Didattica senza barriere

Universal Design, tecnologie e risorse sostenibili

di Andrea Mangiatordi

 

Il saggio presentato in queste poche pagine e reperibile gratuitamente on line (https://www.edizioniets.com/priv_file_libro/3244.pdf) contiene suggerimenti molto utili al personale docente che sia interessato a progettare una didattica davvero inclusiva, e sono molti i software, i dispositivi e le tecniche da utilizzare in classe che l’autore descrive. Tutte le indicazioni fornite sono inserite in una cornice teorica che capovolge il concetto di accessibilità: se normalmente consideriamo accessibile un luogo in cui anche una persona con disabilità possa entrare, riflettendo su una didattica che sia davvero per tutti Mangiatordi si concentra invece sulla necessità che l’individuo in formazione sia “condotto fuori”, come suggerisce l’etimologia latina del termine educare (e-ducere), nel rispetto dei bisogni e delle caratteristiche di ciascuno.

L’autore non propone un elenco rigido di ausili riservati a questa o a quella disabilità, poiché se si vuole che la didattica sia davvero inclusiva, i supporti che la rendono tale non possono essere stigmatizzanti. La sedia a rotelle, ad esempio, è certamente un ausilio, ed è così strettamente associata alla disabilità da essere spesso utilizzata come simbolo dei servizi riservati a tutte le persone con disabilità, che sia di natura motoria, oppure no.

Anche per quanto riguarda lo stigma vi sono pochi dubbi, eppure una sedia a rotelle è utile e spesso necessaria tanto quanto lo sono gli occhiali. La maggior parte della popolazione però, nel corso della vita, sperimenta la necessità di utilizzare un paio di occhiali, e questi oggetti sono prodotti in tutti i colori, le forme e le dimensioni anche da marchi di alta moda. Gli occhiali sono così diffusi da non poter essere riferiti ad una minoranza e diventare fonte di stigmatizzazione, diversamente da una sedia a rotelle.

Questa considerazione è per Mangiatordi la chiave della trasformazione della didattica in senso inclusivo, poiché usare strumenti di uso comune piegandone il funzionamento alle esigenze di studenti con disabilità o altri bisogni specifici, permette di evitare la nascita dello stigma e l’eventuale resistenza che gli stessi studenti con disabilità potrebbero opporre per non sentirsi diversi dai compagni.

Lo sviluppo dell’informatica è naturalmente un acceleratore potentissimo delle trasformazioni auspicate dall’autore, poiché un oggetto ormai capillarmente diffuso come una webcam può diventare un formidabile strumento di scrittura per una persona con ridotta o assente mobilità degli arti inferiori, se provvista di un software un grado di elaborare i movimenti oculari.

Allo stesso modo, la tecnologia touchscreen è estremamente utile a persone con ridotta mobilità fine, ma si tratta di una tecnologia ormai talmente integrata nei dispositivi mobili da essere diventata la norma.

Considerando quindi la versatilità di strumenti informatici ormai molto diffusi e in buona parte dal costo contenuto, e senza dimenticare la necessaria flessibilità che l’insegnante deve conservare nel momento in cui la didattica senza barriere è effettivamente portata in classe, Mangiatordi propone alcuni principi ispirati alla Progettazione Universale. L’ Universal Design è nato per creare edifici e spazi realmente accessibili a tutti: una didattica equa deve ad esempio prevedere l’uso di strumenti compensativi e adattarsi facilmente ad essi, deve avvalersi di materiali chiari e impaginati secondo i criteri dell’alta leggibilità e tenendo conto di eventuali disabilità visive.

Altri principi non riguardano strettamente i materiali utilizzati, ma l’approccio del docente e dei discenti, incoraggiati a strutturare l’apprendimento secondo modalità cooperative, così da aumentare la tolleranza dell’errore individuale, il cui peso risulta diminuito a favore di un incremento della fiducia in sé e delle aspettative nutrite dal singolo.

I principi enunciati e descritti dall’autore hanno naturalmente una funzione regolativa, e la didattica dovrà sempre essere modificata per andare incontro alle esigenze di un nuovo studente con esigenze specifiche, proprio come l’Universal Design metteva in conto che potesse esistere un individuo per il quale un edificio risultasse comunque non accessibile. Il saggio di Mangiatordi ha il merito di provare a portare l’utopia in classe.

Questo saggio è particolarmente consigliato al personale docente e contiene anche indicazioni per l’introduzione di dispositivi e software adatti alle esigenze più varie e disponibili gratuitamente o a prezzi contenuti.

Libri accessibili, letture possibili

Risorse e pratiche per coltivare il diritto alle storie

di Elena Corniglia

 

L’opera qui proposta è molte cose contemporaneamente: è un catalogo e una guida, ma è anche un racconto, una storia composta da tante altre storie, tutte uguali ma tutte diverse, proprio come le persone.

I libri accessibili, come capiamo fin dalle prime pagine, rispondono certamente alle esigenze di piccole lettrici e piccoli lettori con disabilità sensoriali, cognitive e motorie grazie all’impiego di specifici accorgimenti che li rendono maggiormente fruibili, ma sono innanzitutto libri, non farmaci o protesi, devono quindi essere intrinsecamente belli e interessanti per coloro che li leggono.

Gli albi descritti somigliano a pezzi unici che ci si aspetterebbe di trovare in una galleria d’arte, a dipinti, sculture e poesie. Sono però dipinti che non si vedono, come i libri tattili progettati per bambini e ragazzi con disabilità visive, o poesie senza parole o con parole diverse, come i libri in simboli o per immagini, adattissimi a lettori sordi o con le più varie difficoltà di natura linguistica. Si tratta di libri che spiazzano il lettore senza disabilità, al quale sono ugualmente destinati, perché giocano con le percezioni e scardinano pregiudizi, dimostrandosi piacevolmente fruibili da tutti, pur essendo pensati a partire da un limite.

Non solo: un libro accessibile diventa anche inclusivo quando è altrettanto ricco, accattivante, curato nell’estetica e nei contenuti quanto lo è un libro tradizionale. In questo modo è davvero in grado di consentire occasioni di scambio e di incontro tra lettori che sperimentano o meno una disabilità, perché ritenuto interessante e “desiderabile” da entrambi. Diventa un territorio condiviso al quale danno accesso strade differenti.

La stessa categoria di “libro accessibile”, quindi, è utile per muovere i primi passi in un mondo relativamente nuovo e sconosciuto, ma in futuro dovrebbe idealmente poter essere abbandonata, così da smettere di relegare libri per tutti in una sorta di scaffale-recinto.

Il primo criterio adottato dall’autrice nella selezione dei libri descritti è la bellezza dei prodotti, indice di qualità e cura, caratteristica che non nasconde però le difficoltà legate alla produzione e alla diffusione di libri che sono ancora di nicchia, e quindi spesso più costosi di quelli tradizionali, più ingombranti e difficili da realizzare in serie. Un libro accessibile è tale se è anche economico, se può essere reperito con facilità e fruito in autonomia dal bambino o dal giovane adulto, senza la mediazione delle figure di riferimento.

Malgrado i molti ostacoli tecnici ed economici, Elena Corniglia descrive un mondo in fermento – quello delle case editrici specializzate in libri accessibili – che in Italia e all’estero guadagna spazio e visibilità, organizza eventi e istituisce premi, bilanciando in qualche misura la limitata diffusione della maggior parte dei prodotti, dovuta anche alla natura di molte pubblicazioni, opere d’arte vera e propria.

Eventi, mostre e festival dedicati favoriscono la circolazione delle opere e le rendono maggiormente fruibili anche a coloro che più difficilmente si avvicinano ai libri a causa di difficoltà di lettura o di apprendimento. Il Museo Tolomeo di Bologna, ad esempio, nasce per trasformare storie e figure impresse su pagine in installazioni multisensoriali che garantiscono il diritto alle storie andando oltre il libro come oggetto da leggere, da toccare o da ascoltare, offrendo un’esperienza globale e complessa, e proprio per questo veramente accessibile a tutti, in modi diversi e contemporaneamente.

Un’altra esperienza, unica e innovativa, presentata nel testo è “Vietato Non Sfogliare”. A questo nome rispondono il Centro di Documentazione e Ricerca sul Libro Accessibile e la mostra itinerante che nel Centro ha casa, e da lì parte per raggiungere scuole, biblioteche e altri spazi frequentati da bambini con e senza disabilità. Oltre mille volumi accessibili, raccolti da Area onlus nella propria sede di Torino, costituiscono l’archivio del Centro, un pozzo di storie dal quale anche la mostra esce sempre rinnovata, mantenendo però il suo caratteristico aspetto di un insieme di villaggi che ospitano casette di legno i cui tetti sono libri sempre aperti. Insomma, non solo vietato, ma pressoché impossibile non sfogliare libri trasformati in tetti colorati.

