L’indagine, recentemente presentata a Torino in occasione del festival “IncluSì”, è stata condotta da Fondazione Paideia e BVA Doxa, coinvolgendo 988 famiglie italiane con bambini e ragazzi fino a 18 anni di età, di cui un terzo con disabilità, ponendo a confronto famiglie in cui è presente e famiglie in cui non è presente un figlio/a con disabilità. La rilevazione si è concentrata su alcuni ambiti di interesse quali: rete e percezione di aiuto, scuola, servizi socio-sanitari, informazioni, tempo libero, lavoro e futuro dei figli. L’articolo e i risultati a questo link.

Chi possiede una doppia copia della variante sviluppa la malattia in forma più aggressiva. Sarà possibile individuare i casi con prognosi peggiore e modulare la terapia di conseguenza. Lo studio, pubblicato su Nature, ha coinvolto più di 22mila persone con sclerosi multipla ed è frutto di una collaborazione internazionale tra più di 70 istituzioni.

Leggi l’articolo su HealthDesk, il portale di informazione sulla salute a tutto campo dalla politica, alla medicina e alla ricerca, con particolare attenzione al sociale.

Il nuovo modello sintetico di embrione realizzato dai ricercatori del Weizman Institute potrebbe gettare luce sulle primissime fasi della gravidanza, quelle più delicate dove il rischio di aborto spontaneo è più alto e in cui hanno origine molti difetti congeniti.

Leggi l’articolo su HealthDesk, il portale di informazione sulla salute a tutto campo dalla politica, alla medicina e alla ricerca, con particolare attenzione al sociale.

In Italia quasi due milioni di studenti e studentesse tra gli 11 e i  17 anni hanno una dipendenza comportamentale. Preoccupano le difficoltà comunicative tra i ragazzi e i loro genitori. Il dato è contenuto in una ricerca congiunta del dipartimento Politiche Antidroga della Presidenza del Consiglio e il Centro Nazionale Dipendenze e Doping dell’Istituto Superiore di Sanità.

Leggi l’articolo su HealthDesk, il portale di informazione sulla salute a tutto campo dalla politica, alla medicina e alla ricerca, con particolare attenzione al sociale.

 

A cura di Enrico Angelo Emili, Vanessa Macchi

Leggere l’inclusione è un saggio, formato da contributi di diversi autori, che introduce il lettore al mondo dell’editoria accessibile. Nel libro si sottolinea con forza che tale tipo di editoria, per potersi definire inclusiva, deve sposare i principi dell’Universal Design for Learning: per ricomporre la cesura fra i lettori con una disabilità e gli altri lettori, un libro accessibile deve cioè essere utilizzabile e attrattivo anche per chi non presenta una disabilità. Ad esempio, un libro scritto in braille deve contenere anche il testo alfabetico, in tal modo quel testo può essere utilizzato da chiunque.

Gli autori esaminano le varie tipologie di libri accessibili, ma innanzitutto sottolineano con forza l’importanza e la bellezza della lettura, ricordando come essa sia un diritto di tutti. In caso di disabilità la lettura viene spesso bistrattata o non la si considera particolarmente rilevante, se messa a confronto con le problematiche che la persona disabile si trova a dover affrontare. Qui tale visione viene confutata e rovesciata per ribadire i molteplici motivi per cui il bambino che presenta una disabilità non possa e non debba assolutamente rinunciare alla lettura, uno degli strumenti principi per la crescita dell’individuo e per la sua inclusione.

Leggere l’inclusione si concentra prevalentemente sulla letteratura per l’infanzia: William Grandi, analizza come è stato trattato il tema della disabilità in questo tipo di letteratura dall’Ottocento ai giorni nostri. Marta Teresa Trisciuzzi porta alcuni esempi, che spaziano dal cinema per ragazzi alla letteratura rivolta a questa fascia di età, dai più conosciuti ai meno noti, in cui le differenze vengono fortemente valorizzate in modo non banale e scontato. Silvana Sola propone una serie di libri, nazionali e internazionali, che non possono mancare in una biblioteca inclusiva “che raccolga buoni libri, edizioni di particolare qualità visiva e testuale accanto a libri realizzati per rispondere a bisogni speciali. Libri nei quali si intrecciano storie e figure capaci di muovere l’immaginario, di parlare a bambini e ragazzi invitandoli a cogliere la complessità di una vita nella quale normale, diverso, unico, uguale, sono termini che si alternano senza creare gerarchie, ognuno con il proprio significato specifico, che può anche diventare altro a seconda dei contesti, delle narrazioni”.

Marcella Terrusi introduce i libri senza parole, ovvero quelli che raccontano una storia esclusivamente tramite immagini: libri che possono avere gradi di complessità molto diversi e che possono anche servire a fare emergere le voci di quei bambini del gruppo classe che di solito non si esprimono. Vanessa Macchia riflette sul valore altamente inclusivo del Kamishibai. Questa tecnica nasce in Giappone alla fine degli anni ’20 del secolo scorso: un cantastorie itinerante raccontava delle storie per bambini con l’uso di disegni eseguiti su cartoni. Andato in disuso quando si è diffusa la TV, il kamishibai sta tornando in auge nelle scuole, perché, oltre a stimolare la creazione di una storia, favorisce il consolidarsi di legami all’interno del gruppo classe e permette a quei bambini che fanno fatica a leggere di giocare ad armi pari con gli altri. Inoltre, essendo uno strumento particolarmente duttile, si può facilmente adattare, ad esempio, ai bambini con bisogni comunicativi complessi.

