Il modello Torino, superare le difficoltà per uscirne migliori: intervista a Giuseppe Borgogno

Interviste

Nato a Torino nel 1958, Giuseppe Borgogno è Giornalista pubblicista e Funzionario della Regione Piemonte presso l’Ufficio Comunicazione Istituzionale del Consiglio Regionale.
Ha ricoperto la carica di Consigliere della Circoscrizione 5 dal 1985 al 1993, dove ha svolto il ruolo di Capogruppo P.C.I. e poi P.D.S.
È stato poi eletto Consigliere Comunale nel 1997 e nel 2001.
Nel giugno 2006 è stato nominato dal Sindaco Assessore al Personale, Organizzazione, Polizia Municipale, carica che ha ricoperto sino alla fine del giugno 2009, quando in seguito a rimpasto della giunta ha assunto la carica di Assessore alle Risorse Educative.
Nel mese di giugno 2010 ha ricevuto dal Presidente della Repubblica il titolo di Cavaliere Ufficiale della Repubblica Italiana per i meriti conseguiti quale Assessore alla Polizia Municipale nell’occuparsi dei problemi del risanamento di Parco Stura, dei campi nomadi, del contrasto allo spaccio e per la proficua collaborazione con le autorità di Pubblica Sicurezza.

 

Dottor Borgogno, sappiamo che la scadenza della Giunta cittadina rappresenta per Lei un addio e non un arrivederci. A questo punto avrà già fatto il Suo bilancio, che Le chiederei di illustrare.

È un bilancio che mi lascia tranquillo, che considero positivo. Noi siamo riusciti proprio negli ultimi mesi, tra la fine del 2010 e l’inizio del 2011, a raggiungere obiettivi che erano previsti dal programma amministrativo, ma che visto come sono andate le cose in questi anni – da un lato le difficoltà sempre maggiori che i bilanci dei Comuni hanno, dall’altro le ricadute della riforma Gelmini – a un certo punto, non nascondo, sono sembrati irraggiungibili.

Questi obiettivi si possono sintetizzare in un dato: siamo riusciti a superare i parametri di Lisbona sia per la fascia di età 0-3 anni sia per quella 3-6 anni, quindi mi riferisco ai servizi gestiti direttamente dalla Città. Si tratta di una serie di indicatori condivisi a livello di Comunità europea per misurare la qualità, l’equità e la modernizzazione della scuola. E Torino è stata l’unica tra le grandi città italiane, insieme a Bologna, a raggiungere questo traguardo.

Un traguardo di tutto rilievo, indubbiamente. Quale valenza attribuisce a un risultato del genere e quale ritiene sia stata la chiave per ottenerlo?

Lo considero prima di tutto un obiettivo raggiunto per il bene della città e delle famiglie torinesi. I risultati premiano un lavoro complesso, che si è basato sostanzialmente su due elementi. Il primo concerne la scelta, soprattutto negli ultimi due anni, di continuare, anzi direi di insistere – nonostante le difficoltà di bilancio – a investire sull’educazione e sul welfare. Abbiamo scelto di proseguire una filosofia di intervento che è nella tradizione dei Comuni italiani, cioè quella di essere innanzitutto erogatori di servizi per cittadini. E nell’ambito della scuola abbiamo addirittura scelto di aumentare le risorse nel bilancio.

Una scelta in controtendenza che è stata premiata. Parlava di un secondo elemento chiave.

L’altra scelta strategica che abbiamo operato e che secondo me ha permesso un salto in avanti, nonostante le difficoltà, è stata l’introduzione di una logica di sistema nelle nostre politiche scolastiche. Detto così sembra facile, ma in realtà non lo è per nulla. Perché bisogna superare una serie di vissuti e di consuetudini e riuscire a immaginare un sistema in cui convivono pubblico e non pubblico, privato e paritario, comunale e statale. Tutti questi soggetti insieme provano a darsi chiavi di lettura comune, a mettere in rete le risorse e anche alcuni strumenti per una gestione complessa, come la programmazione e la formazione, mettendo a disposizione ciò che ciascuno ha di meglio e di più.

Tra i risultati, oltre ai parametri che ha già citato, c’è qualche altro aspetto che Le sembra rilevante e di particolare soddisfazione?

Oltre ai risultati quantitativi, ritengo che queste scelte abbiano avvantaggiato la qualità del sistema. Noi oggi chiudiamo questa esperienza amministrativa mettendo a disposizione di chi verrà e della città un sistema ampio e di grande qualità. Finalmente si è aperto un confronto vero, uno scambio autentico di risorse, proposte ed esperienze. Questo è un fatto molto positivo.

Lei ha citato in più occasioni parole e concetti cruciali per il problema dell’handicap: la complessità, la logica di sistema e l’ormai acquisita coscienza che non esiste una linea netta tra welfare ed educazione.

Per quanto riguarda quest’ultimo aspetto, le politiche di welfare oggi devono avere una visione un pochino meno rigida, con una dimensione a 360° tutta da ripensare. Soprattutto se si considera che le politiche di welfare devono puntare su tanti aspetti: oltre al contenimento e la gestione, l’accompagnamento, la prevenzione, la mediazione. Qui sta il rapporto tra ciò che è pubblico e ciò che non lo è. Il pubblico ha come missione l’intervento nella necessità conclamata, in genere con strumenti di tipo assistenziale e di contenimento. Non ha nel suo DNA e nella sua storia quell’altro aspetto, collegato alla prevenzione e all’accompagnamento, che invece esiste nel privato-sociale. E allora allargando la dimensione e l’approccio di ciò che si può definire welfare, si può davvero fare sistema.