Utilizzati così, i libri sono già più che libri, sono un invito al gioco e alla liberazione della creatività dei bambini, i quali possono aggirarsi tra i villaggi dedicati alle varie tipologie (tattili con traduzione in Braille, in simboli, in Lingua dei Segni, ad alta leggibilità o con marcatori visivi, senza parole, audiolibri, ebook, libri-gioco) da soli o in gruppo, spontaneamente o nel corso di visite guidate, laboratori e attività strutturate, ma sempre trovando un ambiente accogliente, del quale i libri sono l’elemento principale, ma non il centro. Centrale è invece l’esperienza del bambino, individuale e collettiva, e i volumi sono un mezzo per dire le storie, anche quelle quasi indicibili, come molto spesso è la disabilità. Attraverso i libri accessibili, invece, la disabilità può essere raccontata come una storia tra le tante possibili, una storia che può essere letta, toccata o semplicemente guardata e sfogliata da tutti i bambini.

Ogni volume di Vietato Non Sfogliare è il tetto di una casetta a misura di bambino, e ogni casetta è simile alle altre, ma ospita una storia diversa. Tutte le strutture condividono lo stesso spazio, e la suddivisione per tipologia appare dettata esclusivamente dalla volontà di garantire la massima fruibilità. Accanto ai paesini di legno e carta si trova un moderno schermo, atto a riprodurre ebook e libri in lingua dei segni con avatar virtuali che raccontano le storie.

Strumenti molto moderni convivono quindi con casette che sembrano provenire da un altro luogo e un altro tempo, e per quanto strano possa sembrare, questo accostamento garantisce davvero la piena inclusione dei piccoli lettori con disabilità, andando oltre la forma classica di Vietato Non sfogliare per lasciare ancora più spazio al suo spirito e alla sua importante funzione. Cartaceo e digitale possono integrarsi in maniera funzionale apportando un valore aggiunto significativo, qualcosa in più, come quando proponendo sullo schermo una storia raccontata in lingua dei segni ne preservo la dinamicità e l’espressività, oppure quando posso esplorare un libro con maggiore autonomia laddove le mie difficoltà motorie rendono più agevole per me cliccare, piuttosto che sfogliare.

La lettura del volume qui presentato è consigliata a operatori di servizi educativi e culturali, poiché costituisce un catalogo ragionato utile alla creazione di una biblioteca accessibile per l’infanzia, ma risulta utile e piacevole anche per un pubblico più ampio e variegato, poiché descrive opere intrinsecamente poetiche e contiene spunti di riflessione per una cultura della disabilità che superi l’idea di cura. Proprio come i libri accessibili, questo testo è per tutti!

Percorsi minori dell’intelligenza

Saggio di clinica psicoanalitica dell’insufficienza mentale

di Franco Lolli

 

In Percorsi minori dell’intelligenza, Franco Lolli si occupa di clinica della disabilità intellettiva.

Il lettore vi troverà alcuni concetti fondanti della teorizzazione lacaniana, così come molte vignette cliniche, che, oltre a rendere la lettura più scorrevole, illustrano la funzione pratico-clinica di concetti molto complessi ed estremamente teorici.

Lolli sottolinea che solitamente la psicoanalisi tende, per svariate ragioni, a non occuparsi di disabilità intellettiva, lasciando questo campo sotto l’egida delle neuroscienze e della psicologia cognitiva.

Muovendosi in una cornice lacaniana, Lolli mostra come anche la psicoanalisi possa essere utile in questo campo proprio per la sua capacità di allargare lo sguardo. Pur sottolineando con forza l’impatto che ha una lesione cerebrale sulle capacità cognitive, egli sostiene che una percentuale non trascurabile di persone ha un ritardo cognitivo pur in assenza di un danno organico riscontrabile. “Che si tratti di danno meccanico, biochimico, genetico o altro, resta, in ogni caso, abbastanza misterioso il meccanismo specifico di costituzione della insufficienza mentale”.

Coerentemente ai dati presentati dall’American association on mental retardation “allo stato attuale le cause del ritardo mentale sono ancora sconosciute in circa il 30% dei ritardi gravi e nel 50% dei ritardi lievi. Questo dato porta Lolli a interrogarsi sui fattori che accomunano i due gruppi di soggetti. La sua teoria è che essi non abbiano acquisito il sistema simbolico. È infatti la padronanza di questo sistema che permetterà lo sviluppo delle capacità cognitive, linguistiche e, più in generale, tutta una serie di capacità che ci permettono di muoverci nel mondo e di entrare in relazione con l’altro.

Semplificando un concetto ben più complesso e sfaccettato, per la corretta installazione del sistema simbolico si devono verificare tre condizioni: un bambino molto piccolo in grado di rispondere in modo coerente ai segnali della madre, una figura materna che risponda con sollecitudine ai bisogni del figlio e soprattutto che  provi un desiderio in grado di particolarizzarlo e la figura paterna che non deve essere per forza una persona in carne e ossa, ma che va intesa più come una funzione, in grado di interrompere il rapporto fusionale che si instaura tra il figlio e la madre. Questa figura, distogliendo l’attenzione e soprattutto il desiderio della madre dal bambino e catalizzandolo su di sé, induce il figlio a interrogarsi su cosa la madre desideri oltre lui permettendogli di desiderare a sua volta e rappresenta uno dei primi passi verso l’accesso alla funzione simbolica.

Lolli sostiene che in caso di disabilità del figlio qualcosa in questo processo può non funzionare: i genitori provano un sentimento di rifiuto nei confronti del bambino che quindi può non essere circondato dal desiderio della madre. La madre, anche per compensare il proprio sentimento di rifiuto, spesso anticipa tutti i bisogni del figlio e soprattutto il padre, frequentemente assente, non svolge la funzione di terzo che permetterebbe al bambino di interrogarsi sul desiderio della madre e di desiderare egli stesso.

Se inoltre consideriamo che spesso il bambino che svilupperà un ritardo cognitivo è in una condizione organica che rende molto più complicato il rapporto con il mondo esterno, è evidente che la funzione simbolica del piccolo fatichi a svilupparsi. “In questo senso, l’eventuale lesione cerebrale (qualunque ne sia l’origine) sembra costituirsi come evento fondamentale nell’esistenza del soggetto, come accadimento primario capace di distorcere, a volte persino di impedire, il rapporto del soggetto con il mondo che lo circonda; in termini analitici, l’evento della lesione – il reale del corpo – condiziona e ostacola il rapporto del soggetto con il significante – ovvero, il suo ingresso nell’universo simbolico.”

Sulla base di queste considerazioni teoriche, l’autore, partendo da diversi casi clinici, propone alcune riflessioni molto interessanti. Egli ragiona sul motivo per cui alcune persone con disabilità intellettiva abbiano un rapporto così particolare con gli oggetti e si sofferma sul rapporto tra la mancata acquisizione del sistema simbolico, l’estrema difficoltà a non tollerare l’assenza dell’oggetto e le difficoltà cognitive.

Lolli ragiona poi sul motivo per cui le persone affette da insufficienza mentale spesso interpretino dei ruoli specifici e fissi, come ad esempio quello del carabiniere, e facciano molta fatica a separarsene. Sottolinea che l’inconscio della persona con disabilità intellettiva è molto più in superficie, ma che sovente gli operatori attribuiscono le manifestazioni atipiche, anziché ai moti inconsci, alle difficoltà cognitive del soggetto disabile.

L’autore, inoltre, riporta come sia comune per chi lavora nel campo della disabilità intellettiva, riscontrare che pazienti con un ritardo cognitivo particolarmente grave manifestino una sorta di “Furbizia”, ossia una serie di capacità inaspettate, volte alla soddisfazione di un bisogno specifico. Lolli sostiene che questa serie di azioni che la persona con disabilità intellettiva compie, non siano inserite in un quadro, il sistema simbolico, che dota di senso questo agire, ma vengano scatenate da un segnale e non cambiano al mutare del contesto. L’autore puntualizza però che ciò non vuole assolutamente dire che il loro comportamento sia immutabile, anzi, proprio perché ogni persona è comunque inserita in un universo simbolico ed è circondata da persone desideranti, il comportamento può essere almeno in parte modificato.

Il compito della clinica della disabilità intellettiva è, per Lolli, quello di partire dai comportamenti dei pazienti e provare a inserirli nell’universo simbolico, relazionale e desiderante. La capacità desiderante di questi pazienti per varie ragioni non si è sviluppata, perciò è fondamentale aiutarli a percepire il desiderio dell’altro nei loro confronti. Lolli porta l’esempio di un paziente con un ritardo cognitivo grave, Bruno, la cui unica attività finalizzata è quella di bere caffè rubandolo dalle tazzine degli avventori della comunità. Gli operatori decidono di offrirgliene una tazza nella loro stanza. Ciò costringe Bruno a relazionarsi con loro per ottenere il caffè. Pian piano, il tempo che Bruno passa in compagnia degli operatori è sempre maggiore: sembrerebbe che all’impulso di bere caffè, si sia affiancato il desiderio della compagnia dell’altro.