Enrico Angelo Emili si occupa di dislessia e illustra le varie modalità per facilitare la lettura a chi sperimenta questo disturbo. Inoltre, propone alcuni libri che hanno come protagonisti persone con dislessia e scritti di personaggi famosi che raccontano la propria esperienza.

Moira Sannipoli discute dei libri in simboli. Questa tipologia viene usata generalmente con bambini che non riescono ad accedere ad un sistema simbolico così strutturato e complesso come quello alfabetico. Enrica Potato approfondisce il tema dei libri tattilmente illustrati: libri che aiutano i bambini non vedenti, attraverso immagini in rilievo, a formarsi una rappresentazione della realtà e favoriscono la relazione con i coetanei e con i propri genitori. Purtroppo, questo tipo di letteratura non è molto diffusa a causa degli eccessivi costi di produzione.

 

Il titolo dell’opera chiarisce da subito l’intento dell’autore: se lo studio della disabilità vuol essere rigoroso e al tempo stesso politicamente impegnato e utile, dev’essere certamente guidato da una teoria forte e magari innovativa e non può mai prescindere dall’esperienza concreta della disabilità, soprattutto dunque dal vissuto delle stesse persone con disabilità.

Questa premessa potrebbe apparire ovvia, soprattutto al lettore che con la disabilità ha già familiarità, eppure basterebbe pensare un momento alle rappresentazioni della disabilità che oggi sono più presenti: da un lato, la disabilità come tragedia che dovrebbe commuovere lettori e spettatori, una modalità di comunicazione spesso utilizzata dai media tradizionali, che in qualche misura sfruttano la disabilità stessa; dall’altro, veicolata soprattutto dai social media, un’immagine della disabilità intesa soprattutto come uno svantaggio prodotto da scelte politiche poco inclusive e radicate in un modo di pensare anacronistico e carico di pregiudizi.

Benché questo secondo approccio alla disabilità sia preferibile e sia adottato da molte persone con disabilità che attraverso i nuovi media riescono ad acquisire direttamente visibilità, decidendo autonomamente quanto esporsi e quali argomenti trattare, talvolta si ha l’impressione che la differenza che caratterizza le persone con disabilità scompaia. Il racconto è incentrato principalmente sull’importanza dell’utilizzo di parole diverse per descrivere la disabilità e sulla necessità di rendere davvero accessibili luoghi ed eventi, quasi a suggerire che adottando tutti gli opportuni accorgimenti, materiali e culturali, si possa in un certo senso far scomparire la disabilità.

L’autore dell’opera – è bene chiarirlo – non è soltanto un sociologo piuttosto noto, ma anche una persona con un difetto della crescita congenito e piuttosto evidente, ha origini altolocate e alle spalle una collaborazione con l’Organizzazione Mondiale della Sanità per la redazione del Rapporto mondiale sulla disabilità del 2011 che lo ha temporaneamente allontanato dall’insegnamento universitario e lo ha quasi obbligato a riesaminare le proprie teorie, prima fra tutte quella che prende il nome di “modello sociale della disabilità”. Profondamente influenzato dall’ideologia marxista, il modello sociale britannico riduce l’esperienza della disabilità a quella di una classe, oppressa economicamente e socialmente, contrapposta ad una classe di oppressori che essenzialmente comprende tutte le persone non disabili.

Una generalizzazione di questa portata sembrerebbe assurda, eppure Tom Shakespeare sottolinea l’importanza del modello sociale in ambito accademico e la rilevanza che esso ha avuto sul piano politico: l’ampia portata e la semplicità di questa teoria hanno infatti consentito di spostare il problema dall’individuo disabile – in precedenza considerato un malato, un’eccezione alla regola – alla società nel suo complesso, non organizzata per accogliere tutte le persone che effettivamente la compongono. Per quanto semplicistico, il modello sociale è alla base delle battaglie per l’abbattimento delle barriere architettoniche e della lotta per la vita indipendente e quindi dagli anni Settanta ad oggi non è mai stato superato del tutto, rimanendo all’interno del dibattito pubblico lo strumento più valido per scardinare la visione pietistica della disabilità e dare voce alle istanze delle persone disabili, finalmente in grado di essere soggetti attivi nella trasformazione di una società effettivamente inadeguata a rispondere ai loro bisogni.

Come però spiega chiaramente Shakespeare, immaginare con i teorici del modello sociale un villaggio interamente pensato per accogliere persone con disabilità, progettato così minuziosamente che sarebbe impossibile per le persone non disabili muoversi agevolmente al suo interno, capovolge il problema senza risolverlo. Oggi si è certamente più inclini a pensare nei termini della progettazione universale, secondo criteri validi quindi per tutte le persone, con o senza disabilità, tenendo inoltre a mente che le disabilità non sono solo di natura motoria, eppure nemmeno un ambiente completamente accessibile per chiunque eliminerebbe la disabilità, o meglio, la menomazione che ne è la prima causa.

