Disabilità e società. Diritti, falsi miti, percezioni sociali – Tom W. Shakespeare

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Il titolo dell’opera chiarisce da subito l’intento dell’autore: se lo studio della disabilità vuol essere rigoroso e al tempo stesso politicamente impegnato e utile, dev’essere certamente guidato da una teoria forte e magari innovativa e non può mai prescindere dall’esperienza concreta della disabilità, soprattutto dunque dal vissuto delle stesse persone con disabilità.

Questa premessa potrebbe apparire ovvia, soprattutto al lettore che con la disabilità ha già familiarità, eppure basterebbe pensare un momento alle rappresentazioni della disabilità che oggi sono più presenti: da un lato, la disabilità come tragedia che dovrebbe commuovere lettori e spettatori, una modalità di comunicazione spesso utilizzata dai media tradizionali, che in qualche misura sfruttano la disabilità stessa; dall’altro, veicolata soprattutto dai social media, un’immagine della disabilità intesa soprattutto come uno svantaggio prodotto da scelte politiche poco inclusive e radicate in un modo di pensare anacronistico e carico di pregiudizi.

Benché questo secondo approccio alla disabilità sia preferibile e sia adottato da molte persone con disabilità che attraverso i nuovi media riescono ad acquisire direttamente visibilità, decidendo autonomamente quanto esporsi e quali argomenti trattare, talvolta si ha l’impressione che la differenza che caratterizza le persone con disabilità scompaia. Il racconto è incentrato principalmente sull’importanza dell’utilizzo di parole diverse per descrivere la disabilità e sulla necessità di rendere davvero accessibili luoghi ed eventi, quasi a suggerire che adottando tutti gli opportuni accorgimenti, materiali e culturali, si possa in un certo senso far scomparire la disabilità.

L’autore dell’opera – è bene chiarirlo – non è soltanto un sociologo piuttosto noto, ma anche una persona con un difetto della crescita congenito e piuttosto evidente, ha origini altolocate e alle spalle una collaborazione con l’Organizzazione Mondiale della Sanità per la redazione del Rapporto mondiale sulla disabilità del 2011 che lo ha temporaneamente allontanato dall’insegnamento universitario e lo ha quasi obbligato a riesaminare le proprie teorie, prima fra tutte quella che prende il nome di “modello sociale della disabilità”. Profondamente influenzato dall’ideologia marxista, il modello sociale britannico riduce l’esperienza della disabilità a quella di una classe, oppressa economicamente e socialmente, contrapposta ad una classe di oppressori che essenzialmente comprende tutte le persone non disabili.

Una generalizzazione di questa portata sembrerebbe assurda, eppure Tom Shakespeare sottolinea l’importanza del modello sociale in ambito accademico e la rilevanza che esso ha avuto sul piano politico: l’ampia portata e la semplicità di questa teoria hanno infatti consentito di spostare il problema dall’individuo disabile – in precedenza considerato un malato, un’eccezione alla regola – alla società nel suo complesso, non organizzata per accogliere tutte le persone che effettivamente la compongono. Per quanto semplicistico, il modello sociale è alla base delle battaglie per l’abbattimento delle barriere architettoniche e della lotta per la vita indipendente e quindi dagli anni Settanta ad oggi non è mai stato superato del tutto, rimanendo all’interno del dibattito pubblico lo strumento più valido per scardinare la visione pietistica della disabilità e dare voce alle istanze delle persone disabili, finalmente in grado di essere soggetti attivi nella trasformazione di una società effettivamente inadeguata a rispondere ai loro bisogni.

Come però spiega chiaramente Shakespeare, immaginare con i teorici del modello sociale un villaggio interamente pensato per accogliere persone con disabilità, progettato così minuziosamente che sarebbe impossibile per le persone non disabili muoversi agevolmente al suo interno, capovolge il problema senza risolverlo. Oggi si è certamente più inclini a pensare nei termini della progettazione universale, secondo criteri validi quindi per tutte le persone, con o senza disabilità, tenendo inoltre a mente che le disabilità non sono solo di natura motoria, eppure nemmeno un ambiente completamente accessibile per chiunque eliminerebbe la disabilità, o meglio, la menomazione che ne è la prima causa.