Disability Studies e Inclusione

Per una lettura critica delle politiche e pratiche educative

di: D. Goodley, S. D’Alessio, B. Ferri, F. Monceri, T. Titchkosky, G. Vadalà, E. Valtellina, V. Migliarini,
F. Bocci, A.D. Marra e R. Medeghini

In questo libro, diversi autori che fanno parte della corrente di pensiero dei Disability Studies e sono componenti del GRIDS (Gruppo di Ricerca Inclusione e Disability Studies, il quale si occupa di Inclusione Scolastica e Sociale), discutono di inclusione, e non solo, da una prospettiva problematizzante e critica verso tutte le teorie e prassi Mainstream, i cui presupposti raramente vengono messi in discussione.

Nella prefazione del volume, Fabio Bocci sottolinea come gli autori, pur avendo posizioni diverse, hanno svariati punti fermi in comune: la messa in discussione del modello medico oggi dominante, anche nella sua forma bio-psico-sociale; la convinzione che attraverso l’uso di un certo linguaggio si punti a normalizzare tutto ciò che risulta divergente; la critica di tutte quelle pratiche sociali che, in un modo o nell’altro, risultano discriminatorie o espulsive; la pratica di un sapere non esclusivamente accademico, bensì capace di contribuire all’emancipazione e all’auto determinazione dei dannati della terra: “Emancipazione e autodeterminazione da perseguire e conquistare dal basso, ossia attraverso forme di lotta (non vi è altro termine) sempre più ampie e partecipate, e non per grazia ricevuta da parte di chi detiene il potere e bonariamente elargisce spazi sociali ed esistenziali a categorie di umani sfortunati”.

Il libro è suddiviso in tre pati: La prima, dal titolo I tempi dell’inclusione fra abilismo, razzismo e potere, vede i contributi di Beth A. Ferri, Flavia Monceri, Tanya Titchkosky e Dan Goodley.

La seconda parte, intitolata L’educazione inclusiva fra rappresentazioni, discorsi e culture, raccoglie i saggi di Giuseppe Vadalà, Enrico Valtellina, Valentina Migliarini.

La terza parte, infine, che ha per titolo Dov’è l’inclusione scolastica? presenta i contributi di Simona D’Alessio, Fabio Bocci, Angelo D. Marra, Roberto Medeghini.

Il volume, pur occupandosi di diverse tematiche – si veda ad esempio il contributo di Tanya Titchkosky e Dan Goodley, che analizzano l’impatto delle politiche trumpiane e della Brexit sulla rappresentazione della disabilità, senza risparmiare critiche neppure alle politiche e alle rappresentazioni precedenti – si focalizza per gran parte sul tema dell’educazione scolastica, mostrando come il concetto dell’inclusione sia una tematica alquanto incompiuta e rimasta spesso soltanto sulla carta.

Gli autori si dimostrano fortemente critici verso la categoria dei BES (Bisogni Educativi Speciali), la quale rischia di etichettare gli studenti, marginalizzandoli ulteriormente, ma soprattutto scambia la difficoltà e l’incapacità dell’istituzione scolastica nel gestire tutto ciò che è “atipico”, con difficoltà e fragilità puramente individuali, ascrivibili ai singoli ragazzi e perciò affrontabili senza una messa in discussione del sistema educativo e scolastico nel suo complesso.

Il punto di forza di questo testo è proprio la critica, anche radicale, di alcuni paradigmi su cui si basa la scuola e più in generale la società. Percorre tutto il volume la messa in discussione degli assunti del sistema medico e del sistema economico e sociale attuale.

A seguire, dei brevi cenni su alcuni dei contributi del volume.

Beth A. Ferri, nel suo contributo riflette su come il concetto di abilismo e quello di razzismo spesso si intreccino all’interno del sistema scolastico, in quanto le percentuali di studenti migranti a cui viene affibbiata qualche etichetta diagnostica, è enormemente superiore rispetto a quella dei ragazzi non immigrati. Questa tendenza ripropone nei fatti una discriminazione nei confronti degli studenti migranti. L’autrice, inoltre, si domanda se aver allargato la categoria BES alla differenza culturale sia un passo verso l’inclusione o al contrario tende a discriminare maggiormente. Beth A. Ferri, per comprendere meglio la relazione tra abilismo e razzismo e per poterla affrontare nel miglior modo possibile, propone il concetto di DisCrit: Disability Critical Race Studies, ovvero una serie di principi guida e di domande utili a studiare questo fenomeno e approcciarlo in maniera critica.

Valentina Migliarini, utilizzando i DisCrit, analizza come anche in Italia ai minori non accompagnati venga attribuita un’etichetta di BES; in questo caso appare lampante come si confonda un’incapacità della società a confrontarsi con la complessità e la difficoltà che un simile incontro comporta, riducendo tutto a una categoria e pensando così di contribuire a risolvere un problema che ha radici ben più profonde.

Flavia Monceri analizza i processi che portano a non considerare pienamente umane le persone con disabilità e propone delle strade alternative nell’approccio alla disabilità, che destrutturino il pensiero corrente. Una di queste strade è quella di modificare la terminologia con cui ci si riferisce alla disabilità. L’autrice, ad esempio, al posto di deficit utilizza intralcio e al posto di disabilità utilizza il termine disabilitazione; entrambi questi termini spostano l’accento dall’individuo alla società che è disabilitante. Monceri inoltre, sottolinea come troppo spesso dai processi decisionali che riguardano le persone con disabilità, vengono escluse proprio queste ultime e che persino quando si parla di inclusione, non vengono coinvolte le persone che ne sono oggetto.

Simona D’Alessio sostiene che gran parte delle pratiche e delle politiche definite inclusive, siano in realtà integrative in quanto sono rivolte esclusivamente allo studente con delle difficoltà certificate e non al gruppo classe nel suo complesso. Questo paradigma è volto al mantenimento dello status quo. L’autrice sottolinea anche che le normative non vengono applicate alla lettera, ma sono sempre frutto dell’interpretazione dei vari attori che operano nel mondo della scuola; molto spesso il gruppo che ha maggiore potere riesce a imporre la sua visione. D’Alessio, al contrario di tutti quegli autori che sostengono che le politiche e le normative sono inclusive e che il problema stia unicamente nella loro applicazione fallace, mostra e argomenta come in realtà siano anche le politiche e le normative a ricalcare una logica integrativa e non inclusiva. L’autrice propone delle possibili soluzioni volte sia a evitare interpretazioni diverse da parte dei vari attori interessati, spinti da convenienze e interessi di parte, sia a promulgare leggi che puntino davvero all’inclusione scolastica.

Fabio Bocci propone un profilo dell’insegnante veramente inclusivo e critica ferocemente il sistema di formazione dei docenti, il quale favorisce la separazione fra l’insegnante curricolare e l’insegnante di sostegno, creando il fraintendimento che il primo non debba occuparsi di inclusione ed il rischio che il secondo diventi una figura iper-specializzata sul mondo della disabilità. Una tale prospettiva risulta inefficace nell’affrontare le complessità e le nuove consapevolezze teoriche che il sistema scolastico si trova oggi di fronte.

In conclusione, si suggerisce la lettura di questo volume a quanti desiderino approfondire la prospettiva dei Disability Studies. Se ne consiglia la lettura anche agli insegnati in cerca di un testo stimolante e spesso perturbante, perché, se è pur vero che questa corrente di pensiero viene vista da molti come radicale e utopica, è anche una voce il cui contributo critico costringe a una profonda riflessione inquanto “trova nutrimento nel porsi e nel porre domande, nel dubitare sinceramente, nell’aprire strade inedite che possano condurre a disambiguare ciò che si presenta come scontato o acclarato”.

È facile parlare di disabilità (se sai davvero come farlo)

La comunicazione giusta per un mondo inclusivo

di Iacopo Melio

L’intento dell’opera qui presentata risulta immediatamente chiaro a chiunque legga il titolo e il sottotitolo: parlare di disabilità non solo è possibile, ma addirittura facile, a patto però di saper utilizzare le parole giuste, che l’autore indica con grande sicurezza, ricorrendo a comodi specchietti, come quelli che si trovano solitamente in un testo di lingua inglese per le scuole.

Il volume è infatti pensato come un manuale della comunicazione inclusiva. Nell’introduzione Iacopo Melio si propone di contribuire a trasformare così profondamente il modo in cui si parla di disabilità da rendere superfluo ogni discorso specifico sull’eliminazione delle barriere architettoniche, sul diritto delle persone con disabilità ad una vita sociale ricca e non separata da quella delle persone non disabili e su ogni altra forma di discriminazione subita da coloro che hanno una disabilità.

Ovviamente si tratta di un obiettivo estremamente ambizioso e quasi irrealistico, ma sicuramente condivisibile; colpisce però moltissimo che per rappresentare in modo più concreto il proprio scopo, l’autore ricorra ad una fotografia che ritrae un ragazzo in carrozzina seduto di fronte ad una ragazza evidentemente non disabile. Entrambi sorridono e sembrano già trascorrere un momento piacevole, ma nella pagina successiva l’immagine è tagliata di netto, così da mostrare solo i volti sorridenti dei due: la carrozzina scompare completamente.