Ogni tentativo di mettere al centro la menomazione è ormai controverso, e l’autore lo riconosce, ma nel farlo ricorda come la disabilità sia un fatto complesso, che emerge dall’incontro di caratteristiche fisiche, sensoriali o intellettive con elementi culturali e ambientali che non possono essere utilizzati per nascondere le differenze che caratterizzano il corpo e la mente di alcuni individui. L’analisi di Shakespeare sembra anacronistica, superata dallo spostamento dell’attenzione dalla persona con disabilità alle barriere che la ostacolano, ma la rimozione di uno scalino non comporterà mai, ad esempio, la scomparsa del dolore neuropatico dovuto a una lesione midollare che l’autore spiega di aver subito, una menomazione che in un secondo tempo si è aggiunta al deficit della crescita e lo ha obbligato ad utilizzare una sedia a rotelle. L’ulteriore menomazione è parte integrante dell’esperienza del sociologo, e accresce la sua disabilità a dispetto di tutti gli sforzi che il modello sociale ha compiuto per promuovere il tema dell’accessibilità.

Il successo politico del modello sociale, che tutti noi ormai, magari inconsciamente, adottiamo, rischia di togliere spazio all’esperienza concreta della disabilità, che spesso comporta dolore e fatica, riducendo ad esempio le opportunità lavorative e la libertà di spostamento. Il punto di vista di Tom Shakespeare sembra condizionato da un forte pessimismo, eppure il sociologo ha la capacità di riportare al centro della discussione il tema della giustizia sociale e della redistribuzione delle risorse, spesso relegato in secondo piano. La disabilità comporta costi maggiori per persone che in molti casi sono fisicamente costrette a lavorare per un numero di ore inferiore o addirittura del tutto impossibilitate a svolgere attività remunerate, e la dignità di queste persone non può essere il risultato della loro integrazione in una società idealmente priva di ostacoli materiali e culturali; il riconoscimento della dignità delle persone dovrebbe piuttosto essere il motore dell’inserimento di tutti gli individui nella società.

 

Disabilità e società è quindi un’opera scomoda per accademici, politici e attivisti per i diritti delle persone con disabilità, soprattutto se personalmente disabili: i privilegi di cui lo stesso autore gode in quanto nobile inglese o grazie alla propria posizione di docente universitario, non modificano la sua identità di persona con disabilità ed è anzi questa irriducibile e profonda diversità a permettere all’autore di mettersi in gioco personalmente utilizzando gli strumenti culturali di cui dispone per andare oltre la stessa cultura della disabilità. Da tempo il modello sociale convive con gli studi culturali della disabilità, che mirano a descrivere ogni diversità – non solo quella fisica – come il prodotto di una mentalità collettiva repressiva che dividerebbe gli individui e le loro caratteristiche in normali e patologiche, imponendo alcuni schemi relativi a ciò che l’uomo dovrebbe essere e fare, e censurando tutto ciò che se ne discosta.

Proprio come il modello sociale, gli studi culturali sulla disabilità hanno il merito di mettere in discussione ciò che appare ovvio e consolidato, insistendo nello specifico sulle parole che si usano per descrivere persone e situazioni, mostrando quanto i termini del discorso influenzino il modo in cui si percepisce la realtà. Tuttavia, è ben difficile credere che il discorso che si fa sulla disabilità crei la disabilità stessa, come secondo Shakespeare farebbero gli studi culturali. Non solo il discorso pubblico e istituzionale, ma anche i discorsi privati devono essere esaminati e spesso modificati: si dice ormai “disabilità” e non “handicap” termine che rimandava all’accattonaggio e all’emarginazione, ma questo non cancellerà le menomazioni o anche solo le differenze sensoriali che sono alla base della disabilità stessa. Allo stesso modo la diagnosi di un disturbo dell’apprendimento può spaventare, poiché le persone interessate potrebbero temere di essere considerate incapaci o inferiori, ma è sul pregiudizio che bisogna agire. Come spiega l’autore, è possibile pensare che se la società non richiedesse abilità di lettura standardizzate la dislessia non verrebbe nemmeno diagnosticata, eppure viviamo nell’economia della conoscenza, ed è quindi giusto che le persone con dislessia ricevano supporto, poiché la difficoltà esiste indipendentemente della diagnosi e dalla stessa necessità di leggere.

Tom Shakespeare ritiene che il modello sociale e gli studi culturali possano essere considerati totalmente validi solo da coloro che non sperimentano la disabilità o hanno già abbondanti risorse per compensarla, ma si tratta comunque di importanti strumenti di trasformazione della società a disposizione di quanti, accettando la disabilità come diversità ineliminabile che però non riduce il valore della persona, vogliano lottare per rendere la società davvero inclusiva.

La lettura di questo saggio è fortemente consigliata ad operatori e persone con disabilità che abbiano familiarità con i disability studies: il taglio molto pragmatico del lavoro lo rende originale e stimola chi legge ad adoperarsi per produrre un vero cambiamento.

Nel cervello delle persone affette da epilessia è possibile rilevare cambiamenti dell’attività dei neuroni anche quando non sono in corso crisi epilettiche. La scoperta  potrebbe rendere la diagnosi meno invasiva. Leggi l’articolo su HealthDesk, il portale di informazione sulla salute a tutto campo dalla politica, alla medicina e alla ricerca, con particolare attenzione al sociale.

Per i ragazzi della generazione Z (nati tra il 1997 e il 2012), la salute emotiva è peggiore di quella fisica. I dati sono il risultato di un’indagine promossa in occasione dell’ “Anno europeo dei Giovani”, proclamato dalla Commissione Europea. Leggi l’articolo su HealthDesk, il portale di informazione sulla salute a tutto campo dalla politica, alla medicina e alla ricerca, con particolare attenzione al sociale.