Questo si applica anche nel sistema scolastico e in particolare nell’assistenza all’handicap a scuola?

Con estrema complessità, più che in passato, perché, a proposito di numeri, se nel sistema scolastico torinese c’è una sufficiente copertura per quanto riguarda il sostegno all’handicap, questo si deve anche al fatto che noi paghiamo 140 insegnanti di sostegno che lavorano nelle scuole dello Stato. Abbiamo mantenuto inalterata questa voce di spesa, come ho già detto, nel quadro di un maggiore investimento complessivo per la scuola.

Lei ha detto “lavorano nella scuola” intendendo che è stata applicata la logica di sistema?

Esatto, abbiamo operato questa scelta anche consapevoli del fatto che si può aprire una serie di altri problemi. Per esempio, si discute molto di federalismo e io credo che uno dei passaggi fondamentali per una visione del federalismo municipale sia anche quello di verificare quanto già oggi le Città fanno svolgendo una funzione di sussidiarietà, che però costa. Cominciando, quindi, col dire che tutte quelle attività e quelle spese che hanno funzione sussidiaria e che i Comuni sostengono “per conto dello Stato,” devono essere tolte dai conti del patto di stabilità. Dato che il federalismo deve basarsi su una filosofia di sussidiarietà, questa mi sembra un’ottima occasione per applicarla.

Se provassimo ad applicarlo alla nostra città?

Proviamo a fare il conto di tutto. Partiamo dalle scuole di infanzia che a Torino sono per metà gestite dal Comune, anche se è un servizio che dovrebbe essere reso dallo Stato. Poi ci sono le insegnanti di sostegno nelle scuole statali dell’obbligo, a cui si aggiunge una serie di attività sussidiarie più o meno onerose: abbiamo calcolato che siamo tra i 30 e i 40 milioni di Euro. Sono veramente tanti, per capirci un po’ più dell’equivalente del taglio Tremonti fatto nel 2010 a bilancio già approvato e praticamente speso.

Certo, è un modo di governare che ha bisogno di risorse, che a loro volta vanno conservate grazie a un notevole lavoro. Su questo sta l’incertezza, ma anche la speranza che si voglia continuare in quella stessa logica e che si lavori davvero per mantenere le risorse utili.

Il punto è che c’è una condizione di generale incertezza rispetto alla quale i Comuni italiani possono fare poco. Io credo molto in ciò che viene sperimentato, realizzato e difeso dalla autonomie locali, dai governi locali; tutto sommato, credo che queste esperienze possano supplire, almeno in parte alle difficoltà di visione generale che caratterizza la politica di oggi.

E quello che ha realizzato Torino si può proporre come modello. Lei ha citato i parametri di Lisbona che hanno dimostrato l’eccellenza della nostra città nel settore educativo, ma il ragionamento si può replicare in molte altre situazioni, a volte integrabili con l’educazione.

Quello che abbiamo fatto a Torino diventa importante per la costruzione di politiche generali. Anche in questo caso, la speranza è che altri continueranno a pensarla allo stesso modo. Io sono convinto che Torino sia un modello, anche se molti lo negano. Credo però che non debba accontentarsi, né coltivare il fatto di essere un modello. Questo patrimonio va speso, specchiarsi non va bene. Però certe dinamiche generali inducono un po’ tutti al riflesso condizionato di difendere il territorio.

Che cosa si sente di lasciare come compito o come indirizzo per la squadra che raccoglierà il suo testimone?

L’invito a continuare su una linea che richiede elasticità e uno spirito che cerca il confronto e lo sviluppo alla pari. In quest’ottica penso che nel campo di una diversa visione del welfare, di una diversa visione di alcune funzioni generali della città e di alcune politiche dell’infanzia ci siano due cose da fare. La prima ha anche un notevole significato simbolico: a sigillo di tutto quel che abbiamo detto, Torino deve dotarsi di un garante per i diritti dell’infanzia. Questo sarebbe contemporaneamente un punto di arrivo e di svolta. Secondo, credo che nella lettura generale della città, del suo sviluppo, delle politiche pubbliche, il tema dei diritti dell’infanzia e di una città a misura di bambino, possa essere uno degli elementi strutturali di un nuovo piano regolatore cittadino. Intendo dire che nelle scelte strategiche che compongono il piano regolatore generale della città che andrà presto rifatto, questa visione deve iniziare a esserci, al pari di quella della sicurezza urbana. Le dimensioni della vicinanza, della lotta alla solitudine e alle barriere, sono certamente aspetti immateriali, ma nella filosofia attraverso cui si pensano gli sviluppi della città hanno un valore. Rappresentano un modo di leggere la città e di proporla. Si tratta di uno sforzo per lo sviluppo delle relazioni che oltre al valore umano intrinseco ha anche un ritorno su molti piani, compreso quello economico.

E che cosa si sente di lasciare di prezioso e compiuto a chi prenderà il testimone sul tema della disabilità?

Francamente, viste le difficoltà contingenti, l’essere riusciti a mantenere un supporto così forte per la scuola pubblica è un risultato. Anche perché ho ben presenti i momenti in cui abbiamo considerato l’eventualità di rivedere i nostri piani; il fatto di averlo evitato è per noi motivo di grande soddisfazione.

È anche una scelta di civiltà, di cui tanto si sente il bisogno in questi tempi.

 

Area ringrazia l’Assessore Giuseppe Borgogno