Sembra quasi, insomma, che il modo corretto di comunicare la disabilità sia nasconderla. Naturalmente l’intento è esplicitamente un altro, e Melio prosegue infatti con un’analisi critica di alcuni termini, come “diversamente abile” (superato in bruttezza solo da “diversabile”) che sono eufemismi probabilmente amati più da chi disabile non è, e magari prova una sorta di imbarazzo avvicinandosi al tema della disabilità. Utilizzare quest’avverbio prima di un aggettivo, inoltre, è ormai un modo per ridicolizzare una persona, definendola ad esempio “diversamente giovane” per sottolineare invece quanto sia anziana.

L’uso di termini che descrivono la disabilità a mo’ di insulto è una cattiva abitudine estremamente diffusa che ferisce quotidianamente le persone con disabilità, ma ancora una volta si insiste su quanto sia sbagliato parlare di diversità, utilizzando come esempio i successi della squadra femminile paralimpica alle recenti paralimpiadi di Tokio.

Davvero, si chiede l’autore, tre giovani atlete con disabilità capaci di vincere le medaglie più importanti, hanno qualcosa di diverso dalle loro coetanee sportive?

Pare proprio di sì, dato che oggettivamente hanno una disabilità causata da una menomazione, ma Melio, dopo aver giustamente notato come “diversamente abile” sia un eufemismo che ormai molte persone disabili rigettano, sembra insistere sulla cancellazione della diversità come strategia comunicativa davvero inclusiva.

Certo, il lavoro qui presentato vuol essere un “manuale pratico” per dirla con l’autore, e infatti l’analisi delle parole da non usare è giustamente seguita dalla proposta di termini invece giudicati corretti e rispettosi, poiché mettono al centro la persona. Il cosiddetto “Person-First Language”, per esempio, sottolinea come la persona con disabilità venga prima di ciò che la caratterizza come disabile.

Dire (e soprattutto dirsi!) “persona disabile” è però accettato da un gran numero di disabili, i quali rivendicano la disabilità come tratto distintivo della propria identità, e correttamente Melio rende conto di questa seconda opzione, definita non a caso “Identity-First Language”.

Ben vengano allora le istruzioni per l’uso, ma forse l’obiettivo non può essere parlare di disabilità non parlando di disabilità; è giusto parlare dei problemi che le persone disabili affrontano affinché tali problemi siano risolti, ma ciò non eliminerà mai la disabilità in sé, che è parte dell’identità di una comunità molto numerosa di persone.

Eppure, secondo l’autore, “la disabilità non esiste” e “io non sono la mia disabilità, ma le mie abilità”, come se più abilità fossero superiori alla disabilità, indicata al singolare. Queste frasi sono naturalmente inserite nel contesto di una rapida ricostruzione della trasformazione della percezione  della disabilità, originariamente vista come difetto individuale e problema di natura sanitaria, e oggi riconosciuta invece, anche dalle istituzioni internazionali, come questione sociale che riguarda la società intera. Se un gradino impedisce l’accesso ad un locale, la persona con disabilità non ha colpa, non è inadeguata (“invalida” è un altro termine purtroppo ancora ufficiale) e la sua inabilità a superare il gradino è il risultato dell’interazione di una difficoltà individuale con un ambiente cieco non soltanto alle esigenze della persona disabile, ma anche a quelle di un gran numero di individui, come anziani o genitori con passeggini.

La disabilità quindi esiste eccome in quanto questione sociale, ed esiste invece individualmente la menomazione. Il termine ha ormai una connotazione negativa, come l’autore sottolinea sconsigliandone l’uso, ma forse il problema si pone nella misura in cui si considera negativamente una parola, che sia la disabilità o la menomazione, e si cerca di trasformarla o di non dirla.

L’ambiguità rilevata fin qui è superata in maniera interessante da due saggi autonomi che riprendono però il discorso precedente, pubblicati a mo’ di conclusione del volume: Fabrizio Acanfora è scrittore e attivista autistico, e in poche pagine riprende in maniera efficace la discussione già riportata sopra tra quanti preferiscono dirsi persone con autismo e coloro i quali si dicono invece semplicemente autistici. Al di là delle scelte lessicali individuali, l’autore nota come l’autismo sia componente strutturale dell’identità di una persona, a tutti gli effetti una diversa organizzazione della mente, una neurodiversità che Acanfora finalmente rivendica, e che risulta invalidante in una società neurotipica scarsamente flessibile e preparata all’altro.

Il contributo di Flavia Monceri, la quale volutamente si definisce, in modo neutro, “filosofo politico”, risulta ancor più radicale del precedente: Monceri, riflettendo sull’insufficienza di tutte le definizioni, poco adatte a descrivere con parole universali l’esperienza individuale (e soprattutto l’esperienza della disabilità) invita ad abbandonare la pretesa di compilare un elenco di termini giusti contrapposto ad uno di termini sempre sbagliati.

Apparentemente così distante da Melio e dalle finalità pratiche del suo lavoro, Monceri chiude il discorso avviato da Melio condividendo la speranza espressa da quest’ultimo nelle prime pagine: che parlare di inclusione delle persone con disabilità serva a non doverne parlare mai più!

La lettura di questo volume è consigliata soprattutto in classe, come strumento di riflessione e confronto di gruppo sul significato e sul peso delle parole.

Scrivere Facile non è difficile

Di Nicola Rabbi

In questo libro Nicola Rabbi conduce una serie di riflessioni sulla scrittura controllata, detta anche esplicitata o easy to read. Questa tecnica consiste nello scrivere un testo, o spesso nel riscriverlo, in modo che sia comprensibile a una platea ampia e più estesa rispetto a quella che riuscirebbe a comprendere facilmente il testo originale, se questo è scritto in modo tradizionale. Come sottolinea efficacemente l’editore del testo: “non significa banalizzare o abbassare il livello culturale, ma proprio l’opposto: significa essere maggiormente consapevoli di quello che si scrive.”

L’autore sostiene che non siano soltanto le persone con disturbi specifici dell’apprendimento o quelle con una disabilità cognitiva a beneficiare di un simile lavoro, bensì anche tutta un’altra serie di categorie: le persone anziane, quelle con un basso livello di istruzione, quelle appena arrivate in Italia che non comprendono ancora bene la lingua e i riferimenti culturali presenti in un testo.

L’autore afferma che molte delle regole per una buona scrittura esplicitata siano riassumibili in quelle evidenziate da don Milani: “A Barbiana avevo imparato che le regole dello scrivere sono: aver qualcosa di importante da dire e che sia utile a tutti o a molti. Sapere a chi si scrive. Raccogliere tutto quello che serve. Trovare una logica su cui ordinarlo. Eliminare ogni parola che non serve. Eliminare ogni parola che non usiamo parlando. Non porsi limiti di tempo”. L’attenzione sta anche nel non usare termini desueti o complicati, verbi al passivo, metafore e tutto quanto rende un testo poco lineare. La formattazione, infine, deve facilitare la lettura dello scritto.

Rabbi sottolinea come ogni processo di scrittura controllata debba essere tarato sulle esigenze del pubblico a cui si rivolge e denuncia la scarsità di produzioni nazionali di scrittura esplicitata, soprattutto di carattere giornalistico, se paragonate alle esperienze presenti in nord Europa.

All’interno del saggio vengono inoltre proposti vari e disparati esempi di scrittura controllata, riportando sia parte del testo originale, sia la riscrittura easy to read. Tra di essi: il materiale per un corso di informatica, alcune comunicazioni della pubblica amministrazione, piccole parti del libro di Pinocchio, fino ad arrivare a una riscrittura della Costituzione Italiana.

Leggere l’inclusione – Albi illustrati e libri per tutti e per ciascuno

A cura di Enrico Angelo Emili, Vanessa Macchi

Leggere l’inclusione è un saggio, formato da contributi di diversi autori, che introduce il lettore al mondo dell’editoria accessibile. Nel libro si sottolinea con forza che tale tipo di editoria, per potersi definire inclusiva, deve sposare i principi dell’Universal Design for Learning: per ricomporre la cesura fra i lettori con una disabilità e gli altri lettori, un libro accessibile deve cioè essere utilizzabile e attrattivo anche per chi non presenta una disabilità. Ad esempio, un libro scritto in braille deve contenere anche il testo alfabetico, in tal modo quel testo può essere utilizzato da chiunque.

Gli autori esaminano le varie tipologie di libri accessibili, ma innanzitutto sottolineano con forza l’importanza e la bellezza della lettura, ricordando come essa sia un diritto di tutti. In caso di disabilità la lettura viene spesso bistrattata o non la si considera particolarmente rilevante, se messa a confronto con le problematiche che la persona disabile si trova a dover affrontare. Qui tale visione viene confutata e rovesciata per ribadire i molteplici motivi per cui il bambino che presenta una disabilità non possa e non debba assolutamente rinunciare alla lettura, uno degli strumenti principi per la crescita dell’individuo e per la sua inclusione.