Una singola molecola, la neurotensina, ha un ruolo chiave nel decidere se un ricordo è bello o brutto. La sua modulazione potrebbe in futuro servire a trattare l’ansia, la depressione e il disturbo da stress post-traumatico.

Leggi l’articolo su HealthDesk, il portale di informazione sulla salute a tutto campo dalla politica, alla medicina e alla ricerca, con particolare attenzione al sociale.

Il piombo è considerato dall’Oms una delle 10 sostanze inquinanti più pericolose per la salute. L’avvelenamento da piombo uccide ogni anno 1 milione di persone nel mondo, ma c’è un effetto ancora più grave e più nascosto: anche piccole quantità causano danni alla salute di milioni di bambini compromettendone lo sviluppo neuro-cognitivo.

Leggi l’articolo su HealthDesk, il portale di informazione sulla salute a tutto campo dalla politica, alla medicina e alla ricerca, con particolare attenzione al sociale.

A cura di Lucia de Anna, Charles Gardou e Alessio Covelli.

Il libro Inclusione, cultura e disabilità illustra l’esperienza di dottorato coordinata dalla Professoressa De Anna dell’Università di Roma “Foro Italico” sul tema disabilità e inclusione. Il dottorato, durato diversi anni accademici, ha coinvolto università, docenti e dottorandi di molte nazioni europee ed extraeuropee, quali Brasile, Senegal, Russia e Taiwan.

Gli autori sottolineano che un dottorato di ricerca con un simile respiro internazionale, su queste tematiche, rappresenta un’esperienza più unica che rara, avendo permesso di indagare le pratiche e il tema dell’inclusione anche in contesti storicamente, economicamente e culturalmente diversi dal nostro: il lettore ha così la possibilità di gettare lo sguardo oltre i confini nazionali ed europei.

Due capitoli del testo analizzano ad esempio il contesto brasiliano.  Maria Alice Rosmaninho Perez descrive la situazione del Paese per quanto riguarda l’inclusione degli studenti con disabilità, sottolineando come molto spesso essi siano relegati in istituti speciali, sebbene la legislazione preveda il loro inserimento nella scuola pubblica. Maria Cecilia Cortez Christiano de Souza e Paula Nascimento da Silva, rifacendosi alla teoria di Adorno e Horkheimer, ci parlano della rappresentazione dei giovani brasiliani, alquanto negativa, che i mezzi di comunicazione e gli altri attori sociali veicolano e riflettono su quanto questi ultimi, illudendosi di acquisire un peso sociale all’interno del sistema, acquistino beni di consumo non necessari, come status symbol, impoverendosi ulteriormente ed entrando in tal modo in un circolo vizioso da cui è difficile uscire.

Gli autori sottolineano come l’esperienza abbia permesso di costruire una rete e spazi di confronto molto proficui tra i vari ricercatori. Il dottorato ha uno sguardo che si rifà alla pedagogia speciale e ad autori come Paulo Freire, ma, al contempo, ha una visione antropologica e aperta ad altre discipline quali la psicologia e la sociologia.

Le ricerche presentate nel volume seguono tre direttrici: “Il primo itinerario si riferisce a tutte quelle ricerche che, analizzando contesti differenti (scuola, media, sanità), hanno approfondito le questioni relative alla rappresentazione della disabilità, alla co-costruzione e al riconoscimento dell’identità e dei ruoli sociali delle persone in tale situazione con un’attenzione anche alle questioni di genere. Il secondo itinerario rimanda, invece, alla ricerca educativa e formativa sugli aspetti propri della progettualità pedagogico-didattica per l’inclusione delle persone con disabilità nella scuola e all’università, con un’attenzione rivolta anche ai processi di insegnamento/apprendimento che coinvolgono la sfera corporea e il movimento. L’ultimo itinerario estende lo sguardo della ricerca sull’inclusione ad altri contesti e dimensioni esistenziali delle persone con disabilità con particolare riferimento al mondo lavorativo, alle pratiche di volontariato, al tempo libero e al turismo accessibile.”

Per quanto riguarda il primo itinerario, citiamo la ricerca di Cheikh Tidiane Tine, la quale approfondisce il ruolo che ricopre la rappresentazione della disabilità da parte degli insegnanti sulle pratiche di insegnamento e di approccio agli studenti disabili. L’autrice sottolinea: “i risultati della nostra indagine ci hanno insegnato che le caratteristiche personali e professionali degli insegnanti non sono così decisive in termini di contenuto delle loro rappresentazioni e della loro tendenza a modificare o adattare le loro pratiche di insegnamento. Tutto sembra dipendere più dalla loro sensibilità e dalla loro umanità. Tuttavia, appare chiaro come le rappresentazioni che gli insegnanti hanno dell’inclusione e degli studenti con disabilità siano abbastanza contraddittorie: valorizzazione dell’inclusione da un lato (rispetto delle differenze e dei diritti, partecipazione, ecc.) e svalutazione degli alunni dall’altro”.

