La leggerezza del pensiero creativo: intervista ad Alberto Munari

Interviste

Alberto Munari ha sviluppato uno straordinario percorso di psicologo ed epistemologo. Dal 1974 occupa la cattedra di Psicologia dell’Educazione presso la Facoltà di Psicologia e di Scienze dell’Educazione dell’Università di Ginevra e dirige il Dipartimento di Psicologia dell’Educazione, della Formazione e delle Risorse Umane. In Italia è Professore Ordinario di Psico-epistemologia dell’Apprendimento Adulto presso la Facoltà di Scienze della Formazione delll’Università di Padova.
E’ autore o co-autore di oltre 150 pubblicazioni, sia scientifiche sia divulgative sulle problematiche educative e della formazione, in francese, inglese e italiano.
Ha inoltre partecipato a importanti progetti educativi. Come esperto UNESCO hacontribuito alla riforma dell’insegnamento secondario in Costa d’Avorio (Africa).
Nel 1982 ha fondato a Ginevra, assieme a Donata Fabbri, il Centro Internazionale di Psicologia Culturale, che ha lo scopo di promuovere lo studio dei rapporti che gli individui sviluppano e intrattengono con il contesto culturale in cui vivono e lavorano. Alberto Munari è il Presidente dell’Associazione Bruno Munari.

 

 

Le parole dei protagonisti del Convegno: Elogio del Pensiero divergente, Chivasso 16 ottobre 2010. Fondazione 900 e Area Onlus presentano gli interventi di Alberto Munari, Rossella Bo e Alessia Tucci. Intervengono Diego Bionda e Giovanna Recchi.
Video a Cura di Area onlus. Parte I.

Professore, durante il convegno “Elogio del pensiero divergente” ci ha regalato tante buone notizie.
La prima che vorrei riconsiderare brevemente con Lei è il fatto che il pensiero creativo sia di tutti e per tutti.

Lo ribadisco, il pensiero creativo è di tutti e non è necessario distinguere la creatività come categoria a sé stante, basta far funzionare l’intelligenza. L’atto intelligente è di per sé creativo e ogni forma di apprendimento contiene una dimensione creativa.
E’ creativo quel processo di co-costruzione che, secondo quanto ci ha insegnato la psicoepistemologia genetica di Jean Piaget, costituisce la via di ogni apprendimento. Dall’interazione tra soggetto che apprende e oggetto dell’apprendere si elabora la triplice costruzione del soggetto conoscente, dell’oggetto conosciuto e degli strumenti stessi della conoscenza. Tramite questo processo di co-costruzione, costruisco me stesso mentre costruisco il mondo.
Ecco quindi che creatività e apprendimento non sono due concetti estranei, l’una all’altro, ma hanno invece parecchi punti di contatto. La creatività stessa, poi, non è un dono della natura, ma si può apprendere, così come apprendiamo gli strumenti cognitivi che ci servono per capire il mondo.

Invece si tende a parlare di creatività come di un’eccellenza riservata a pochi eletti, quelli che appunto rientrano nelle categorie degli artisti o dei creativi.

A questo proposito voglio citare le parole di mio padre, Bruno Munari, quando gli chiesi la definizione di opera d’arte: “L’opera d’arte è tale quando non lascia trasparire la fatica del gesto che l’ha fatta”.
Si tratta della leggerezza della maestria. Per meglio definirla e comprenderla vanno rimossi preconcetti pericolosi che ne riducono la portata e interferiscono con le riflessioni sulla creatività. Mi aiuterò con altre citazioni.
Si tratta di una leggerezza che contiene una grande energia, come afferma il romanziere inglese Gilbert Keith Chesterton: “Una forza mediocre si esprime con la violenza, la forza suprema si esprime con la leggerezza”.
Di una leggerezza che lascia poco all’indeterminatezza e alla genericità; anzi, per dirla con Italo Calvino: “La leggerezza per me si associa con la precisione e la determinazione, non con la vaghezza e l’abbandono al caso.” Non è dunque, come spesso si crede erroneamente, l’assenza di regole o di vincoli che favorisce la creatività. Anzi la creatività nasce proprio dalla ricerca di modalità originali per muoversi agevolmente all’interno di regole prestabilite.  E’ nel rispetto delle regole che appare la maestria dell’artigiano.
Si tratta dunque di una leggerezza strutturata e intenzionale, che sa in quale direzione andare seguendo un proprio percorso. E qui ruberei a Paul Valéry l’immagine che contrappone la leggerezza vaga della piuma a quella orientata dell’uccellino. Un uccellino che, un po’ come l’artista, si muove e sa muoversi entro vincoli e regole.

La leggerezza sembra una dimensione negata alle famiglie delle persona con handicap. Il peso a volte insostenibile della quotidianità, della cronicità e della irreversibilità allontanano dalla capacità di elaborare un pensiero creativo.