Leggere l’inclusione si concentra prevalentemente sulla letteratura per l’infanzia: William Grandi, analizza come è stato trattato il tema della disabilità in questo tipo di letteratura dall’Ottocento ai giorni nostri. Marta Teresa Trisciuzzi porta alcuni esempi, che spaziano dal cinema per ragazzi alla letteratura rivolta a questa fascia di età, dai più conosciuti ai meno noti, in cui le differenze vengono fortemente valorizzate in modo non banale e scontato. Silvana Sola propone una serie di libri, nazionali e internazionali, che non possono mancare in una biblioteca inclusiva “che raccolga buoni libri, edizioni di particolare qualità visiva e testuale accanto a libri realizzati per rispondere a bisogni speciali. Libri nei quali si intrecciano storie e figure capaci di muovere l’immaginario, di parlare a bambini e ragazzi invitandoli a cogliere la complessità di una vita nella quale normale, diverso, unico, uguale, sono termini che si alternano senza creare gerarchie, ognuno con il proprio significato specifico, che può anche diventare altro a seconda dei contesti, delle narrazioni”.

Marcella Terrusi introduce i libri senza parole, ovvero quelli che raccontano una storia esclusivamente tramite immagini: libri che possono avere gradi di complessità molto diversi e che possono anche servire a fare emergere le voci di quei bambini del gruppo classe che di solito non si esprimono. Vanessa Macchia riflette sul valore altamente inclusivo del Kamishibai. Questa tecnica nasce in Giappone alla fine degli anni ’20 del secolo scorso: un cantastorie itinerante raccontava delle storie per bambini con l’uso di disegni eseguiti su cartoni. Andato in disuso quando si è diffusa la TV, il kamishibai sta tornando in auge nelle scuole, perché, oltre a stimolare la creazione di una storia, favorisce il consolidarsi di legami all’interno del gruppo classe e permette a quei bambini che fanno fatica a leggere di giocare ad armi pari con gli altri. Inoltre, essendo uno strumento particolarmente duttile, si può facilmente adattare, ad esempio, ai bambini con bisogni comunicativi complessi.

Enrico Angelo Emili si occupa di dislessia e illustra le varie modalità per facilitare la lettura a chi sperimenta questo disturbo. Inoltre, propone alcuni libri che hanno come protagonisti persone con dislessia e scritti di personaggi famosi che raccontano la propria esperienza.

Moira Sannipoli discute dei libri in simboli. Questa tipologia viene usata generalmente con bambini che non riescono ad accedere ad un sistema simbolico così strutturato e complesso come quello alfabetico. Enrica Potato approfondisce il tema dei libri tattilmente illustrati: libri che aiutano i bambini non vedenti, attraverso immagini in rilievo, a formarsi una rappresentazione della realtà e favoriscono la relazione con i coetanei e con i propri genitori. Purtroppo, questo tipo di letteratura non è molto diffusa a causa degli eccessivi costi di produzione.

 

Disabilità e società. Diritti, falsi miti, percezioni sociali – Tom W. Shakespeare

Il titolo dell’opera chiarisce da subito l’intento dell’autore: se lo studio della disabilità vuol essere rigoroso e al tempo stesso politicamente impegnato e utile, dev’essere certamente guidato da una teoria forte e magari innovativa e non può mai prescindere dall’esperienza concreta della disabilità, soprattutto dunque dal vissuto delle stesse persone con disabilità.

Questa premessa potrebbe apparire ovvia, soprattutto al lettore che con la disabilità ha già familiarità, eppure basterebbe pensare un momento alle rappresentazioni della disabilità che oggi sono più presenti: da un lato, la disabilità come tragedia che dovrebbe commuovere lettori e spettatori, una modalità di comunicazione spesso utilizzata dai media tradizionali, che in qualche misura sfruttano la disabilità stessa; dall’altro, veicolata soprattutto dai social media, un’immagine della disabilità intesa soprattutto come uno svantaggio prodotto da scelte politiche poco inclusive e radicate in un modo di pensare anacronistico e carico di pregiudizi.

Benché questo secondo approccio alla disabilità sia preferibile e sia adottato da molte persone con disabilità che attraverso i nuovi media riescono ad acquisire direttamente visibilità, decidendo autonomamente quanto esporsi e quali argomenti trattare, talvolta si ha l’impressione che la differenza che caratterizza le persone con disabilità scompaia. Il racconto è incentrato principalmente sull’importanza dell’utilizzo di parole diverse per descrivere la disabilità e sulla necessità di rendere davvero accessibili luoghi ed eventi, quasi a suggerire che adottando tutti gli opportuni accorgimenti, materiali e culturali, si possa in un certo senso far scomparire la disabilità.

L’autore dell’opera – è bene chiarirlo – non è soltanto un sociologo piuttosto noto, ma anche una persona con un difetto della crescita congenito e piuttosto evidente, ha origini altolocate e alle spalle una collaborazione con l’Organizzazione Mondiale della Sanità per la redazione del Rapporto mondiale sulla disabilità del 2011 che lo ha temporaneamente allontanato dall’insegnamento universitario e lo ha quasi obbligato a riesaminare le proprie teorie, prima fra tutte quella che prende il nome di “modello sociale della disabilità”. Profondamente influenzato dall’ideologia marxista, il modello sociale britannico riduce l’esperienza della disabilità a quella di una classe, oppressa economicamente e socialmente, contrapposta ad una classe di oppressori che essenzialmente comprende tutte le persone non disabili.

Una generalizzazione di questa portata sembrerebbe assurda, eppure Tom Shakespeare sottolinea l’importanza del modello sociale in ambito accademico e la rilevanza che esso ha avuto sul piano politico: l’ampia portata e la semplicità di questa teoria hanno infatti consentito di spostare il problema dall’individuo disabile – in precedenza considerato un malato, un’eccezione alla regola – alla società nel suo complesso, non organizzata per accogliere tutte le persone che effettivamente la compongono. Per quanto semplicistico, il modello sociale è alla base delle battaglie per l’abbattimento delle barriere architettoniche e della lotta per la vita indipendente e quindi dagli anni Settanta ad oggi non è mai stato superato del tutto, rimanendo all’interno del dibattito pubblico lo strumento più valido per scardinare la visione pietistica della disabilità e dare voce alle istanze delle persone disabili, finalmente in grado di essere soggetti attivi nella trasformazione di una società effettivamente inadeguata a rispondere ai loro bisogni.

Come però spiega chiaramente Shakespeare, immaginare con i teorici del modello sociale un villaggio interamente pensato per accogliere persone con disabilità, progettato così minuziosamente che sarebbe impossibile per le persone non disabili muoversi agevolmente al suo interno, capovolge il problema senza risolverlo. Oggi si è certamente più inclini a pensare nei termini della progettazione universale, secondo criteri validi quindi per tutte le persone, con o senza disabilità, tenendo inoltre a mente che le disabilità non sono solo di natura motoria, eppure nemmeno un ambiente completamente accessibile per chiunque eliminerebbe la disabilità, o meglio, la menomazione che ne è la prima causa.

Ogni tentativo di mettere al centro la menomazione è ormai controverso, e l’autore lo riconosce, ma nel farlo ricorda come la disabilità sia un fatto complesso, che emerge dall’incontro di caratteristiche fisiche, sensoriali o intellettive con elementi culturali e ambientali che non possono essere utilizzati per nascondere le differenze che caratterizzano il corpo e la mente di alcuni individui. L’analisi di Shakespeare sembra anacronistica, superata dallo spostamento dell’attenzione dalla persona con disabilità alle barriere che la ostacolano, ma la rimozione di uno scalino non comporterà mai, ad esempio, la scomparsa del dolore neuropatico dovuto a una lesione midollare che l’autore spiega di aver subito, una menomazione che in un secondo tempo si è aggiunta al deficit della crescita e lo ha obbligato ad utilizzare una sedia a rotelle. L’ulteriore menomazione è parte integrante dell’esperienza del sociologo, e accresce la sua disabilità a dispetto di tutti gli sforzi che il modello sociale ha compiuto per promuovere il tema dell’accessibilità.

Il successo politico del modello sociale, che tutti noi ormai, magari inconsciamente, adottiamo, rischia di togliere spazio all’esperienza concreta della disabilità, che spesso comporta dolore e fatica, riducendo ad esempio le opportunità lavorative e la libertà di spostamento. Il punto di vista di Tom Shakespeare sembra condizionato da un forte pessimismo, eppure il sociologo ha la capacità di riportare al centro della discussione il tema della giustizia sociale e della redistribuzione delle risorse, spesso relegato in secondo piano. La disabilità comporta costi maggiori per persone che in molti casi sono fisicamente costrette a lavorare per un numero di ore inferiore o addirittura del tutto impossibilitate a svolgere attività remunerate, e la dignità di queste persone non può essere il risultato della loro integrazione in una società idealmente priva di ostacoli materiali e culturali; il riconoscimento della dignità delle persone dovrebbe piuttosto essere il motore dell’inserimento di tutti gli individui nella società.