In riferimento al secondo itinerario portiamo all’attenzione la ricerca di Anderson Spavier Alves, il quale analizza i processi di inclusione di bambini migranti e con disabilità all’interno della scuola primaria, ponendosi come domanda di ricerca se l’appartenenza a una seconda minoranza favorisca oppure ostacoli ulteriormente l’inclusione. La conclusione dell’autore è che la disabilità favorisca l’inclusione: “Uno degli stigmi riduce l’altro. In altre parole, la disabilità si configura come un elemento normalizzante nel confronto con l’altro elemento stigmatizzante (essere immigrato)”.

Per il terzo itinerario segnaliamo la ricerca di Luigi Salvio che analizza le competenze dei volontari appartenenti a diverse associazioni che lavorano con la disabilità e si interroga su quanto le competenze acquisite in modo informale nel corso dell’esperienza di volontariato siano traslabili nel mondo del lavoro. L’autore conclude che il volontario non acquisisce competenze tecniche, bensì accresce le sue competenze relazionali e la sua capacità empatica, perciò, può essere una figura ponte fra il mondo dei professionisti e il percorso d’integrazione a cui il disabile aspira.

Forse, nell’economia generale del volume, viene dato poco spazio alle singole ricerche dei dottorandi: se è pur vero che ad esse viene dedicata la seconda e la terza parte del libro, le ricerche sono molte e quindi lo spazio per ognuna è veramente limitato. Si segnala inoltre che quattro capitoli del libro non sono stati tradotti in italiano.

Tra i diversi contributi offerti, particolarmente significativo è quello del professor Andrea Canevaro, il quale, nel capitolo “Il bastone e il serpente”, riflette su come in questo momento storico i caregiver delle persone con disabilità, percependo il mondo e gli altri come ostili, sentendosi circondati da serpenti, chiedano a gran voce “il bastone”, che fuor di metafora l’autore identifica nell’insegnante di sostegno. Pur capendo perfettamente una simile richiesta e un simile stato d’animo, l’autore si sofferma sulle problematiche del delegare molti aspetti dell’istruzione dello studente con disabilità a una figura ad hoc; ne critica anche la denominazione in quanto rimanda a un rapporto esclusivo e si domanda se l’esclusività di questo rapporto non possa, paradossalmente, ostacolare il processo di integrazione. Canevaro propone invece il concetto di “sostegno diffuso”, in cui non esista più una figura specifica che si occupa dello studente con disabilità; una simile trasformazione richiederebbe un cambiamento strutturale oltre che culturale e risolverebbe anche i problemi che possono presentarsi al momento del passaggio all’università, dove l’insegnante di sostegno non è previsto. L’autore è dell’opinione che perfino i docenti universitari, quando si trovano di fronte uno studente con disabilità o con DSA, non sanno bene come comportarsi e in fondo pensano che l’ambiente accademico non sia il suo posto. Questo lo porta a riflettere su quanto sia diffusa la convinzione che la disabilità sia un problema dei singoli e non anche un problema legato a quanto una società sia “disabilitante”, cioè incapace di adattare le proprie pratiche alle persone con disabilità chiedendo piuttosto a queste ultime di adattarvisi.

Concludendo, si consiglia la lettura del volume “Inclusione, culture e disabilità” agli insegnanti alla ricerca di spunti e suggerimenti interessanti sul tema dell’inclusione scolastica degli studenti con disabilità e a coloro che desiderino approfondire le tematiche oggetto del percorso presentato. Il volume rappresenta, infatti, un ottimo punto di partenza bibliografico grazie ai numerosi lavori di ricerca citati.

Uno studio coreano pubblicato sul British Medical Journal fornisce nuove prove dell’associazione tra l’inquinamento atmosferico e il peggioramento dei sintomi del disturbo dello spettro autistico con una maggiore evidenza tra i ragazzi che tra le ragazze. Leggi l’articolo su HealthDesk, il portale di informazione sulla salute a tutto campo dalla politica, alla medicina e alla ricerca, con particolare attenzione al sociale.

Nel primo anno di vita le difficoltà nell’elaborazione dei segnali visivi e sensoriali presenti nel bambino con autismo provocherebbero uno stress sull’amigdala, favorendone la crescita troppo rapida ed eccessiva. Uno studio pubblicato su American Journal of Psychiatry, basandosi sulle immagini della risonanza magnetica, suggerisce che l’amigdala cominci a crescere eccessivamente tra i 6 e i 12 mesi di età, prima che l’autismo si manifesti in maniera evidente.

Leggi l’articolo su HealthDesk, il portale di informazione sulla salute a tutto campo dalla politica, alla medicina e alla ricerca, con particolare attenzione al sociale.

 

È quanto emerge da un’indagine condotta tra marzo e maggio 2022 su un campione nazionale rappresentativo di 5.721 studenti, la quale analizza da un punto di vista sociologico l’impatto emotivo della pandemia sullo stile di vita dei giovani.

Leggi l’articolo su HealthDesk, il portale di informazione sulla salute a tutto campo dalla politica, alla medicina e alla ricerca, con particolare attenzione al sociale.

Lo studio pubblicato su “Science” è di piccole dimensioni, ma i risultati sono promettenti. Serviranno studi più ampi per la conferma.

Leggi l’articolo su HealthDesk, il portale di informazione sulla salute a tutto campo dalla politica, alla medicina e alla ricerca, con particolare attenzione al sociale.

Se il titolo di questo interessante testo può catturare l’attenzione suggerendo la presenza di elementi fantascientifici, è invece il sottotitolo a chiarire lo scopo dell’autrice: capire gli studenti con sindrome di Asperger è il presupposto essenziale che i loro insegnanti devono quotidianamente tenere presente se vogliono portare a termine con successo il loro compito.