Ogni tentativo di mettere al centro la menomazione è ormai controverso, e l’autore lo riconosce, ma nel farlo ricorda come la disabilità sia un fatto complesso, che emerge dall’incontro di caratteristiche fisiche, sensoriali o intellettive con elementi culturali e ambientali che non possono essere utilizzati per nascondere le differenze che caratterizzano il corpo e la mente di alcuni individui. L’analisi di Shakespeare sembra anacronistica, superata dallo spostamento dell’attenzione dalla persona con disabilità alle barriere che la ostacolano, ma la rimozione di uno scalino non comporterà mai, ad esempio, la scomparsa del dolore neuropatico dovuto a una lesione midollare che l’autore spiega di aver subito, una menomazione che in un secondo tempo si è aggiunta al deficit della crescita e lo ha obbligato ad utilizzare una sedia a rotelle. L’ulteriore menomazione è parte integrante dell’esperienza del sociologo, e accresce la sua disabilità a dispetto di tutti gli sforzi che il modello sociale ha compiuto per promuovere il tema dell’accessibilità.

Il successo politico del modello sociale, che tutti noi ormai, magari inconsciamente, adottiamo, rischia di togliere spazio all’esperienza concreta della disabilità, che spesso comporta dolore e fatica, riducendo ad esempio le opportunità lavorative e la libertà di spostamento. Il punto di vista di Tom Shakespeare sembra condizionato da un forte pessimismo, eppure il sociologo ha la capacità di riportare al centro della discussione il tema della giustizia sociale e della redistribuzione delle risorse, spesso relegato in secondo piano. La disabilità comporta costi maggiori per persone che in molti casi sono fisicamente costrette a lavorare per un numero di ore inferiore o addirittura del tutto impossibilitate a svolgere attività remunerate, e la dignità di queste persone non può essere il risultato della loro integrazione in una società idealmente priva di ostacoli materiali e culturali; il riconoscimento della dignità delle persone dovrebbe piuttosto essere il motore dell’inserimento di tutti gli individui nella società.

 

Disabilità e società è quindi un’opera scomoda per accademici, politici e attivisti per i diritti delle persone con disabilità, soprattutto se personalmente disabili: i privilegi di cui lo stesso autore gode in quanto nobile inglese o grazie alla propria posizione di docente universitario, non modificano la sua identità di persona con disabilità ed è anzi questa irriducibile e profonda diversità a permettere all’autore di mettersi in gioco personalmente utilizzando gli strumenti culturali di cui dispone per andare oltre la stessa cultura della disabilità. Da tempo il modello sociale convive con gli studi culturali della disabilità, che mirano a descrivere ogni diversità – non solo quella fisica – come il prodotto di una mentalità collettiva repressiva che dividerebbe gli individui e le loro caratteristiche in normali e patologiche, imponendo alcuni schemi relativi a ciò che l’uomo dovrebbe essere e fare, e censurando tutto ciò che se ne discosta.

Proprio come il modello sociale, gli studi culturali sulla disabilità hanno il merito di mettere in discussione ciò che appare ovvio e consolidato, insistendo nello specifico sulle parole che si usano per descrivere persone e situazioni, mostrando quanto i termini del discorso influenzino il modo in cui si percepisce la realtà. Tuttavia, è ben difficile credere che il discorso che si fa sulla disabilità crei la disabilità stessa, come secondo Shakespeare farebbero gli studi culturali. Non solo il discorso pubblico e istituzionale, ma anche i discorsi privati devono essere esaminati e spesso modificati: si dice ormai “disabilità” e non “handicap” termine che rimandava all’accattonaggio e all’emarginazione, ma questo non cancellerà le menomazioni o anche solo le differenze sensoriali che sono alla base della disabilità stessa. Allo stesso modo la diagnosi di un disturbo dell’apprendimento può spaventare, poiché le persone interessate potrebbero temere di essere considerate incapaci o inferiori, ma è sul pregiudizio che bisogna agire. Come spiega l’autore, è possibile pensare che se la società non richiedesse abilità di lettura standardizzate la dislessia non verrebbe nemmeno diagnosticata, eppure viviamo nell’economia della conoscenza, ed è quindi giusto che le persone con dislessia ricevano supporto, poiché la difficoltà esiste indipendentemente della diagnosi e dalla stessa necessità di leggere.

Tom Shakespeare ritiene che il modello sociale e gli studi culturali possano essere considerati totalmente validi solo da coloro che non sperimentano la disabilità o hanno già abbondanti risorse per compensarla, ma si tratta comunque di importanti strumenti di trasformazione della società a disposizione di quanti, accettando la disabilità come diversità ineliminabile che però non riduce il valore della persona, vogliano lottare per rendere la società davvero inclusiva.

La lettura di questo saggio è fortemente consigliata ad operatori e persone con disabilità che abbiano familiarità con i disability studies: il taglio molto pragmatico del lavoro lo rende originale e stimola chi legge ad adoperarsi per produrre un vero cambiamento.