 

Disabilità e società è quindi un’opera scomoda per accademici, politici e attivisti per i diritti delle persone con disabilità, soprattutto se personalmente disabili: i privilegi di cui lo stesso autore gode in quanto nobile inglese o grazie alla propria posizione di docente universitario, non modificano la sua identità di persona con disabilità ed è anzi questa irriducibile e profonda diversità a permettere all’autore di mettersi in gioco personalmente utilizzando gli strumenti culturali di cui dispone per andare oltre la stessa cultura della disabilità. Da tempo il modello sociale convive con gli studi culturali della disabilità, che mirano a descrivere ogni diversità – non solo quella fisica – come il prodotto di una mentalità collettiva repressiva che dividerebbe gli individui e le loro caratteristiche in normali e patologiche, imponendo alcuni schemi relativi a ciò che l’uomo dovrebbe essere e fare, e censurando tutto ciò che se ne discosta.

Proprio come il modello sociale, gli studi culturali sulla disabilità hanno il merito di mettere in discussione ciò che appare ovvio e consolidato, insistendo nello specifico sulle parole che si usano per descrivere persone e situazioni, mostrando quanto i termini del discorso influenzino il modo in cui si percepisce la realtà. Tuttavia, è ben difficile credere che il discorso che si fa sulla disabilità crei la disabilità stessa, come secondo Shakespeare farebbero gli studi culturali. Non solo il discorso pubblico e istituzionale, ma anche i discorsi privati devono essere esaminati e spesso modificati: si dice ormai “disabilità” e non “handicap” termine che rimandava all’accattonaggio e all’emarginazione, ma questo non cancellerà le menomazioni o anche solo le differenze sensoriali che sono alla base della disabilità stessa. Allo stesso modo la diagnosi di un disturbo dell’apprendimento può spaventare, poiché le persone interessate potrebbero temere di essere considerate incapaci o inferiori, ma è sul pregiudizio che bisogna agire. Come spiega l’autore, è possibile pensare che se la società non richiedesse abilità di lettura standardizzate la dislessia non verrebbe nemmeno diagnosticata, eppure viviamo nell’economia della conoscenza, ed è quindi giusto che le persone con dislessia ricevano supporto, poiché la difficoltà esiste indipendentemente della diagnosi e dalla stessa necessità di leggere.

Tom Shakespeare ritiene che il modello sociale e gli studi culturali possano essere considerati totalmente validi solo da coloro che non sperimentano la disabilità o hanno già abbondanti risorse per compensarla, ma si tratta comunque di importanti strumenti di trasformazione della società a disposizione di quanti, accettando la disabilità come diversità ineliminabile che però non riduce il valore della persona, vogliano lottare per rendere la società davvero inclusiva.

La lettura di questo saggio è fortemente consigliata ad operatori e persone con disabilità che abbiano familiarità con i disability studies: il taglio molto pragmatico del lavoro lo rende originale e stimola chi legge ad adoperarsi per produrre un vero cambiamento.

Inclusione, culture e disabilità

A cura di Lucia de Anna, Charles Gardou e Alessio Covelli.

Il libro Inclusione, cultura e disabilità illustra l’esperienza di dottorato coordinata dalla Professoressa De Anna dell’Università di Roma “Foro Italico” sul tema disabilità e inclusione. Il dottorato, durato diversi anni accademici, ha coinvolto università, docenti e dottorandi di molte nazioni europee ed extraeuropee, quali Brasile, Senegal, Russia e Taiwan.

Gli autori sottolineano che un dottorato di ricerca con un simile respiro internazionale, su queste tematiche, rappresenta un’esperienza più unica che rara, avendo permesso di indagare le pratiche e il tema dell’inclusione anche in contesti storicamente, economicamente e culturalmente diversi dal nostro: il lettore ha così la possibilità di gettare lo sguardo oltre i confini nazionali ed europei.

Due capitoli del testo analizzano ad esempio il contesto brasiliano.  Maria Alice Rosmaninho Perez descrive la situazione del Paese per quanto riguarda l’inclusione degli studenti con disabilità, sottolineando come molto spesso essi siano relegati in istituti speciali, sebbene la legislazione preveda il loro inserimento nella scuola pubblica. Maria Cecilia Cortez Christiano de Souza e Paula Nascimento da Silva, rifacendosi alla teoria di Adorno e Horkheimer, ci parlano della rappresentazione dei giovani brasiliani, alquanto negativa, che i mezzi di comunicazione e gli altri attori sociali veicolano e riflettono su quanto questi ultimi, illudendosi di acquisire un peso sociale all’interno del sistema, acquistino beni di consumo non necessari, come status symbol, impoverendosi ulteriormente ed entrando in tal modo in un circolo vizioso da cui è difficile uscire.

Gli autori sottolineano come l’esperienza abbia permesso di costruire una rete e spazi di confronto molto proficui tra i vari ricercatori. Il dottorato ha uno sguardo che si rifà alla pedagogia speciale e ad autori come Paulo Freire, ma, al contempo, ha una visione antropologica e aperta ad altre discipline quali la psicologia e la sociologia.

Le ricerche presentate nel volume seguono tre direttrici: “Il primo itinerario si riferisce a tutte quelle ricerche che, analizzando contesti differenti (scuola, media, sanità), hanno approfondito le questioni relative alla rappresentazione della disabilità, alla co-costruzione e al riconoscimento dell’identità e dei ruoli sociali delle persone in tale situazione con un’attenzione anche alle questioni di genere. Il secondo itinerario rimanda, invece, alla ricerca educativa e formativa sugli aspetti propri della progettualità pedagogico-didattica per l’inclusione delle persone con disabilità nella scuola e all’università, con un’attenzione rivolta anche ai processi di insegnamento/apprendimento che coinvolgono la sfera corporea e il movimento. L’ultimo itinerario estende lo sguardo della ricerca sull’inclusione ad altri contesti e dimensioni esistenziali delle persone con disabilità con particolare riferimento al mondo lavorativo, alle pratiche di volontariato, al tempo libero e al turismo accessibile.”

Per quanto riguarda il primo itinerario, citiamo la ricerca di Cheikh Tidiane Tine, la quale approfondisce il ruolo che ricopre la rappresentazione della disabilità da parte degli insegnanti sulle pratiche di insegnamento e di approccio agli studenti disabili. L’autrice sottolinea: “i risultati della nostra indagine ci hanno insegnato che le caratteristiche personali e professionali degli insegnanti non sono così decisive in termini di contenuto delle loro rappresentazioni e della loro tendenza a modificare o adattare le loro pratiche di insegnamento. Tutto sembra dipendere più dalla loro sensibilità e dalla loro umanità. Tuttavia, appare chiaro come le rappresentazioni che gli insegnanti hanno dell’inclusione e degli studenti con disabilità siano abbastanza contraddittorie: valorizzazione dell’inclusione da un lato (rispetto delle differenze e dei diritti, partecipazione, ecc.) e svalutazione degli alunni dall’altro”.

In riferimento al secondo itinerario portiamo all’attenzione la ricerca di Anderson Spavier Alves, il quale analizza i processi di inclusione di bambini migranti e con disabilità all’interno della scuola primaria, ponendosi come domanda di ricerca se l’appartenenza a una seconda minoranza favorisca oppure ostacoli ulteriormente l’inclusione. La conclusione dell’autore è che la disabilità favorisca l’inclusione: “Uno degli stigmi riduce l’altro. In altre parole, la disabilità si configura come un elemento normalizzante nel confronto con l’altro elemento stigmatizzante (essere immigrato)”.

Per il terzo itinerario segnaliamo la ricerca di Luigi Salvio che analizza le competenze dei volontari appartenenti a diverse associazioni che lavorano con la disabilità e si interroga su quanto le competenze acquisite in modo informale nel corso dell’esperienza di volontariato siano traslabili nel mondo del lavoro. L’autore conclude che il volontario non acquisisce competenze tecniche, bensì accresce le sue competenze relazionali e la sua capacità empatica, perciò, può essere una figura ponte fra il mondo dei professionisti e il percorso d’integrazione a cui il disabile aspira.

Forse, nell’economia generale del volume, viene dato poco spazio alle singole ricerche dei dottorandi: se è pur vero che ad esse viene dedicata la seconda e la terza parte del libro, le ricerche sono molte e quindi lo spazio per ognuna è veramente limitato. Si segnala inoltre che quattro capitoli del libro non sono stati tradotti in italiano.