La soluzione sta nell’atteggiamento con cui affrontare le esperienze della vita. Possiamo scegliere un atteggiamento epico o un atteggiamento tragico. Con quello tragico gli eventi si subiscono, si vivono come provenienti dall’esterno e indipendenti dalla nostra responsabilità e dal nostro controllo, ineluttabili. L’eroe tragico, anche quando lotta è sempre minacciato dal fato che presto o tardi si abbatterà su di lui. Se adottiamo questo atteggiamento non ci resta che una resa rinunciataria e rassegnata, che conduce a lamentarsi e a ricercare i colpevoli.
L’alternativa è scegliersi il ruolo dell’eroe epico, coraggioso e avventuroso, in costante ricerca. L’atteggiamento epico ci porta ad assumere in prima persona le nostre responsabilità, a decidere con coraggio e ad affrontare le difficoltà senza cercare i colpevoli. In questo approccio ci si basa sull’incontro, il confronto, il dialogo e la conversazione.
L’atteggiamento epico ci obbliga a risolvere la domanda epica fondamentale: “Perché siamo quello che siamo allorché avremmo potuto essere differenti?”

Una domanda decisamente impegnativa.

Questo genere di domande è sempre scomodo, ma non vi si può rinunciare quando ci poniamo di fronte al sapere, alla conoscenza e agli eventi della vita. E la creatività rientra nel pensiero epico. Non dobbiamo dimenticare che la creatività si può imparare e il pensiero epico si può promuovere. Sempre nell’atteggiamento epico e proprio in nome della creatività ci si deve costantemente chiedere “Come si può fare questa cosa diversamente?”

E questo “diversamente” si applica anche al mondo della disabilità?

Un neonato quando nasce non sa che è con gli occhi che potrà vedere, che le sue orecchie sono destinate a sentire, che saranno le sue mani a toccare, ma lo impara piano piano, gradatamente. Allora se un bambino nasce cieco, ma non sa che è con gli occhi che avrebbe dovuto vedere, si potrà costruire, anzi co-costruire confrontandosi con i vincoli che il mondo gli presenterà, una sua percezione… “divergente”. E questa strutturazione può essere ulteriormente agevolata. Per esempio questo bambino nato cieco potrebbe essere aiutato ad imparare a  “vedere con l’udito” grazie a un caschetto sonar che gli permette di ricostruire il mondo circostante utilizzando le informazioni sonore, probabilmente meno “colorate” e ricche di dettagli di quelle visive, ma indubbiamente preziose per la sua creatività e il suo apprendimento. Esperimenti di questo genere sono stati tentati, con successo, dal mio collega André Bulliner dell’Università di Ginevra.

Un’altra buona notizia, che conferma ampi spazi per sviluppare una creatività per tutti.

Noi possiamo organizzare la realtà in tanti modi. Il bambino cieco con il caschetto a cui ho accennato prima in fondo non fa altro che organizzare la realtà come fanno i delfini, che hanno una vista molto povera, ma una sensibilità acustica molto sviluppata. Noi conosciamo e organizziamo la realtà tramite i sensi che ci troviamo ad avere, così come fanno tutti gli altri esseri viventi, dalle amebe ai bonobo.  Ma tra i molteplici sensi che possediamo, noi abbiamo deciso di privilegiarne solo alcuni: la vista, soprattutto, e poi un po’ l’udito. Così abbiamo perso – salvo rare eccezioni – la capacità di orientarci nello spazio con l’olfatto (come fanno i cani e molti altri mammiferi), o tramite la percezione dei gradienti termici (come fanno molti insetti), o della polarizzazione della luce (come fanno le api e gli uccelli), e così via. Tramite il nostro linguaggio evoluto, poi, continuiamo ad organizzare e strutturare la realtà secondo delle categorie che abbiamo deciso di privilegiare, a scapito di altre. Basti pensare al modo in cui si descrivono le persone affette da gravi patologie o disfunzioni: se li chiamiamo “handicappati” ci poniamo inevitabilmente nei loro confronti in un modo completamente diverso da quello che invece siamo portati ad adottare se li chiamiamo “diversamente abili”.  Ma potremmo anche non chiamarli in alcun modo, cioè senza un appellativo particolare, e forse allora capiremmo meglio quanto sono “normali”, e quanto anche per loro sono a disposizione le vie dell’apprendimento e della creatività.

Un approccio questo che sia Gianni Rodari, sia Bruno Munari conoscevano bene, entrambi leggeri nella loro maestria. Le chiediamo per gli amici di Di.To e di Area un ricordo speciale delle affinità tra questi due grandi creativi.

Certamente erano entrambi reciprocamente incuriositi, l’uno dell’altro.
Un loro comune denominatore era il dialogo creativo. Una straordinaria naturalezza alla conversazione, nel senso etimologico del termine: cum+versare: muoversi assieme intorno all’oggetto che si sta esplorando, non per convincere, non per spiegare, ma semplicemente per il piacere di condividere una curiosità. Ripenso alle conversazioni creative che mio padre, ma anche Rodari e Piaget, avevano con i bambini: nelle quali ciò che conta soprattutto è esplorare insieme tutto ciò che si può fare con delle matite, con delle carte colorate, con dei materiali diversi, e anche con le parole.  Poi, in seguito, ci si potrà preoccupare di che cosa risulterà alla fine. Mio padre non mi ha insegnato a disegnare: mi ha insegnato il piacere di tenere una matita in mano e di lasciare con questa una traccia su di una superficie, più o meno ruvida.
Anche mio padre ha scritto dei libri per bambini e illustrato fiabe dedicate a loro, comprese quelle di Rodari. Non è difficile immaginare la scimmietta Zizi o il gatto Meo, tra i primi giocattoli plasmabili di gomma piuma progettati da mio padre negli anni ’50, protagonisti di una filastrocca di Rodari.

Area onlus ringrazia il prof. Alberto Munari