Questa premessa potrebbe apparire ovvia, tuttavia Sainsbury, che tra mille difficoltà ha portato a termine gli studi ed è attiva nel campo della formazione di persone con sindrome di Asperger, fin dai primi capitoli sottolinea come il desiderio degli educatori (e in generale degli adulti) di evitare che bambini e ragazzi siano etichettati come diversi perché formalmente collocati nello spettro di questa sindrome, non impedisce nei fatti che i compagni e gli stessi insegnanti li giudichino strani o sgarbati, poiché “evitare le etichette non fa scomparire le differenze”.

Spesso, invece, il rischio che le persone diverse siano etichettate e stigmatizzate è combattuto avviando un processo di normalizzazione che, pur con le più nobili intenzioni, è sempre ambiguo. Se per un verso normalizzare significa dare a chi ha una disabilità le stesse possibilità, per l’altro significa rendere normale non la vita della persona diversa, bensì la persona stessa, rendendola più accettabile agli occhi dell’altro. Accade ad esempio quando si impedisce allo studente con Asperger di passeggiare all’interno della classe o di disegnare al fine di focalizzare meglio l’attenzione sul contenuto della lezione, semplicemente perché tali azioni risultano sconvenienti e poco rispettose nei confronti dell’insegnante e dei compagni di classe.

Esempi semplici come questi rendono alla perfezione lo spirito del saggio di Clare Sainsbury: Un’aliena nel cortile non è una collezione di prese di posizione contro la discriminazione, bensì un’analisi lucida di esperienze quotidiane, vissute a scuola e in misura minore in famiglia, che mettono in luce quanto le aspettative che gli adulti nutrono circa la possibilità dello studente con tratti autistici di conseguire buoni risultati in ambito scolastico siano condizionate dal diverso metodo di apprendimento che lo studente adotta – o adotterebbe – se lasciato libero e addirittura incoraggiato ad individuare i propri punti di forza per compensare possibili debolezze.

Nel testo si alternano, in modo estremamente interessante, brevi testimonianze autobiografiche di Clare e di altre persone con sindrome di Asperger e analisi delle stesse, al fine di far comprendere al lettore sia il diverso funzionamento dello studente “neurodivergente” – con suggerimenti utili a sviluppare tecniche di insegnamento diverse e adeguate a bisogni diversi – sia la natura convenzionale delle regole sociali che governano la vita della classe, date sempre per scontate e in qualche modo illuminate dalla comprensione letterale del linguaggio che spesso caratterizza le persone con sindrome di Asperger:

In seconda o in terza, la classe cominciò a discutere sull’anima e su Dio. Essendo cresciuto in una famiglia di atei, non avevo idea di queste cose, e mi misi a far sapere a tutti quanto fossero stupidi con questa storia del loro amico immaginario”.

E ancora:

Mentre esprime le proprie opinioni con ammirabile vigore, Clare potrebbe essere più indulgente con le incerte opinioni altrui”.

Lo studente con sindrome di Asperger è dunque redarguito per aver fatto ciò che era richiesto alla classe nella stessa misura in cui è rimproverato per aver infranto il divieto di disegnare nel corso di una lezione frontale, ma l’obbligo più o meno tacito di prestare attenzione esclusivamente all’insegnante risponde ad un diverso modo di apprendere, che in alcuni soggetti con Asperger non si basa sui concetti, ma sulle immagini, mentre una certa aggressività verbale nel corso di dibattiti dipende appunto dalla mancata conoscenza di regole sociali spesso implicite.

Ogni comportamento è invece ridotto alla presunta mancanza di rispetto per insegnanti e compagni, tanto da indurre l’autrice ad affermare che l’inclusione totale e ad ogni costo in scuole tradizionali non sia necessariamente nell’interesse dello studente, e che spesso nasconda invece la paura del diverso e il desiderio che chi non è considerato normale scompaia nella folla.

Il punto di vista che il testo offre a proposito delle scuole speciali sfida il lettore, soprattutto nel contesto italiano, ma è interessante il tentativo di tenere insieme l’inclusione in scuole tradizionali e l’acquisizione di competenze sociali frequentando, magari per un periodo di tempo limitato, luoghi in cui sia possibile imparare ciò che solitamente è considerato scontato.

Allo stesso modo è spesso considerato ovvio che una certa quantità di violenza, fisica e verbale, sia presente nella relazione tra studenti, giustificando così atti di bullismo che nemmeno gli insegnanti percepiscono sempre come tali, e che invece turbano profondamente bambini e ragazzi con sindrome di Asperger, impossibilitati a comprendere come comportamenti letteralmente violenti siano invece da intendere come metaforicamente scherzosi. Questo libro è dunque consigliato a insegnanti e genitori di studenti con sindrome di Asperger, ma può risultare utile a chiunque voglia riflettere sulla violenza nascosta in molte relazioni, proprio in virtù del taglio estremamente lucido e critico dato dall’autrice.

In Percorsi minori dell’intelligenza, Franco Lolli si occupa di clinica della disabilità intellettiva.

Il lettore vi troverà alcuni concetti fondanti della teorizzazione lacaniana, così come molte vignette cliniche, che, oltre a rendere la lettura più scorrevole, illustrano la funzione pratico-clinica di concetti molto complessi ed estremamente teorici.