Tra i diversi contributi offerti, particolarmente significativo è quello del professor Andrea Canevaro, il quale, nel capitolo “Il bastone e il serpente”, riflette su come in questo momento storico i caregiver delle persone con disabilità, percependo il mondo e gli altri come ostili, sentendosi circondati da serpenti, chiedano a gran voce “il bastone”, che fuor di metafora l’autore identifica nell’insegnante di sostegno. Pur capendo perfettamente una simile richiesta e un simile stato d’animo, l’autore si sofferma sulle problematiche del delegare molti aspetti dell’istruzione dello studente con disabilità a una figura ad hoc; ne critica anche la denominazione in quanto rimanda a un rapporto esclusivo e si domanda se l’esclusività di questo rapporto non possa, paradossalmente, ostacolare il processo di integrazione. Canevaro propone invece il concetto di “sostegno diffuso”, in cui non esista più una figura specifica che si occupa dello studente con disabilità; una simile trasformazione richiederebbe un cambiamento strutturale oltre che culturale e risolverebbe anche i problemi che possono presentarsi al momento del passaggio all’università, dove l’insegnante di sostegno non è previsto. L’autore è dell’opinione che perfino i docenti universitari, quando si trovano di fronte uno studente con disabilità o con DSA, non sanno bene come comportarsi e in fondo pensano che l’ambiente accademico non sia il suo posto. Questo lo porta a riflettere su quanto sia diffusa la convinzione che la disabilità sia un problema dei singoli e non anche un problema legato a quanto una società sia “disabilitante”, cioè incapace di adattare le proprie pratiche alle persone con disabilità chiedendo piuttosto a queste ultime di adattarvisi.

Concludendo, si consiglia la lettura del volume “Inclusione, culture e disabilità” agli insegnanti alla ricerca di spunti e suggerimenti interessanti sul tema dell’inclusione scolastica degli studenti con disabilità e a coloro che desiderino approfondire le tematiche oggetto del percorso presentato. Il volume rappresenta, infatti, un ottimo punto di partenza bibliografico grazie ai numerosi lavori di ricerca citati.

Inclusione-culture-disabilità

Un’aliena nel cortile. Capire gli studenti con sindrome di Asperger – Clare Sainsbury

Se il titolo di questo interessante testo può catturare l’attenzione suggerendo la presenza di elementi fantascientifici, è invece il sottotitolo a chiarire lo scopo dell’autrice: capire gli studenti con sindrome di Asperger è il presupposto essenziale che i loro insegnanti devono quotidianamente tenere presente se vogliono portare a termine con successo il loro compito.

Questa premessa potrebbe apparire ovvia, tuttavia Sainsbury, che tra mille difficoltà ha portato a termine gli studi ed è attiva nel campo della formazione di persone con sindrome di Asperger, fin dai primi capitoli sottolinea come il desiderio degli educatori (e in generale degli adulti) di evitare che bambini e ragazzi siano etichettati come diversi perché formalmente collocati nello spettro di questa sindrome, non impedisce nei fatti che i compagni e gli stessi insegnanti li giudichino strani o sgarbati, poiché “evitare le etichette non fa scomparire le differenze”.

Spesso, invece, il rischio che le persone diverse siano etichettate e stigmatizzate è combattuto avviando un processo di normalizzazione che, pur con le più nobili intenzioni, è sempre ambiguo. Se per un verso normalizzare significa dare a chi ha una disabilità le stesse possibilità, per l’altro significa rendere normale non la vita della persona diversa, bensì la persona stessa, rendendola più accettabile agli occhi dell’altro. Accade ad esempio quando si impedisce allo studente con Asperger di passeggiare all’interno della classe o di disegnare al fine di focalizzare meglio l’attenzione sul contenuto della lezione, semplicemente perché tali azioni risultano sconvenienti e poco rispettose nei confronti dell’insegnante e dei compagni di classe.

Esempi semplici come questi rendono alla perfezione lo spirito del saggio di Clare Sainsbury: Un’aliena nel cortile non è una collezione di prese di posizione contro la discriminazione, bensì un’analisi lucida di esperienze quotidiane, vissute a scuola e in misura minore in famiglia, che mettono in luce quanto le aspettative che gli adulti nutrono circa la possibilità dello studente con tratti autistici di conseguire buoni risultati in ambito scolastico siano condizionate dal diverso metodo di apprendimento che lo studente adotta – o adotterebbe – se lasciato libero e addirittura incoraggiato ad individuare i propri punti di forza per compensare possibili debolezze.

Nel testo si alternano, in modo estremamente interessante, brevi testimonianze autobiografiche di Clare e di altre persone con sindrome di Asperger e analisi delle stesse, al fine di far comprendere al lettore sia il diverso funzionamento dello studente “neurodivergente” – con suggerimenti utili a sviluppare tecniche di insegnamento diverse e adeguate a bisogni diversi – sia la natura convenzionale delle regole sociali che governano la vita della classe, date sempre per scontate e in qualche modo illuminate dalla comprensione letterale del linguaggio che spesso caratterizza le persone con sindrome di Asperger:

In seconda o in terza, la classe cominciò a discutere sull’anima e su Dio. Essendo cresciuto in una famiglia di atei, non avevo idea di queste cose, e mi misi a far sapere a tutti quanto fossero stupidi con questa storia del loro amico immaginario”.

E ancora:

Mentre esprime le proprie opinioni con ammirabile vigore, Clare potrebbe essere più indulgente con le incerte opinioni altrui”.

Lo studente con sindrome di Asperger è dunque redarguito per aver fatto ciò che era richiesto alla classe nella stessa misura in cui è rimproverato per aver infranto il divieto di disegnare nel corso di una lezione frontale, ma l’obbligo più o meno tacito di prestare attenzione esclusivamente all’insegnante risponde ad un diverso modo di apprendere, che in alcuni soggetti con Asperger non si basa sui concetti, ma sulle immagini, mentre una certa aggressività verbale nel corso di dibattiti dipende appunto dalla mancata conoscenza di regole sociali spesso implicite.

Ogni comportamento è invece ridotto alla presunta mancanza di rispetto per insegnanti e compagni, tanto da indurre l’autrice ad affermare che l’inclusione totale e ad ogni costo in scuole tradizionali non sia necessariamente nell’interesse dello studente, e che spesso nasconda invece la paura del diverso e il desiderio che chi non è considerato normale scompaia nella folla.

Il punto di vista che il testo offre a proposito delle scuole speciali sfida il lettore, soprattutto nel contesto italiano, ma è interessante il tentativo di tenere insieme l’inclusione in scuole tradizionali e l’acquisizione di competenze sociali frequentando, magari per un periodo di tempo limitato, luoghi in cui sia possibile imparare ciò che solitamente è considerato scontato.

Allo stesso modo è spesso considerato ovvio che una certa quantità di violenza, fisica e verbale, sia presente nella relazione tra studenti, giustificando così atti di bullismo che nemmeno gli insegnanti percepiscono sempre come tali, e che invece turbano profondamente bambini e ragazzi con sindrome di Asperger, impossibilitati a comprendere come comportamenti letteralmente violenti siano invece da intendere come metaforicamente scherzosi. Questo libro è dunque consigliato a insegnanti e genitori di studenti con sindrome di Asperger, ma può risultare utile a chiunque voglia riflettere sulla violenza nascosta in molte relazioni, proprio in virtù del taglio estremamente lucido e critico dato dall’autrice.

Percorsi minori dell’intelligenza – Franco Lolli

In Percorsi minori dell’intelligenza, Franco Lolli si occupa di clinica della disabilità intellettiva.

Il lettore vi troverà alcuni concetti fondanti della teorizzazione lacaniana, così come molte vignette cliniche, che, oltre a rendere la lettura più scorrevole, illustrano la funzione pratico-clinica di concetti molto complessi ed estremamente teorici.

Lolli sottolinea come la psicoanalisi tenda, per svariate ragioni, a non occuparsi di disabilità intellettiva, lasciando questo campo sotto l’egida delle neuroscienze e della psicologia cognitiva.

L’autore, muovendosi in una cornice lacaniana, mostra come anche la psicoanalisi possa essere utile in questo campo, proprio per la sua capacità di allargare lo sguardo. Lolli, pur sottolineando con forza l’impatto che ha una lesione cerebrale sulle capacità cognitive, sostiene che una percentuale non trascurabile di persone ha un ritardo cognitivo pur in assenza di un danno organico riscontrabile. “Che si tratti di danno meccanico, biochimico, genetico o altro, resta, in ogni caso, abbastanza misterioso il meccanismo specifico di costituzione dell’insufficienza mentale. Coerentemente con i dati presentati dall’American association on mental retardation “allo stato attuale le cause del ritardo mentale sono ancora sconosciute in circa il 30% dei ritardi gravi e nel 50% dei ritardi lievi”. Questo dato porta Lolli a interrogarsi sui fattori che accomunano i due gruppi di soggetti: la sua teoria è che essi non abbiano acquisito il sistema simbolico.  La padronanza di questo sistema permetterà lo sviluppo delle capacità cognitive, linguistiche e, più in generale, tutta una serie di capacità che ci consentono di muoverci nel mondo e di entrare in relazione con l’altro.

