turbo salva il fratello infilzatosi con una forchetta lascia dapprima spaesati ma si impone poi per la sottesa capacità di ribaltare lo stereotipo del disabile mogio e di costruire occasioni di divertimento sopra un mondo forzatamente serio quale quello dell’handicap motorio.

Malgrado il disorientamento iniziale, ci si accorge che la disabilità finisce per uscire rafforzata da una storia illustrata come questa che, pur non essendo un capolavoro, osa come poche altre trattare il bambino disabile come un bambino qualunque ammettendo che possa desiderare divertirsi, provare brividi e persino esagerare, ispirando personaggi strampalati.

I colori del buio

Gli adolescenti sono i destinatari principali de I colori del buio. Vale tuttavia la pena di segnalare questo libro per il suo valore letterario e per la delicata serietà con cui affronta temi importanti. Questi tratti, che gli hanno valso il National Book Award 2010, lo rendono infatti interessante anche agli occhi di lettori e lettrici di età diversa, purché aperti a un confronto disincantato con la realtà.

La protagonista del libro, Caitlin, è in particolare affetta da sindrome di Asperger, descritta senza camuffaggi. Tutto ciò che non ha un contorno netto – dagli individui alle espressioni metaforiche – assume per lei un volto inquietante e minaccioso: così essa non si stanca di consumare il dizionario e i suoi termini esatti, di disegnare rigorosamente in bianco e nero e di attenersi ad un logica ferrea che spesso si scontra con il pensiero comune.

Il suo è un percorso a ostacoli, segnato da paletti fissi e sofferenze inattese come la morte del fratello Devon, tra le quali si trova a zigzagare alla ricerca di un posto nel mondo, e di una conciliazione con sé stessa e con gli altri. Il lettore, silenziosamente, finisce per far suo questo tortuoso tragitto, accogliendo quelle emozioni chiare e scure che ne segnano marcatamente il tracciato.