Lolli sottolinea come la psicoanalisi tenda, per svariate ragioni, a non occuparsi di disabilità intellettiva, lasciando questo campo sotto l’egida delle neuroscienze e della psicologia cognitiva.

L’autore, muovendosi in una cornice lacaniana, mostra come anche la psicoanalisi possa essere utile in questo campo, proprio per la sua capacità di allargare lo sguardo. Lolli, pur sottolineando con forza l’impatto che ha una lesione cerebrale sulle capacità cognitive, sostiene che una percentuale non trascurabile di persone ha un ritardo cognitivo pur in assenza di un danno organico riscontrabile. “Che si tratti di danno meccanico, biochimico, genetico o altro, resta, in ogni caso, abbastanza misterioso il meccanismo specifico di costituzione dell’insufficienza mentale. Coerentemente con i dati presentati dall’American association on mental retardation “allo stato attuale le cause del ritardo mentale sono ancora sconosciute in circa il 30% dei ritardi gravi e nel 50% dei ritardi lievi”. Questo dato porta Lolli a interrogarsi sui fattori che accomunano i due gruppi di soggetti: la sua teoria è che essi non abbiano acquisito il sistema simbolico.  La padronanza di questo sistema permetterà lo sviluppo delle capacità cognitive, linguistiche e, più in generale, tutta una serie di capacità che ci consentono di muoverci nel mondo e di entrare in relazione con l’altro.

Semplificando un concetto ben più complesso e sfaccettato, per la corretta installazione del sistema simbolico si devono verificare tre condizioni: un bambino molto piccolo in grado di rispondere in modo coerente ai segnali della madre, una figura materna che risponda con sollecitudine ai bisogni del figlio e provi un desiderio in grado di particolarizzarlo e una figura paterna che non deve essere per forza una persona in carne e ossa, ma che va intesa più come una funzione in grado di interrompere il rapporto fusionale che si instaura tra il figlio e la madre. Questa figura, distogliendo l’attenzione e soprattutto il desiderio della madre dal bambino e catalizzandolo su di sé, induce il figlio a interrogarsi su cosa la madre desideri oltre lui e gli permette di desiderare a sua volta. È questo uno dei primi passi che fa sì che il bambino possa accedere alla funzione simbolica.

Lolli sostiene che, in caso di disabilità del figlio, spesso qualcosa in questo processo può non funzionare: i genitori provano un sentimento di rifiuto nei confronti del bambino che quindi può non essere circondato dal desiderio della madre. La madre, anche per compensare questo sentimento di rifiuto, spesso anticipa tutti i bisogni del figlio e soprattutto il padre, che frequentemente è assente, non svolge la funzione di terzo che permetterebbe al bambino di interrogarsi sul desiderio della madre e di desiderare lui stesso. Se inoltre consideriamo che spesso il bambino che svilupperà un ritardo cognitivo è in una condizione organica che rende molto più complicato il rapporto con il mondo esterno, è evidente che la funzione simbolica del piccolo fatichi a svilupparsi. “In questo senso, l’eventuale lesione cerebrale (qualunque ne sia l’origine) sembra costituirsi come evento fondamentale nell’esistenza del soggetto, come accadimento primario capace di distorcere, a volte persino di impedire, il rapporto del soggetto con il mondo che lo circonda; in termini analitici, l’evento della lesione – il reale del corpo – condiziona e ostacola il rapporto del soggetto con il significante – ovvero, il suo ingresso nell’universo simbolico.”

Sulla base di queste considerazioni teoriche, l’autore, partendo da diversi casi clinici, propone alcune riflessioni molto interessanti: ragiona sul motivo per cui alcune persone con disabilità intellettiva hanno un rapporto così particolare con gli oggetti; spiega il motivo per cui un utente non manifesti sentimenti di lutto quando la madre, a cui era molto legato, muore; si sofferma sul rapporto tra la mancata acquisizione del sistema simbolico, l’estrema difficoltà a non tollerare l’assenza dell’oggetto e le difficoltà cognitive.

Lolli ragiona poi sul motivo per cui i disabili intellettivi spesso interpretino dei ruoli specifici e fissi e facciano molta fatica a separarsene. Sottolinea come l’inconscio della persona con disabilità intellettiva sia molto più in superficie, ma anche come spesso gli operatori attribuiscano le manifestazioni atipiche, anziché ai moti inconsci, alle difficoltà cognitive del soggetto disabile.

L’autore riporta come sia comune, per chi lavora nel campo della disabilità intellettiva, riscontrare che pazienti con un ritardo cognitivo particolarmente grave manifestino una sorta di “Furbizia”, ossia una serie di capacità inaspettate, volte alla soddisfazione di un bisogno specifico. Tuttavia, Lolli sostiene che questa serie di azioni che la persona con disabilità intellettiva compie, non siano inserite in un quadro, il sistema simbolico, che dota di senso questo agire, ma vengano scatenate da un segnale e non cambino al mutare del contesto. L’autore sottolinea però che ciò non vuole assolutamente dire che il loro comportamento sia immutabile, anzi, proprio perché ogni persona è comunque inserita in un universo simbolico ed è circondata da persone desideranti, il comportamento può essere almeno in parte modificato.