Semplificando un concetto ben più complesso e sfaccettato, per la corretta installazione del sistema simbolico si devono verificare tre condizioni: un bambino molto piccolo in grado di rispondere in modo coerente ai segnali della madre, una figura materna che risponda con sollecitudine ai bisogni del figlio e provi un desiderio in grado di particolarizzarlo e una figura paterna che non deve essere per forza una persona in carne e ossa, ma che va intesa più come una funzione in grado di interrompere il rapporto fusionale che si instaura tra il figlio e la madre. Questa figura, distogliendo l’attenzione e soprattutto il desiderio della madre dal bambino e catalizzandolo su di sé, induce il figlio a interrogarsi su cosa la madre desideri oltre lui e gli permette di desiderare a sua volta. È questo uno dei primi passi che fa sì che il bambino possa accedere alla funzione simbolica.

Lolli sostiene che, in caso di disabilità del figlio, spesso qualcosa in questo processo può non funzionare: i genitori provano un sentimento di rifiuto nei confronti del bambino che quindi può non essere circondato dal desiderio della madre. La madre, anche per compensare questo sentimento di rifiuto, spesso anticipa tutti i bisogni del figlio e soprattutto il padre, che frequentemente è assente, non svolge la funzione di terzo che permetterebbe al bambino di interrogarsi sul desiderio della madre e di desiderare lui stesso. Se inoltre consideriamo che spesso il bambino che svilupperà un ritardo cognitivo è in una condizione organica che rende molto più complicato il rapporto con il mondo esterno, è evidente che la funzione simbolica del piccolo fatichi a svilupparsi. “In questo senso, l’eventuale lesione cerebrale (qualunque ne sia l’origine) sembra costituirsi come evento fondamentale nell’esistenza del soggetto, come accadimento primario capace di distorcere, a volte persino di impedire, il rapporto del soggetto con il mondo che lo circonda; in termini analitici, l’evento della lesione – il reale del corpo – condiziona e ostacola il rapporto del soggetto con il significante – ovvero, il suo ingresso nell’universo simbolico.”

Sulla base di queste considerazioni teoriche, l’autore, partendo da diversi casi clinici, propone alcune riflessioni molto interessanti: ragiona sul motivo per cui alcune persone con disabilità intellettiva hanno un rapporto così particolare con gli oggetti; spiega il motivo per cui un utente non manifesti sentimenti di lutto quando la madre, a cui era molto legato, muore; si sofferma sul rapporto tra la mancata acquisizione del sistema simbolico, l’estrema difficoltà a non tollerare l’assenza dell’oggetto e le difficoltà cognitive.

Lolli ragiona poi sul motivo per cui i disabili intellettivi spesso interpretino dei ruoli specifici e fissi e facciano molta fatica a separarsene. Sottolinea come l’inconscio della persona con disabilità intellettiva sia molto più in superficie, ma anche come spesso gli operatori attribuiscano le manifestazioni atipiche, anziché ai moti inconsci, alle difficoltà cognitive del soggetto disabile.

L’autore riporta come sia comune, per chi lavora nel campo della disabilità intellettiva, riscontrare che pazienti con un ritardo cognitivo particolarmente grave manifestino una sorta di “Furbizia”, ossia una serie di capacità inaspettate, volte alla soddisfazione di un bisogno specifico. Tuttavia, Lolli sostiene che questa serie di azioni che la persona con disabilità intellettiva compie, non siano inserite in un quadro, il sistema simbolico, che dota di senso questo agire, ma vengano scatenate da un segnale e non cambino al mutare del contesto. L’autore sottolinea però che ciò non vuole assolutamente dire che il loro comportamento sia immutabile, anzi, proprio perché ogni persona è comunque inserita in un universo simbolico ed è circondata da persone desideranti, il comportamento può essere almeno in parte modificato.

Il compito della clinica della disabilità intellettiva è per Lolli quello di partire dai comportamenti dei pazienti e provare a inserirli nell’universo simbolico, relazionale e desiderante. La capacità desiderante di questi pazienti per varie ragioni non si è sviluppata ed perciò fondamentale che essi percepiscano il desiderio, non intrusivo, dell’altro nei loro confronti. Lolli porta l’esempio di un utente con un ritardo cognitivo grave, Bruno, la cui unica attività finalizzata è quella di bere caffè rubandolo dalle tazzine degli avventori della comunità. Gli operatori decidono di offrirgliene una tazza nella loro stanza. Ciò costringe Bruno a relazionarsi con loro per ottenere il caffè. Pian piano, il tempo che Bruno trascorre in compagnia degli operatori è sempre maggiore: sembrerebbe che all’impulso di bere caffè si sia affiancato il desiderio della compagnia dell’altro.

 

A scuola è il respiro del mondo – Giovanna Di Pasquale

In questo libro Giovanna Di Pasquale mette radicalmente in discussione molti dei fondamenti che rimandano a una visione “classica” del processo insegnamento-apprendimento. Secondo l’autrice, non ci si può più comportare come se le conoscenze fossero una serie di nozioni da riversare dalla testa dell’insegnante a quella dello studente mediante un imbuto. Al contrario, l’apprendimento è un processo complesso e dialogico, influenzato da una serie di fattori: la relazione tra insegnante e allievo, le esperienze di quest’ultimo, il suo stile d’apprendimento. Inoltre, l’autrice sottolinea l’importanza delle emozioni che accompagnano l’apprendimento, la necessità che l’insegnante non perda di vista il fatto che lo studente ha interessi e risorse anche al di fuori della scuola e che questi possono essere utilizzati per coinvolgerlo e per migliorare le strategie d’apprendimento.

L’insegnante dovrebbe riflettere costantemente sul suo stile di insegnamento in modo da poterlo ampliare il più possibile: facendo schemi, riprendendo il testo, utilizzando figure, riassumendo la lezione. Andrebbero usate tutte queste modalità nella spiegazione dei vari argomenti, in modo da poter andare incontro agli stili e alle esigenze di tutti gli allievi. L’autrice sottolinea come un simile approccio favorisca l’apprendimento e l’inclusione di allievi con disturbi specifici d’apprendimento, con disabilità, allievi appena arrivati in Italia o chiunque sperimenti qualsiasi altra difficoltà. In conclusione, G. Di Pasquale sostiene come “a insegnare a quelli bravi sono bravi tutti” e che compito e sfida del sistema scolastico sia proprio quello di non dimenticarsi e non emarginare gli allievi che, per qualsiasi motivo, fanno più fatica. A tal fine suggerisce una serie di metodologie, ma soprattutto, porta avanti una prospettiva inclusiva che considera gli allievi dei soggetti attivi.

A Capo Nord bisogna andare due volte – Valeria Alpi

Valeria Alpi narra in modo estremamente coinvolgente il suo viaggio a Capo Nord. “A Capo Nord bisogna andare due volte” è  il resoconto di un viaggio e delle sue tappe: luoghi e persone, avventure e disavventure, riflessioni (anche di carattere più generale), da cui emerge tutta la passione dell’autrice per il viaggio.

La particolarità di questo libro consiste però nell’essere stato scritto da una persona con una disabilità: l’autrice ha una disabilità motoria che le causa difficoltà nel camminare, nel portare pesi e nel salire le scale. Queste difficoltà non farebbero pensare a una viaggiatrice che compie in solitaria per ben due volte un viaggio in auto Bologna – Capo Nord.

Valeria Alpi descrive molto bene le problematiche che una persona con disabilità deve affrontare, a partire dalla cura e dalla meticolosità con cui organizzare il viaggio. Sottolinea, ad esempio, come sia necessario controllare, a volte in modi molto creativi, che tutti i luoghi da visitare e quelli in cui pernottare siano accessibili e come spesso debba mettere in atto accorgimenti più o meno peculiari.

Tuttavia, l’autrice riflette su come molte paure e dubbi non dipendano dalla disabilità, ma siano comuni a tutti i viaggiatori. Sottolinea inoltre come a volte la disabilità possa rappresentare un vantaggio, ad esempio nel suo caso il dover utilizzare l’auto le ha permesso sia di spostarsi più liberamente, sia di portarsi ampie scorte di cibo.

Infine l’autrice, pur avendo fatto un viaggio molto ambizioso, porta avanti una riflessione davvero interessante sul concetto di limite. Secondo lei i propri limiti vanno rispettati profondamente: il viaggio a Capo Nord l’aveva sempre escluso perché pensava che a quelle latitudini ci fosse perennemente la neve su cui non riesce a camminare.

Alpi sostiene come il viaggiare, qualunque sia la meta, non per forza Capo Nord, possa essere un ottimo modo per confrontarsi sia con i propri limiti che con le proprie risorse.

In conclusione, Valeria Alpi descrive il suo viaggio in modo vivo e appassionante, terminata la lettura è probabile che abbiate voglia di andare a Capo Nord!