È facile parlare di disabilità (se sai davvero come farlo)

Letture consigliate

La comunicazione giusta per un mondo inclusivo

di Iacopo Melio

L’intento dell’opera qui presentata risulta immediatamente chiaro a chiunque legga il titolo e il sottotitolo: parlare di disabilità non solo è possibile, ma addirittura facile, a patto però di saper utilizzare le parole giuste, che l’autore indica con grande sicurezza, ricorrendo a comodi specchietti, come quelli che si trovano solitamente in un testo di lingua inglese per le scuole.

Il volume è infatti pensato come un manuale della comunicazione inclusiva. Nell’introduzione Iacopo Melio si propone di contribuire a trasformare così profondamente il modo in cui si parla di disabilità da rendere superfluo ogni discorso specifico sull’eliminazione delle barriere architettoniche, sul diritto delle persone con disabilità ad una vita sociale ricca e non separata da quella delle persone non disabili e su ogni altra forma di discriminazione subita da coloro che hanno una disabilità.

Ovviamente si tratta di un obiettivo estremamente ambizioso e quasi irrealistico, ma sicuramente condivisibile; colpisce però moltissimo che per rappresentare in modo più concreto il proprio scopo, l’autore ricorra ad una fotografia che ritrae un ragazzo in carrozzina seduto di fronte ad una ragazza evidentemente non disabile. Entrambi sorridono e sembrano già trascorrere un momento piacevole, ma nella pagina successiva l’immagine è tagliata di netto, così da mostrare solo i volti sorridenti dei due: la carrozzina scompare completamente.

Sembra quasi, insomma, che il modo corretto di comunicare la disabilità sia nasconderla. Naturalmente l’intento è esplicitamente un altro, e Melio prosegue infatti con un’analisi critica di alcuni termini, come “diversamente abile” (superato in bruttezza solo da “diversabile”) che sono eufemismi probabilmente amati più da chi disabile non è, e magari prova una sorta di imbarazzo avvicinandosi al tema della disabilità. Utilizzare quest’avverbio prima di un aggettivo, inoltre, è ormai un modo per ridicolizzare una persona, definendola ad esempio “diversamente giovane” per sottolineare invece quanto sia anziana.

L’uso di termini che descrivono la disabilità a mo’ di insulto è una cattiva abitudine estremamente diffusa che ferisce quotidianamente le persone con disabilità, ma ancora una volta si insiste su quanto sia sbagliato parlare di diversità, utilizzando come esempio i successi della squadra femminile paralimpica alle recenti paralimpiadi di Tokio.

Davvero, si chiede l’autore, tre giovani atlete con disabilità capaci di vincere le medaglie più importanti, hanno qualcosa di diverso dalle loro coetanee sportive?

Pare proprio di sì, dato che oggettivamente hanno una disabilità causata da una menomazione, ma Melio, dopo aver giustamente notato come “diversamente abile” sia un eufemismo che ormai molte persone disabili rigettano, sembra insistere sulla cancellazione della diversità come strategia comunicativa davvero inclusiva.

Certo, il lavoro qui presentato vuol essere un “manuale pratico” per dirla con l’autore, e infatti l’analisi delle parole da non usare è giustamente seguita dalla proposta di termini invece giudicati corretti e rispettosi, poiché mettono al centro la persona. Il cosiddetto “Person-First Language”, per esempio, sottolinea come la persona con disabilità venga prima di ciò che la caratterizza come disabile.

Dire (e soprattutto dirsi!) “persona disabile” è però accettato da un gran numero di disabili, i quali rivendicano la disabilità come tratto distintivo della propria identità, e correttamente Melio rende conto di questa seconda opzione, definita non a caso “Identity-First Language”.

Ben vengano allora le istruzioni per l’uso, ma forse l’obiettivo non può essere parlare di disabilità non parlando di disabilità; è giusto parlare dei problemi che le persone disabili affrontano affinché tali problemi siano risolti, ma ciò non eliminerà mai la disabilità in sé, che è parte dell’identità di una comunità molto numerosa di persone.

Eppure, secondo l’autore, “la disabilità non esiste” e “io non sono la mia disabilità, ma le mie abilità”, come se più abilità fossero superiori alla disabilità, indicata al singolare. Queste frasi sono naturalmente inserite nel contesto di una rapida ricostruzione della trasformazione della percezione  della disabilità, originariamente vista come difetto individuale e problema di natura sanitaria, e oggi riconosciuta invece, anche dalle istituzioni internazionali, come questione sociale che riguarda la società intera. Se un gradino impedisce l’accesso ad un locale, la persona con disabilità non ha colpa, non è inadeguata (“invalida” è un altro termine purtroppo ancora ufficiale) e la sua inabilità a superare il gradino è il risultato dell’interazione di una difficoltà individuale con un ambiente cieco non soltanto alle esigenze della persona disabile, ma anche a quelle di un gran numero di individui, come anziani o genitori con passeggini.

La disabilità quindi esiste eccome in quanto questione sociale, ed esiste invece individualmente la menomazione. Il termine ha ormai una connotazione negativa, come l’autore sottolinea sconsigliandone l’uso, ma forse il problema si pone nella misura in cui si considera negativamente una parola, che sia la disabilità o la menomazione, e si cerca di trasformarla o di non dirla.

L’ambiguità rilevata fin qui è superata in maniera interessante da due saggi autonomi che riprendono però il discorso precedente, pubblicati a mo’ di conclusione del volume: Fabrizio Acanfora è scrittore e attivista autistico, e in poche pagine riprende in maniera efficace la discussione già riportata sopra tra quanti preferiscono dirsi persone con autismo e coloro i quali si dicono invece semplicemente autistici. Al di là delle scelte lessicali individuali, l’autore nota come l’autismo sia componente strutturale dell’identità di una persona, a tutti gli effetti una diversa organizzazione della mente, una neurodiversità che Acanfora finalmente rivendica, e che risulta invalidante in una società neurotipica scarsamente flessibile e preparata all’altro.

Il contributo di Flavia Monceri, la quale volutamente si definisce, in modo neutro, “filosofo politico”, risulta ancor più radicale del precedente: Monceri, riflettendo sull’insufficienza di tutte le definizioni, poco adatte a descrivere con parole universali l’esperienza individuale (e soprattutto l’esperienza della disabilità) invita ad abbandonare la pretesa di compilare un elenco di termini giusti contrapposto ad uno di termini sempre sbagliati.

Apparentemente così distante da Melio e dalle finalità pratiche del suo lavoro, Monceri chiude il discorso avviato da Melio condividendo la speranza espressa da quest’ultimo nelle prime pagine: che parlare di inclusione delle persone con disabilità serva a non doverne parlare mai più!

La lettura di questo volume è consigliata soprattutto in classe, come strumento di riflessione e confronto di gruppo sul significato e sul peso delle parole.