Il compito della clinica della disabilità intellettiva è per Lolli quello di partire dai comportamenti dei pazienti e provare a inserirli nell’universo simbolico, relazionale e desiderante. La capacità desiderante di questi pazienti per varie ragioni non si è sviluppata ed perciò fondamentale che essi percepiscano il desiderio, non intrusivo, dell’altro nei loro confronti. Lolli porta l’esempio di un utente con un ritardo cognitivo grave, Bruno, la cui unica attività finalizzata è quella di bere caffè rubandolo dalle tazzine degli avventori della comunità. Gli operatori decidono di offrirgliene una tazza nella loro stanza. Ciò costringe Bruno a relazionarsi con loro per ottenere il caffè. Pian piano, il tempo che Bruno trascorre in compagnia degli operatori è sempre maggiore: sembrerebbe che all’impulso di bere caffè si sia affiancato il desiderio della compagnia dell’altro.

 

In questo libro Giovanna Di Pasquale mette radicalmente in discussione molti dei fondamenti che rimandano a una visione “classica” del processo insegnamento-apprendimento. Secondo l’autrice, non ci si può più comportare come se le conoscenze fossero una serie di nozioni da riversare dalla testa dell’insegnante a quella dello studente mediante un imbuto. Al contrario, l’apprendimento è un processo complesso e dialogico, influenzato da una serie di fattori: la relazione tra insegnante e allievo, le esperienze di quest’ultimo, il suo stile d’apprendimento. Inoltre, l’autrice sottolinea l’importanza delle emozioni che accompagnano l’apprendimento, la necessità che l’insegnante non perda di vista il fatto che lo studente ha interessi e risorse anche al di fuori della scuola e che questi possono essere utilizzati per coinvolgerlo e per migliorare le strategie d’apprendimento.

L’insegnante dovrebbe riflettere costantemente sul suo stile di insegnamento in modo da poterlo ampliare il più possibile: facendo schemi, riprendendo il testo, utilizzando figure, riassumendo la lezione. Andrebbero usate tutte queste modalità nella spiegazione dei vari argomenti, in modo da poter andare incontro agli stili e alle esigenze di tutti gli allievi. L’autrice sottolinea come un simile approccio favorisca l’apprendimento e l’inclusione di allievi con disturbi specifici d’apprendimento, con disabilità, allievi appena arrivati in Italia o chiunque sperimenti qualsiasi altra difficoltà. In conclusione, G. Di Pasquale sostiene come “a insegnare a quelli bravi sono bravi tutti” e che compito e sfida del sistema scolastico sia proprio quello di non dimenticarsi e non emarginare gli allievi che, per qualsiasi motivo, fanno più fatica. A tal fine suggerisce una serie di metodologie, ma soprattutto, porta avanti una prospettiva inclusiva che considera gli allievi dei soggetti attivi.

Valeria Alpi narra in modo estremamente coinvolgente il suo viaggio a Capo Nord. “A Capo Nord bisogna andare due volte” è  il resoconto di un viaggio e delle sue tappe: luoghi e persone, avventure e disavventure, riflessioni (anche di carattere più generale), da cui emerge tutta la passione dell’autrice per il viaggio.

La particolarità di questo libro consiste però nell’essere stato scritto da una persona con una disabilità: l’autrice ha una disabilità motoria che le causa difficoltà nel camminare, nel portare pesi e nel salire le scale. Queste difficoltà non farebbero pensare a una viaggiatrice che compie in solitaria per ben due volte un viaggio in auto Bologna – Capo Nord.

Valeria Alpi descrive molto bene le problematiche che una persona con disabilità deve affrontare, a partire dalla cura e dalla meticolosità con cui organizzare il viaggio. Sottolinea, ad esempio, come sia necessario controllare, a volte in modi molto creativi, che tutti i luoghi da visitare e quelli in cui pernottare siano accessibili e come spesso debba mettere in atto accorgimenti più o meno peculiari.

Tuttavia, l’autrice riflette su come molte paure e dubbi non dipendano dalla disabilità, ma siano comuni a tutti i viaggiatori. Sottolinea inoltre come a volte la disabilità possa rappresentare un vantaggio, ad esempio nel suo caso il dover utilizzare l’auto le ha permesso sia di spostarsi più liberamente, sia di portarsi ampie scorte di cibo.

Infine l’autrice, pur avendo fatto un viaggio molto ambizioso, porta avanti una riflessione davvero interessante sul concetto di limite. Secondo lei i propri limiti vanno rispettati profondamente: il viaggio a Capo Nord l’aveva sempre escluso perché pensava che a quelle latitudini ci fosse perennemente la neve su cui non riesce a camminare.

Alpi sostiene come il viaggiare, qualunque sia la meta, non per forza Capo Nord, possa essere un ottimo modo per confrontarsi sia con i propri limiti che con le proprie risorse.

In conclusione, Valeria Alpi descrive il suo viaggio in modo vivo e appassionante, terminata la lettura è probabile che abbiate voglia di andare a Capo Nord!

Un libro a fumetti per guidare i bambini degli ultimi anni delle scuole primarie nella comprensione del valore della disabilità in quanto risorsa, dell’inclusione come opportunità, dell’importanza della conoscenza scientifica per capire gli altri e imparare a mettersi nei loro panni.

Leggi l’articolo su HealthDesk, il portale di informazione sulla salute a tutto campo dalla politica, alla medicina e alla ricerca, con particolare attenzione al sociale.